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Giocateveli all'enalotto: 61 come i licenziati con il pretesto del terrorismo, 35 come i giorni di adamantina lotta intrapresa con la consapevolezza di perdere e per uno scherzo della cabala come le ore di lavoro settimanale richieste, 40 come le migliaia di servi in fila ad omaggiare il loro despota, 80 come l'anno della sconfitta, 14 come le migliaia di lavoratori allontanati un anno dopo la sconfitta, 6 come i milioni di mq di aree dismesse, unici residui della favoleggiata ricchezza che lascia la Fiat alla città che ha dovuto sopportare la brutalità del suo sistema di produzione in cambio della salute e di scorie socialmente esplosive, un impatto ambientale preoccupante quanto la smarrita identità sociale. Se ne parla nel film del regista di Cambiano, di passaggio, ma chi ha vissuto gli anni '60 e '70 a Torino ricorda immediatamente come un incubo le sere desertificate dai turni (mio padre come uno zombie alle 22 andava a letto per alzarsi alle 4,30 e prendere il primo tram; oppure la settimana dopo arrivava, stremato, alle 23.30 dal secondo turno): "La Fiat era una cappa opprimente per Torino". Lo è tuttora ed ancora più subdolamente, perché è venuta a mancare quella che nel film di Chiesa si definisce la "sana contrapposizione di classe".

Lanterne magiche marxiste

Ma allora è giusto rimpiangere quella vita prima della globalizzazione, che dagli anni di Gramsci ha costellato gli eventi di quattro generazioni di torinesi? Allora le dismissioni e i licenziamenti sono stati un'opportunità che ferocemente hanno imposto a migliaia di compagni di inventarsi una vita più soddisfacente? Certo, a vedere la risolutezza che ancora oggi contraddistingue Ebe, RSU nel comparto ospedaliero, dove si è riciclata con ben altre soddisfazioni; o ad assistere alla lanterna magica delle formichine in fila, realizzata da un altro intervistato, che si chiude con "Formichine di tutto il mondo uniamoci"; oppure ancora a seguire la giornata dell'aragosta rossa organizzata dal sardo tornato al suo paese "per leccarsi le ferite"; o ancora assistendo all'impegno di un altro per il Salvador prestato all'interno dell'associazione Mais (prima sede del Comitato Chiapas torinese): "Il Salvador è stato la seconda scuola di vita dopo la Fiat" (pensate cosa avviene al di là di quei portoni che dividono la società civile dallo stabilimento), verrebbe da dire che uscendo dai cancelli ammazza-fantasia di Mirafiori hanno preservato la loro irreconciliata irrequietezza verso la società prefabbricata da Romiti e soci, mentre chi è rimasto dentro la fabbrica si è spento, prono alla omologazione neoliberista, incapace di inventarsi un modo per tornare a contare. Forse la nostalgia rimane per quella che sarebbe potuta essere ben altra storia dell'industria italiana, se avessimo potuto gestire noi il lavoro, se anziché sovvenzionare con i soldi dello Stato i profitti dei privati, ci fossimo appropriati di quello che il lavoro aveva ampiamente guadagnato, se ci fossimo fatti restituire le ore di vita rubate a mio nonno, a mio padre e ora a me. Ma questi sono sogni e nessun film può documentarli benché, come dice nel finale uno dei cinque, citando non so quanto consapevolmente una massima zapatista: "Io faccio cinque passi e lei ne fa altrettanti, allontanandosi, ne faccio altri dieci e lei si avvicina all'orizzonte di dieci. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve a farci camminare"


Ritorno all'inizio dell'ipertesto: Potere Operaio

    visto al Torino Film Festival No rights reserved © 1999