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FIGURE NEL LORO AMBIENTE


È in corso a Torino il Festival Cinema Ambiente: per la quinta volta e s'inserisce in una contingenza che vede follie ("Abbattiamo le foreste, così non bruceranno", George W. Bush) e preoccupazioni (valligiani piemontesi in difesa della loro acqua o impegnati a mostrare come sotto il Musiné c'è l'amianto ed è follia - di nuovo - farci passare un treno ad alta velocità) alternarsi a esempi - nel loro piccolo - del possibile singolo impegno ecologista di chi passa per originale (e quindi di nuovo un po' pazzerello) e l'invito - a volte molto deciso, dadaista e dirompente come la casuale irruzione dell'onda "ciclica" dei matti di critical mass nel traffico per ribadire che il "traffico siamo noi" - ad abbandonare l'uso indiscriminato dell'auto, o perlomeno educarsi al rispetto del velocipede, spegnendo il motore per rispetto al passaggio della "massa critica".
La resistenza all'attacco nazi-fascista all'ambiente si fa anche e soprattutto difendendo il proprio territorio - non già da chi vi emigra per lavorarci, ma contro gli interessi di pochi criminali a detrimento di tanti cittadini - o meglio ricercando di nuovo una simbiosi con quello che ne rimane, riuscendo a confondersi nuovamente con l'habitat. In questo senso film diversi, di luoghi differenti, di autori e temi eterogenei, che non appaiono a prima vista a tematica ambientale, finiscono con il diventarlo per il modo in cui si colloca la figura dei protagonisti nella natura, sia essa il deserto algerino della legione straniera, siano i villaggi della verde pianura carpatico danubiana.
"Non guardare fuori dal finestrino è una scelta talmente egoistica che forse è responsabile anche dell'incredibile ingorgo stradale in cui sono bloccate decine e decine di veicoli nelle strade di Parigi". È una frase scritta da Andrea Caramanna in un reportage di quest'anno da Venezia per un film di Claire Denis (Vendredi Soir) e ci è sembrato corretto porre a confronto un intervento sul film precedente della regista francese (Beau Travail), non presente nella rassegna torinese con uno invece proiettato con successo al festival cinemambiente, Brass on fire (Iag Bari, 2001), di Ralf Marschalleck.

