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Ritorno alla questione del DOCUMENTARISMO #4
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"dètour dopo trent'anni sui luoghi del documentario militante "
(«Il lavoro evolveva giorno per giorno»)

Nel paese scaraventato dal regime attuale al 77° posto nella speciale classifica della libertà di stampa - come sottolinea la rigorosa (e gustosa) inchiesta svolta da Sabina Guzzanti, a partire dal suo caso per spaziare nell'ambito della satira europea in un confronto sincronico (ma forse sfruttando meglio l'intervento di Fo si sarebbe potuta arricchire con una disamina diacronica nei secoli per vederci infitti all'ultimo posto anche dopo i Comuni medievali), volto a farci ridere di rabbia con gli esilaranti motteggi della Francia a Chirac o persino di Blair-Liar - solo nelle caverne cinematografiche (o nel chiuso dei dvd casalinghi) si riesce ancora ad assistere a film che perpetuano il motto di Glauber: «Un'idea in testa e una cinepresa in mano». Peccato che risalgano o si riferiscano a trenta e più anni fa.



Avviene anche questo nei festival, non solo patinati filmini tra il creazionista e il darwiniano; benché il bisogno di accedere a ingenti stanziamenti elargiti da enti locali comporti scelte che testimoniano una volta di più la realtà di quel 77° posto assegnato all'Italia nella classifica della libertà di stampa. Infatti un Festival Cinemambiente che - a Torino! - non cita mai, né ospitando film, né prevedendo tavole rotonde, né - come sarebbe bellissimo per un festival che si vuole schierato - inventando uno stage per imparare a raccontare la vicenda Tav (a proposito, il film di Adonella Marena è stato costretto a non essere ufficialmente pronto?), si riscatta con una mini-retrospettiva di Jean Rouch, che invece lo stage qui a Torino lo aveva fatto nei primi anni Ottanta all'interno dell'allora Festival Giovani. Il silenzio sul Tav è una vergogna olimpica (in città ormai paragoni inferiori a quelli olimpionici non si prendono in considerazione) pari quasi a quella a cui si è assistito durante la presentazione della rassegna in un bellissimo palazzotto art-nouveax in riva al Po (un circolo di cannottieri): far parlare il manager del termovalorizzatore ("inceneritore di rifiuti e produttore di diossina", per il volgo) è come invitare il diavolo sul pulpito della cattedrale

Comunque in questa giornata di sciopero di una categoria, quella dei giornalisti, che più servile non potrebbe essere 8di nuovo la Guzzanti ci viene in aiuto per stigmatizzare: mi indigno da decenni sul fatto che i nostri giornalisti non facciano mai la seconda domanda, quella che incastra il potente di turno alla sua insipienza, usando la sua inutile facondia per inchiodarlo... tutti noi la suggeriamo dalle nostre case e il giornalista non la fa: stavolta un giornalista vero, tedesco, dichiara pubblicamente che questa omissione è uno scandalo. grazie, Sabina), ci è sembrata una boccata d'aria poter rimeditare su quattro film inseriti nel programma: due biografie e due inchieste, che l'anima più defilata del festival ha scovato, forse all'insaputa dei mecenati, o forse i funzionari della Regione non sanno riconoscere i reali pericoli che possono derivare dai film "militanti". Quello che è sconfortante è che sembrano lontanissimi nel tempo alle nostre spalle... a parte uno, ammantato di genialità a quasi quarant'anni da La Jetée, in anticipo sulle dodici scimmie di decenni e di nuovo oggi freschissimo nell'apparente distacco dei gattacci che Chris Marker pone a baluardo della libertà.


