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reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
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L'immagine leggera
Palermo International Videoart, Film, and Media Festival
21-25 marzo 2001

Nel cuore delle alghe e dei coralli: i cento passi di Peppino ImpastatoNel cuore delle alghe e dei coralli: i cento passi di Peppino Impastato documentario, video, di Antonio Bellia, Giovanni Giommi e Giacomo Iuculano
Inaugurazione del festival con "passione", nel ricordo prolungato di Peppino Impastato, (ri)percorso, attraverso le immagini del set e del fuori set. Il documentario "Nel cuore delle alghe e dei coralli - I cento passi di Peppino Impastato" regia di Antonio Bellia, Giovanni Giommi e Giacomo Iuculano, già presentato a Torino Film Festival, sembra indulgere, come del resto il film, nel territorio dell'indignazione. Chiama a raccolta le testimonianze "esterne", gli abitanti di Cinisi che non hanno partecipato al film, ma anche una comparsa. Dichiarazioni schiette, che non si possono neanche giudicare, di ignoranza vissuta tranquillamente. Forse il punto non è conoscere o meno chi sia stato Peppino Impastato, ma vedere a che punto i valori e gli ideali di Impastato facciano parte dell'orizzonte culturale della popolazione isolana, adesso. Ebbene il resoconto è abbastanza sconsolante e nel breve dibattito successivo al documentario si riscontra una certa amarezza, la stessa di chi si è impegnato in tutti questi anni contro i soprusi della mafia e ha visto cadere altri esseri umani colpevoli soltanto di aver alzato completamente la testa. Il documentario risulta un ottimo accompagnamento al film. Anzi probabilmente lo completa, nel senso che la parte narrativa del film intrisa di emozioni forti, drammaturgicamente indiscutibile, si rafforza laddove si scopre che il soggetto reale, la vita vissuta di Peppino, ha subito soltanto una piccola trasfigurazione sullo schermo. L'apologia appare come semplice ritratto e percorso biografico. In questo senso sono assolutamente pertinenti gli estratti dalle trasmissioni di radio Aut e alcune fotografie dell'epoca che mostrano perfino la somiglianza fisica di Impastato con l'attore che lo ha interpretato Luigi Lo Cascio. Nel montaggio complessivo che alterna i vari estratti, le testimonianze "esterne" risultano fuori contesto, inconsapevoli del discorso del film. Non dico che dovevano esser taciute, ma ancor più inutile è gettarle in un contesto di indignazione. Non sono una opinione convincente pro o contro Impastato, ma soltanto l'irresponsabile espressione di chi gioca ad essere ripreso dalla mdp, la stessa irresponsabilità di chi risponde a un sondaggio mentendo e fornendo risposte superficiali.

Dolce di Alexander Sokurov, Russia 1999, 61 min.
È semplicemente un manifesto di purezza espressiva anche questo film del russo Sokurov, passato a Venezia nella sezione Nuovi territori. Fissato nel gioco dell'immobilità dei corpi e nella mobilità della voce che trasporta i sentimenti. Gioco, come in Madre e figlio di vissuti drammatici, storie di famiglia. I moti dell'animo sussurrati. Parole e frasi quasi banali: "per i genitori la felicità dei figli è tutto". Percepiamo le ansie dei personaggio come il contenuto costante di un dolore, il peso, la gravità di ogni momento dell'esistenza, legato alla condizione di un particolare vissuto. La figlia muta saprà esser forte, abbastanza forte da sopportare con dignità la propria condizione di silenzio? La sopportazione e la tolleranza sembrano la più vera situazione dell'esistenza. A sottolineare il dissidio ed il contrasto tra i due campi gli esterni e gli interni appaiono scollati, il mondo là fuori dalla finestra, come da un piccolo oblò che porta il segno di un altrove minaccioso, la pioggia scrosciante di un impetuoso temporale. Il percorso si svolge sempre all'interno, in una stanza, appena descritta figurativamente, assorbita spessa dal flusso monocromatico, da una luce immobile come quella dei personaggi. Il gioco delle voci a tre, stessa parola che si rapprende in giapponese, in russo del traduttore (lo stesso Sokurov), dentro la nostra testa risuona come sottotitolo in inglese, e si ripercuote in un mirror, una eco della lingua che parliamo, in una estensione libera di suoni vocali, percorsi da un'intima dimensione dell'anima che è già nel timbro, nella vibrazione, nel cangiante volume.