BRASS ON FIRE - IAG BARI

Regia: Ralf Marschalleck
Sceneggiatura: Ralf Marschalleck
Fotografia: Lars Barthel, Judith Kaufmann, Christian Maletzke, Markus Winterbauer
Musica: Fanfare Ciocarlia
cast: Ioan Ivancea,
Radulescu "Radu" Lazar,
Opricâ Ivcancea
Brass on fire non c'entra nulla con l'ambiente? Forse è sufficiente il fatto che il villaggio zingaro sia immerso in una campagna incontaminata stracolma di animali da cortile e maiali inquadrati con lo stesso amore di Kusturica. Anche Swing, il film di Gatlif troverebbe ampio spazio tra le possibili citazioni legate a questa opera che applica pedissequamente le strutture dei film musicali sulla comunità rom. Non è una pecca, perché questo consente di aggiungere le intrusioni delle tournée della "Fanfare Ciocarlia" senza ridursi a replicare Buena Vista Social Club in versione carpatica. E dimostra come non sia indispensabile costruire un film militante per parlare di ambiente. Le inquadrature sul paese e l'integrazione del treno, sicuramente non tav, senza incidere sul territorio più di quanto non facciano quei convogli che tagliano la pianura di Bartas; le stradine non asfaltate che diventano ammassi di fango erano problemi, ma non è necessario sconvolgere l'equilibrio del sistema con colate di bitume, bastano alcuni aggiustamenti per consentire una vita più confortevole; evitare che i ragazzini pensino che le galline sono quadrupedi non riducendoli a polli in batteria transgenica come Aia;... sono tutti elementi che si possono ritrovare nella cornice del film del regista tedesco, una cornice che diventa fattore essenziale, perché la musica nasce da lì, da quel paesino abitato da rom e lì ritorna sempre a ogni fine tournée. Il senso sta tutto in quella radice forte che lega il suono alla terra, che permette anche di conservarla, perché l'orchestra guadagna a sufficienza da poter risanare l'ambiente senza snaturarlo.
Questa struttura classica per i film sul popolo rom prevede una storia, preferibilmente infantile, da seguire come filo rosso - infatti nel finale scorrono i titoli di coda con la scelta geniale di collocarli su un treno in corsa, senza che fosse risolta la storia del flicorno trovato nel lago e portato ad aggiustare: e questo si avverte come mancanza finché non compare Marius con il suo strumento in mano pronto a proseguire la tradizione di quella musica - a cui si affiancano i sipari che spiegano come si è arrivati alla condizione di successo attuale attraverso flash back e ricostruzioni, feste e auto in panne nel più puro spirito ironico e trasognato (anche troppo stereotipato: il rumeno che beve, canta e balla), composizioni estemporanee di brani picchiettando su tavoli all'aperto o lasciandosi ispirare dal paesaggio visto dall'autobus.
Che tutto si risolva con il treno trova spiegazione nel bisogno di racchiudere in un anello l'esordio affidato all'arrivo in treno nella sperduta cittadina fangosa, dove con alcuni quadri si dà ragione della condizione di vita, di gesti ripetuti in un concerto di piena simbiosi con la natura, dove le case e le posture al loro interno sono esotiche e prive di una tridimensionalità riconoscibile per l'accumulo di tappeti, orpelli e colori che confondono la percezione e fanno entrare nella dimensione musicale, che sottende alla creazione della "Fanfara di allodole" (Ciocarlia) a partire da screzi musicali tra vicini e scherzi sonori, che poi - dopo la creazione della banda - diventano dispute per la creazione del repertorio. Fino a che dal bordello finalmente si risolvono i singoli assoli che si amalgamano.
Se la struttura è un po' risaputa e ci suggerisce sempre se era proprio il caso che dovesse esserci un elemento estraneo, ammaliato dalla cultura rom, a dare l'abbrivio al racconto (in questo caso Henry, tedesco che scopre, indirizza, guida e fa da manager alla fanfara di ottoni, come in Gadjo dilo era il ricercatore della musica di una cantante persa sempre da quelle parti), non altrettanto scontato è il montaggio, che al di là dell'alternanza dei molteplici racconti, non ultimo il tormentone del matrimonio a cui suonare e a cui finalmente presenziamo, riesce a seguire il ritmo della musica nel suo andamento forsennato, che si insegue anticipandosi, buttando sempre al di là del presente una nota a cui agganciarsi dopo una sospensione, e quando sembra esausta ed esaurita in ogni improvvisazione - e in questo le sezioni di prove sono momenti di filologia musicale intensa - trova un nuovo appiglio per rilanciarsi come in un burrone, come capitava nella Polveriera puntellata da interventi sonori di una banda che nella notte dava il ritmo della rincorsa a percorrere tutto il baratro a rotta di collo, così il racconto quando sembra aver consumato ogni dettaglio, incontra una nuova chiave per evolvere seguendo un nuovo tema (musicale, ma anche affabulatorio), già accennato e poi lasciato in caldo per un suo recupero.
Trattandosi di mondo rom non poteva mancare il sogno e a questo proposito va segnalata una sequenza splendida virata ocra che dà la cifra della componente onirica, in cui si vede lo sciancato che aggiusta gli strumenti occuparsi con arte sapiente al flicorno del ragazzino, che abbiamo visto sulla massicciata del treno addormentarsi in un tripudio di sole e colori; termina la breve scena di sogno e veniamo riportati alla realtà con un'inquadratura molto composita e ipersemantizzata: dal basso vediamo la massicciata occupata da un vecchio ai bordi dei binari (altro fil rouge è il treno), alle sue spalle improvvisamente corre un treno e senza che l'inquadratura muti si risolleva il giovane risvegliato, che va a occupare il quadro nel taglio basso, ma risultando così in primo piano. Davvero bellissima.
Altro aspetto interessante è come attraverso l'inseguimento della orchestra nei suoi spostamenti in tutto il mondo, si riesca a intuire quale possa essere la visione del mondo di questo gruppo di rom, ingenui forse, ma disincantati al punto da riuscire a mantenere il legame con la loro natura di cantanti di strada: a Tokyo riescono a convincere gli inflessibili vigili a permettere una esibizione estemporanea per strada dove coinvolgono i passanti in balli (stupefacente, vista l'abitudine di ritrosia dei nipponici) e prima e dopo la proiezione torinese, una rappresentanza di loro ha dato spettacolo di fronte al cinema. Unico modo per mantenere contatto con la fonte di ispirazione che consente di ripetere all'infinito temi cari a Bregovic (familiare è il vero filo rosso dell'intero film, cioè il tema musicale di kalashnikov, che percorre ogni brano, facendo da contenitore per gli altri temi che lo riempiono), che spiegano meglio di ogni ricostruzione degli uffici di Henry ed Helmut cosa sia una sarabanda zingara.
adriano boano