Raymundo, il film sul regista Raymundo Gleyzer, raccontato da Ernesto Ardito e Virna Molina ha riempito la saletta del Cafèliber sulle rive della Dora..., quasi contraltare fluviale della presentazione ufficiale sul Po, prologo al Festival cinemambiente. Soprattutto era presente Taty Almeyda e il suo foulard che di giovedì insegna al mondo da decenni cosa significa la disaparecion, che è come il passamontagna degli zapatisti: due realtà latinoamericane, di quella parte del mondo che sta risollevandosi dopo che l'ingombrante vicino yankee è occupato altrove, come si dice fin dall'esordio nella bella biografia dedicata a Raymundo: "C'è un solo modo di riformare il sudamerica: la revolucion socialista". Un modo per portare al parossismo l'esordio di un altro festival cinemambiente, quello inaugurato da Fernando "Pino" Solanas, protagonista citato anche nel caso del film su Raymundo, che nel 1970 intervistò uno zapatista, non di quelli della Lacandona, ma di quelli che imposero la Costituzione più avanzata del mondo nel 1917. Ma non era un personaggio, bensì era tornato a fare il campesino, carico di tutta quella storia: la differenza tra documentaristi che facevano lavoro militante prima dell'orrido neoliberismo (le cui corna spuntano proprio con Nixon e Kissinger e al loro burattino Pinochet) e gli attuali è che avevano netta la percezione che la Storia erano i poveri pescatori alle Malvinas (non ancora teatro di guerra), che i personaggi noti vanno bene solo se ripresi come in un teatrino di marionette ridicole come ha fatto Sabina Guzzanti, salvo poi venire sommersa dallo stesso abisso di arroganza dei Gasparri e Petruccioli (moltiplicati a dismisura) e poterli ridurre alla portata di ciascuno nella parodia riciclata dallo spettacolo censurato.
Quelli di Gleyzer erano altri tempi, ma tutto è rimasto sospeso, come se si dovesse riprendere da lì, come già nel documentario dedicato ad Allende: sembra che dopo trent'anni si riesca a ritessere quella tela squarciata dai golpe e dalla desaparecion, solo che il film di Guzman riduce quella che era l'agiografia di tutta una generazione, che dal massacro di Telew, a cui Raymundo dedica un istant-movie carico di tensione e indignazione, diventa cifra del cinema militante, con Allende riduce quella energia positiva a una agiografia di una figura. sottraendogli carica e restituendo nostalgia. Forse è meglio cercare di recuperare lo sguardo di Gleyzer che "entrò nelle case degli abitanti delle Malvinas (oggi non si può più)", recita il commento puntuale del film attuale...

