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Torino Film Festival 1999Torino Film Festival - 1999
Retrospettiva John Carpenter
They live (1988)

C’É QUALCOSA CHE NON VA, PICCOLINA?

Come se qualcuno si accorgesse improvvisamente di una qualche abominevole stortura, non evidente per tutti.

Il mondo di Carpenter ha parecchie analogie con gli inenarrabili incubi di H.P.Lovecraft: il racconto intitolato Nyarlathotep s'inizia: "Io sono l'ultimo, e parlerò al vuoto in ascolto". Evidente l'identità di intenti con The Thing e con il timore per la scomparsa della razza umana per mano di elementi soprannaturali o alieni; quei fantasmi che popolano la nebbia sembrano sorgere dai diaframmi lasciati pericolosamente aperti da qualcuna delle paurose immaginazioni del gotico scrittore di Providence. Per entrambi gli autori l'orrore proviene da elementi esterni che s'insinuano sotto mentite spoglie di falsa normalità in un mondo non sempre connotato goticamente (The Invisible Man, Christine, Chinatown, ...), o invece caricato all'inverosimile di orpelli che acuiscono il cupo universo in cui s'inserisce il plot (Le due fughe dalle metropoli proiettate nel futuro, The fog per il passato e Vampire$ in un presente particolarmente malato, come i più infernali titoli del corpus che più risentono dell'assedio delle forze malefiche).

They live è a cavallo delle due concezioni dell’orrore - dei due mondi - e si colloca a metà nella filmografia del regista; questo può avvenire in virtù dello sguardo prestato ai protagonisti dagli occhiali che commutano la percezione del mondo su livelli di sensibilità diversi e quindi viene proposta nello stesso film una duplice fenomenologia. Al contrario di quello che potrebbe avvenire nel mondo di autori postmoderni, Carpenter mantiene le certezze di epoche militanti nelle quali non si avevano dubbi riguardo a quale fosse il giusto modo di interpretare i segnali provenienti dal mondo: manicheo, eppure efficace e suggestivo. Dunque non c'è dubbio su quale sia la percezione ingannevole: è quella del capitalismo che controlla tutti i mezzi di comunicazione truccati. Non ci sono ambiguità, pur arrecando un certo schematismo e qualche retorica in certi dialoghi, questo impedisce il gioco sul dubbio relativo al giusto approccio o alla confusione postmoderna tra i molteplici elementi del racconto che qui non si sovrappongono; l’unica ambiguità è relegata alla figura di Holly Thompson, rinnegata che tradisce due volte, ma il suo personaggio non ha nulla della doppia valenza delle donne postmoderne di Lynch, invece si colloca nella tradizione di donne fatali, ambigue perché traditrici e al servizio del potere: la frase che la identifica la pronuncia lei stessa ("Uno che è armato non può dire mi dispiace. È lui che comanda"), prona al volere del padrone, chiunque sia.

Molto significativo è il fatto che il mondo vero è in b/n, mentre la favola a colori è ingannevole: in bianco e nero (eroico nel ricordo di Carpenter che omaggia i suoi film di riferimento anche da orpelli quali la telecamera volante fatta esplodere dal fucile del protagonista o l’orologio che funge da teletrasporto rudimentale, aprendo varchi come Time Bandit dei Monthy Python) infatti è il mondo reale che sopravvive alla trasformazione indotta dal colore venuto dallo spazio, elemento che nasconde la cruda realtà del bianco/nero (un racconto scritto nel 1927 da Lovecraft s'intitola appunto The colour out of space: "Era soltanto un colore venuto dallo spazio, spaventoso messaggero degli informi reami d'infinito al di là della Natura quale noi la conosciamo; regni la cui sola esistenza sopraffà il cervello e ci agghiaccia dinanzi ai neri golfi extra-cosmici che spalanca ai nostri occhi atterriti"). Arkham però si trasferisce a Santa Fé: non è un incubo naturale come quelli nascosti dalle brume del nord-est come per The Mouth of Madness (una versione di Dunwich nel Massachussettes animato da Lovecraft), nel caso di Essi vivono l'orrore proviene dallo spazio profondo, non è interno ai cromosomi di ciascuno, ma ancora più inaccettabile, perché arriva dal Fondo Monetario Internazionale sotto forma di mostri alieni prodotti dal neoliberismo, malattia estrema del capitalismo che conduce addirittura guerre umanitarie, preferisce non apparire minaccioso, anzi: "Fanno di tutto per arricchirci. La terra è il loro terzo mondo: sono liberi imprenditori". Mostri appunto: dietro ai teschi femminili i più accorti riconoscono inorriditi Emma Marcegaglia, mentre i siparietti sul quotidiano additano gli ultracorpi in carrieristi e brave borghesi impegnate a organizzare parties. La discesa in luoghi da dove scaturiscono mostri esterni alla realtà, prodotti dall’interno della stessa, che viene sostituita da quelle evocazioni malefiche è patrimonio comune di Lovecraft e Carpenter fino all’apoteosi di Vampire$.