BEAU TRAVAIL

Regia: Claire Denis
Sceneggiatura: Jean-Pol Fargeau, Claire Denis
Fotografia: Agnes Godard
Montsaggio: Nelly Quettier
Musica: Erzan Tzur
cast: Denis Lavant (Galoup)
Michel Subor (Forestier)
Gregoire Colin (Sentain)
Marta Tafesse Kassa (Young Woman)
Richard Courcet, Nicolas Duvauchelle, Adiatou Massidi, Mickael Rakovski, Dan Herzberg, Guiseppe Molino, Gianfranco Poddighe, Marc Veh, Thong Duy Nguyen, Jean-Yves Vivet, Bernardo Montet, Dimitri Tsiapkins, Djamel Zemali, Abdelkader Bouti (The Platoon)
Produttori: Jerome Minet, Patrick Grandperret

Ci sono modi diversi per esprimere il rapporto tra personaggi e ambiente circostante, tra figure umane e paesaggio; esiste una tradizione americana in letteratura, ben rappresentata anche da esempi contemporanei, cui riesce una compenetrazione totale in virtù della quale la presenza e l'attività di uomini e donne, le masse umane e il loro lavoro fanno tutt'uno con lo scenario e anzi ne costituiscono elemento cardine: è il caso dei paesaggi selvaggi di Cormac Mc Carthy, pervasi di "estremo" in ogni violenza compiuta dagli uomini e dagli animali; è il caso, ancora più eclatante, dell'Underworld di Don DeLillo, in almeno tre suoi momenti, "geograficamente" molto diversi fra loro: le cinquanta pagine d'esordio, cioè la partita di baseball fra Giants e Dodgers all'origine, per causa della palla, di tutte le avventure successive; lo schieramento, nel deserto, di una serie di bombardieri demiurgicamente trasformati in opere d'arte da Klara Sax; il paesaggio urbano dei palazzi occupati dagli squatter dove vive, e muore, la piccola Esmeralda. La presenza, l'attività, diventa istantaneamente storia, poiché quest'ultima non preesiste, o almeno non preesiste con il peso cui siamo abituati in Europa. Un caso diverso è rappresentato da alcune cinematografie poco note: in molti film dell'area ex-sovietica la rappresentazione del paesaggio, ben suffragata da tempi e ritmi generalmente dilatati, concretizza un approccio lirico alle vicende umane, anche là dove il soggetto sia ampiamente intriso di storia, vuoi lontana e mitica (come era La leggenda della fortezza di Suram di S. Paradjanov, 1984) vuoi più vicina, come quella dell'epoca staliniana del turkmeno L'âme brulée (B. Abdullaev, 1995), inserito da Arté proprio in un ciclo dedicato all'Asia centrale.
Il discorso di Beau travail di Claire Denis è invece molto europeo, ancorché ambientato a Gibuti, propaggine peraltro, e avamposto, della Legione straniera. Idealmente ispirato al Billy Budd di Melville e, più da vicino, all'opera che ne trasse Benjamin Britten, il film è un viaggio estetico fra i turbamenti indotti dai legionari nel loro comandante, il Michel Subor che già aveva prestato il proprio ghigno al Petit soldat godardiano. L'universo del film è una "vita quotidiana di legione" i cui accadimenti si snocciolano senza una particolare consequenzialità: non perché la sceneggiatura abbia subito un processo di frammentazione o di decostruzione narrativa, ma perché l'operazione, al contrario, è una vera e propria composizione, in cui le varie parti si succedono come quadri esemplificativi, situazioni emblematiche, azioni iterate o consuete, connaturate alla vita militare ma anche espressione di una ricerca di vita radicale e forse disperata. Tasselli, accenni, ghirigori, ora drammaticamente rilevanti, ora "routinari", come esigono i palinsesti delle varie "corvées". Sono