Quel mondo di lotte e di ideali è scomparso, eppure c'è una familiarità che consente di immaginare lo stesso piglio documentaristico di trenta, quaranta anni fa. Difatti nei film omaggio al cinema militante degli anni sessanta-settanta non sappiamo nemmeno più distinguere le epoche che si intrecciano: cosa cambia tra i soggetti antropologicamente studiati da De Seta allora e quelli che si accinge a studiare ora con lo stesso approccio di immersione totale nel loro vissuto quotidiano ("De Seta si era letteralmente immerso nel mondo dei migranti: con la cinepresa e l'acqua del mare chelo inzuppava completamente a cercare l'inquadratura giusta")?
E che differenza c'è tra i vigneron di Mondovino e gli abitanti della Lozère del documentario di Mario Ruspoli: Les inconnu de la terre, uno spicchio di 36 minuti ritagliato dal 1961? Sempre con quell'approccio, che vuole al centro le persone e il loro "ambiente", l'abitare: il Potere è lontano, estraneo e nemico, una entità che non ha nulla a che fare se non opprimere (anche nella figura di Echevarria, presidente mssicano de La Revolucion congelada di Gleyzer, ma pure nelle divise dei carabinieri di Banditi a Orgosolo), lontano dalla realtà rappresentata, quanto lo sono i pistolotti poetico-filosofici che introducono "gli sconosciuti della terra" o i matti pre-basagliani di Regard sur la folie - La fete prisonnière, che Ruspoli realizzò nel 1962, sempre nella Lozère. Sia Ruspoli e De Seta prima, che Gleyzer dopo, sapevano benissimo cosa stavano girando, erano coscienti di fare un'azione rivoluzionaria, più delle bande armate dei montoneros. Ma in fondo anche De Seta - intervistato nel film a lui dedicato - conferma che si era arenato trent'anni fa con Diario di un maestro, era di fronte a quell'impasse che gli ha impedito di proseguire di raccontare mescolando filosofia e rigorosa registrazione della vita quotidiana (forse perché dopo il 1973 i soggetti sfuggivano, non c'erano più comunità forti, non si riusciva più a introdursi nella vita quotidiana delle persone, divenuta più complessa e già costituita di immagini?), magari orientando i gesti degli attori che interpretano se stessi attraverso il suggerimento del tema da affrontare - che riguarda comunque sempre il corrispondente del minatore di solfatara o del pescatore di pescespada o del bandito barbaricino... - ma comunque senza manipolare altro che l'indirizzamento della interpretazione delle situazioni filmate sì da De Seta, ma che sorgevano spontanee dalla narrazione fatta insieme ai veri protagonisti, che vivevano quelle situazioni ogni giorno. E ora De Seta riparte esattamente da lì: significa che ci sono i presupposti per considerare simili le due epoche, ma anche che ci sono medesime condizioni da documentare. "Noi eravamo tali e quali come quelli che vediamo dell'Africa", dice un vecchio orgosolano, ripreso quarant'anni fa e ora rintracciato con altri da Salvo Cuccia per il suo omaggio Detour De Seta, mescolando il pastoso bianco e nero di Un giorno in Barbagia con i volti e le case attuali, facendo rispondere a un fischio in bianco e nero emesso dal ragazzo di allora dall'eco degli stessi monti a colori. E infatti De Seta infatti nel 2005 realiza un film sui migranti che arrivano sulle coste di Lu tempu de li pisci spata, oggi. Lettere dal Sahara.
E soprattutto dobbiamo affidarci di nuovo a un grande vecchio per trovare un bandolo e qualche speranza nell'intelligenza e nell'ironia anarchica: gli ultimi quattro anni raccontati da Chris Marker sono corrosivi per il potere mondiale (e dunque per il fascismo) e contemporaneamente un omaggio alla Resistenza nonostante tutto; la lucidità del suo Chats perchés è pari solo alla sua capacità di inserire l'analisi della Francia e del mondo dalle elezioni Chirac/Le Pen al 2004 all'interno di un sistema di barricate affidate ai gatti disegnati dal Chat (Confèdèration humaniste et anarchiste de travailleurs) sui muri parigini. La presenza dei gatti è cifra di capacità di opporsi all'autoritarismo, a volte si cade nello sconforto provocato dalla loro latitanza, ma poi riappaiono e tutto sommato ci rimane la speranza di poter resitere. Divertente, a tratti inventa soluzioni canzonatorie ma molto raffinate (come l'intrusione dei gatti nella storia dell'arte); sempre attento alal piazza, ma mai retorico grazie all'arte sopraffina dell'uso dei cartelli commentativi. Speriamo ci venga conservata una coscienza di tale acume e si opssa ancora divertirsi di fronte a un documentario, tanto "leggero" (in termini calviniani)eppure così pesante contro le mistificazioni del potere, e contemporaneamente così attento alle istanze del paese civile.
Marker è solo la conferma che quegli autori rigorosi e punte estreme dell'avanguardia di trent'anni fa, che hanno subito uno stop proveniente dall'incapacità del mondo di accogliere il loro messaggio, si trovano ora di nuovo nella condizione di esprimersi al meglio e questo festival nella sezione più corposa e attenta all'espressione militante ha avuto il merito di acorgersene e di raccogliere quel modo di documentare la vita di quegli anni, rivitalizzandolo e inserendolo in una vera nuova corrente di grandi vecchi.

 La madres Taty ha perduto il secondogenito, un ragazzo di vent'anni che ne avrebbe cinquanta, dunque lei non è proprio giovanissima, eppure... riesce con la sua sola presenza non a evocare, ma a rendere presenti le stesse richieste, gli stessi ideali di suo figlio, attualissimi in Argentina ora, tra piqueteros e idustrie rilevate e condotte in cooperativa dagli operai. Realtà quotidiana, come quella che abbiamo visto scorrere sullo schermo fino a qualcheminuto prima, filmata da Raymundo Gleyzer nei molti brani dei suoi film inseriti a documentare efficacemente i motivi della sua desaparecion... una scomparsa che è toccata anche al figlio di Tyta, militante dell'Erp e ha reso quotidianità anche per Tyta gli appuntamenti con le altre Madres de plaza de mayo.

Gleyzer commenta le riprese di un suo film La tierra quema, dicendo "in realtà quello che filmiamo è la loro vita": siamo di nuovo dalla parti di De Seta, Ruspoli... e i suoi film riescono a restituire la Storia dell'Argentina dal 1945 al 1975, trent'anni descritti come mai si è vista la figura di Peron (eppure Raymundo non era peronista, né di sinistra, né tantomeno di destra), ma il film del 2001 getta una spiegazione anche di quello che era diventato il paese sudamericano quando el pueblo del cacerolazo cacciò l'orrido potere neoliberista dalla Casa rosada.

Gleyser nella attuale Italia (ma anche in quella di Andreotti o Pecchioli di quell'epoca) sarebbe censurato come il film di Sabina Guzzanti, ma anche come quello di Ruspoli... o di De Seta (qualcuno lo ha visto?).

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adriano boano
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