Il cinema ha il compito di aprire gli occhi agli spettatori e gli occhiali sono l'espediente senza chiarificazioni (come avviene anche in Lovecraft: mai si dà una spiegazione ai fatti più incresciosi, perché così l’innominabile aggiunge inaccettabilità all’orrore) che permette il disvelamento, una conoscenza dolorosa, perché la mente umana deve sforzarsi per mettere in correlazione il contenuto del mondo prospettato dalle lenti e le proprie nebulose convinzioni: infatti i primi trenta minuti sono dedicati alla lenta presa di coscienza di Roddy Piper, ripercorrendo gli stadi della adesione alle idee radical a partire addirittura dal proclama ("Io credo nell’America: seguo le regole"), gradualmente - solo al trentesimo minuto di proiezione indosserà i miracolosi occhialini - incuriosito dal movimento clandestino, di cui non diventa militante: fiancheggia senza ideologismi, pragmatico e individualista, come Snake (non casuale che il predicatore che rivela via etere la presenza degli alieni sia cieco: tutto passa attraverso qualche grado di percezione visiva e non sempre maggiore capacità di osservazione proviene da impeccabile dotazione visiva: Plissken ha un occhio bendato), fino a ribaltare il presunto maccarthismo contro il nemico comunista insospettabile, rivelato invece come il peggior yuppie, membro di orde immonde e abominevoli come gli squamosi mostri di Innsmouth. Non possono essere distrutti, ma vanno ricacciati nell'oblio. E questo è un impegno irrevocabile per l’anarca luddista carpenteriano, armato in questo caso soltanto di occhiali, mezzo individuale di visione chiamato a combattere quello collettivo rappresentato dalla tv; è questo il film del corpus in cui si pone il problema di ottenere la complicità dello spettatore nella verosimiglianza di quel che il film va mostrando, se ne seguono i meccanismi, si usa una grafica repellente per mostrare quanto siano squallidi i messaggi pubblicitari, che si palesano per quello che in realtà sono: ordini di obbedire, consumare, non avere pensieri indipendenti, spendere, sottomettersi, uccidere la fantasia. Questa è una scelta meditata: sfidare le regole grafiche per confermarle; se è convinzione comune pensare che le scritte urlate a caratteri capitali lapidei non trovino rispondenza nel cervello per la loro freddezza, proprio quelle forme sono selezionate per imporre subliminalmente la volontà aliena, ma con il duplice compito di mostrare il loro squallore una volta depurati del velo che ne nasconde la pericolosità, rivelandone l’aspetto tombale, che caratterizza ogni legame con gli alieni.

Cthulhu, il colosso d'argilla evocato dalla febbricitante immaginazione di Lovecraft, forma fluttuante di mostri, idolo spettrale e disgustoso trova protezione e potenza nella corrispondente carpenteriana stazione televisiva Cable 54 ("La Cosa disgustosa attende e sogna nell'oceano, e il decadimento si diffonde per le vacillanti città dell'uomo", H.P.Lovecraft, The Call of Cthulhu). Il palazzo che ospita il male non è nemmeno connotato come gotico di fine settecento, non è la casa Usher, la decadenza non riguarda soltanto la vecchia cultura coloniale, ma tutta la società e s'infiltra nei grattacieli modernisti, non nei sotterranei dei film della Hammer, ma sul terrazzo: il feticcio è l'antenna televisiva. Eppure non è il mezzo ad essere sotto accusa, ma il suo uso, tant'è vero che tolto il filtro di ottusità aliena e mercantile la televisione diffonde velocissimamente il segnale di pericolo, con evidenza mostra i cadaveri ambulanti ("Non appena mi comparve dinanzi in quel soffio di aria fredda, io sentii per lui una ripugnanza che niente nel suo aspetto poteva giustificare. Soltanto la sua carnagione tendente al livido e il tocco freddo delle sue mani avrebbero potuto fornirmi una ragione fisica per la mia sensazione. Forse era stato il freddo a respingermi, quel freddo così anormale in una giornata tanto calda: le anormalità suscitano sempre avversione, sospetto e paura", H.P.Lovecraft, Cool Air). Fa un servizio di informazione di pubblica utilità, palesando le mutazioni indotte dal sonno della ragione e fin dall’inizio, piratescamente come in American way of life (I folli dell’etere), si tenta un uso ribaldamente clandestino del mezzo televisivo con le incursioni intrusive di programmi pirata. Non poteva poi mancare la polemica sardonica sull’atteggiamento ipocrita di additare come responsabile di quella scatenata nella società dall’ingiustizia sociale la violenza nei film (di Romero in questo caso, ma successivamente Wes Craven dibatterà il tema con maggior diletto): un momento metalinguistico immancabile nel cinema di Carpenter, in questo caso esplicitato verbalmente.