non-azioni proprio in quanto azioni ripetitive e poco motivate, accessorie, volte più che altro a mantenere in efficienza l'apparato e il dispositivo della Legione, dal punto di vista dell'efficacia tecnica (le esercitazioni) ma anche dell'umana coesione e dello spirito di corpo: così sono meno ridicole di quanto sembrino anche le operazioni del bucato e della stiratura, ogni legionario con il proprio ferro e il proprio asse, alle prese con la propria divisa. Tutte azioni, naturalmente, plausibili. La meno plausibile, e forse per questo più ricca di informazione, è quella che coincide con l'unico picco realmente tragico, il recupero del corpo morto di un legionario in seguito a un'esercitazione. Qui stava l'imprevisto, giacché anche l'esercitazione stessa è per definizione simulazione, realtà virtuale, esercizio di stile.
Lo stile, appunto, di queste occupazioni militari e paramilitari, è estetico, ed è inserito nell'ambiente arido eppure marino, d'acqua e di terra e di sabbia, trincee da cui scaturiscono prima le pale e poi gli uomini nella polvere che si alza. Lo stesso collegamento tra un episodio e l'altro, dunque, è definito proprio dagli accostamenti o dai respingimenti tra colori, ritmi, movimenti di uomini, a metà tra l'atletico e il danzato (Claire Denis ha lavorato anche con uno scenografo). La stessa ricorrente base musicale di Britten (cui fanno da contraltare i ritmi da discoteca dei locali notturni) è un basso continuo spaesante: è ovviamente musica, ma questa musica spesso, al suo primo segnalarsi in ogni nuova sequenza, è innanzitutto nota grave, prolungata, quasi rumore di fondo, per poi esplicarsi in linea melodica: un'ossessiva presenza che soggiace a tutte le esperienze, sempre diverse e sempre uguali, degli uomini. E i legionari stessi si integrano nel paesaggio nel senso della linearità: ampio uso del carrello, che rimanda certo al Wenders di cui Claire Denis è stata assistente, ma anche al cinema di linee e di superfici, all'ossimoro di una claustrofobia dei grandi spazi aperti (Lontano da Dio e dagli uomini di Sharunas Bartas, La prigioniera del deserto di Raymond Depardon, e, ancora prima, Fata morgana di Herzog): molte volte gli uomini sono silhouette appiattite sugli sfondi colorati, sagome, vivificate corporalmente solo nelle flessioni e nei piegamenti.
Se per l'immagine e per il ritmo, e soprattutto per il découpage, valgono dunque l'arbitrio (la cernita di azioni ritenute emblematiche) e la costruzione su base estetica, intellettuale e astratta, i rapporti fra gli uomini sono al tempo stesso formali, inconsistenti, omessi, sublimati. Lo stesso larvato turbamento del comandante per alcuni sottoposti deve continuare a rimanere inespressa, implicita: non tanto perché la sua esplicitazione farebbe precipitare le modalità della convivenza in quel piccolo mondo chiuso, portando a violenza, insubordinazione, regressione e forse, anche, gelosie. Ma perché esplicarla farebbe da valvola di scarico, allenterebbe una tensione che è l'unica ragione di vita del sistema, l'unico motore drammatico del film e del fortilizio, di un ambiente che vive solo riproducendo se stesso. Le dinamiche personali infatti si esprimono solo nell'apparenza estetica, nell'esteriorità, nel paesaggio, espressione, in questo senso abbastanza inusitata, di un'interiorità collettiva e cerebrale.
Alberto Corsani

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