Questo non è solo il film in cui Carpenter fonde la tematica del panorama metropolitano (l’umanità assediata di Precint 13 o Escape from N.Y./L.A.) con l’orrore che proviene dal periferico (Fog), ma anche quello in cui la sottile aggressività della meccanica non tecnologicamente sofisticata (Christine) s'incrocia con quella dello spazio (ironica in Dark Star) e soprattutto con il pericolo insito nella società TELEVISIVA: l’attrice intervistata in televisione, che all’inizio del film dice di essere immortale e spaccia come unico valore la fama, comunica repellente artificiosità e lo sconcerto che media, pur non essendo ancora un mostro con piena evidenza, si spiega con il suo atteggiamento uguale a quello degli alieni, inserendola tra loro nel ricordo a posteriori; i personaggi della televisione sono in genere mostri che condizionano lo spirito del tempo in senso anti-popolare. E bisogna spegnerli come nel finale di questo film che anticipa l’epilogo dell’ultimo Snake Plissken.

Il blues che rintocca per l'intero film possiede una sua logica nel richiamo agli anni della Grande Depressione: il protagonista è un lavoratore costretto a emigrare all'Ovest, come Frank, il nero che proviene dalle acciaierie di Detroit, ripetendo il destino di milioni di lavoratori di quel periodo, che viaggiavano sui treni di Woody Guthrie, uno dei quali avvia il film: panoramica da destra a sinistra su una galleria che porta il titolo del film graffitato e treno che l'affronta in un movimento contrario fino ad incrociare il protagonista con lo zaino in spalla. Egli rappresenta tutti quei ribelli stirneriani della tradizione statunitense portata così spesso sullo schermo dagli eroi dell’epopea western agli esacerbati lavoratori degli anni ’20 fino agli irreconciliati post-reaganiani per passare attraverso le estreme propaggini dei movimenti ‘70s: in Carpenter tutta questa tradizione trova eco a partire dal cameratismo western, che in They Live trova adeguata espressione nell’incontro di wrestling che dura cinque minuti tra i due pards, senza esclusione di colpi a suggellare l’amicizia virile (Hawks?): "Non mi va che qualcuno mi segua, se prima non mi spiega il motivo" — "E a me non va di unirmi a qualcuno, finché non vedo dove sta andando". Un corpo a corpo degno di Fight Club, film assimilabile sia per comunanza di temi (lotta di classe), sia per l’uso delle sequenze di duello (l’arrivo nell’albergo con i volti tumefatti: "Non è grande l’amore?") e che dimostra il ruolo di passaggio fondamentale del cinema di Carpenter tra gli echi classici e le punte di attuale ricerca spettacolare della narrazione americana. Le cariche della polizia poi sembrano il calco da cui i Chemical Brothers hanno tratto gli sbirri del loro video.

Mi sembra che la motivazione del film si trovi nella battuta pronunciata nella banca, incrociata per caso sul suo percorso di prime rivelazioni: "Sono venuto ad annientarvi, anche perché ne ho le palle piene". L’esasperazione del blue collar è fatta di rimpianto per un passato alla Richard Brautigan ("Tanto tempo fa le cose erano diverse. Il mio vecchio mi portava al fiume, parlava del potere e della gloria. Ero salvo, mi sentivo protetto") e di indignazione, può portare alla ribellione e l’homme revolté camusienne può arrivare a risultati diversi da quelli rincorsi dall’insurrezionalismo o dalla rivoluzione: privo di velleità organizzative, mirando a ben precisi obiettivi non generici, esacerbato da tutti i torti subiti nel passato ("Quei dannati devono pagarla perché io non sono più il bambino di mio padre"), spinto solo dall’intento di rivelare l’aspetto del potere, della comunicazione e dell’economia, di cui vuole distruggerne le molteplici facce, desunte dalle maschere di Halloween, ovvero l’orrore dallo spazio profondo originato ancestralmente. L’incubo di Lovecraft.

Adriano Boano

 

 

 

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