Il super 8 della guerra del Kippur di Amos Gitai, Israele 1973, 12 min.
Il super 8 girato da Amos Gitai, quando era un giovane militare e partecipò alla guerra del Kippur come elicotterista.
Come nel film "Kippur", incredibilmente, questi pochi minuti, circa dodici, girati con una naivete che potrebbe sembrare sperimentale, danno completamente il senso profondo dello sguardo su un evento terribile: la guerra, nella sua totale imbecillità; di macchine-uomo che si spostano nella terra fangosa, il movimento, fine a se stesso, delle macchine-macchine. È lo svolgimento puro e semplice, meccanicistico, senza morali e retoriche di riferimento. In questo quadro impressionistico, confuso, la percezione delle masse è offuscata, rendendole indistinguibili, assorbite in un fluire cromatico che registra simultaneamente i paesaggi, il territorio della guerra, in un coacervo in cui sono assenti indicazioni nette. Un incubo protratto che nei pochi minuti del corto è ancora più sovraesposto che nel film-lungo, per i riferimenti extracinematografici. Sappiamo che è lo stesso Gitai che percorre sempre dietro una mdp il luogo espanso di un vissuto, lo iato denso tra i due "girati", quello personale che si conclude con la visione "fissata" della divisa appesa a una gruccia sul balcone, forse di casa. Indumento attraversato dal nulla che mostra la sua disturbante vacuità, e disgusta per alcuni segni: le tracce ombre di sangue, le lacerazioni del tessuto. Come in un percorso continuo ininterrotto di ombre, da un film all'altro, unite in una percezione perpetua, infinita, incessante.

Diane NerwenSpank di Diane Nerwen, USA 1999, 7 min.
Sotto la dimensione nascosta, quello che si può vedere, attraverso il processo di lavoro, che diventa anche critica, molto mirato su un discorso. Il film hollywoodiano scarnificato, riprocessato in una nuova sequenza che coglie, cortocircuitandoli in un istante-tempo lunghissimo, i movimenti insieme ai rumori dei personaggi, che diventano i fantasmi di una dimensione percettiva inedita.

 

Monkey's Birthday di David Larcher, Gran Bretagna, 1973-74, 360 min.
Estratto da:  From: Scott Stark ([email protected]), Re: David Larcher's film show in Berkeley
 In the opening shot of Monkey's Birthday (16mm, 1973), the camera is pointed out the front window of a car as it bounces along a dirt road in an arid desert landscape. A set of narrow grooved tracks is clearly seen in the road ahead of the car. Larcher, commenting on his film's first image and the tracks, says that he was traveling in his car on a road where  someone else had previously taken the same 50-mile journey, but "on foot, with a cart." This image locates the apparatus of Larcher's artistic process -- the car, the camera, his own cultural identity -- in relation to an earlier, more primitive technology. It is a fundamental technology of movement, of repetition: each step or turn of the wheel is a single element, a frame of film, a means of passage. In fact much of what Larcher does, through his meandering and obsessive use of special effects and drifting narratives, is paint a broad spectrum of moving image media, from the primitive to the highly processed, and by implication, from the rational to the irrational. Often I find optical effects tiresome. They seem heavy and self-indulgent, straining under the urgency of implied meaning, look-what-I-can-do splendor and a layered severance from reality. There was something about the way they were used in Monkey's Birthday, however, that pushed beyond the technique into another realm.

Monkey's Birthday di David LarcherPartly it was the obsessiveness -- the effects are so persistent and overly processed that after a while you stop  trying to read anything into them -- and partly the way Monkey's Birthday, originally a six-hour single projector work from 1973, was presented at the PFA, with two projectors running side by side, and Larcher himself talking over the microphone and wandering about the theater, tinkering with the projectors, switching reels, etc. Instead of merely showing a film, Larcher created a psychological space where you could enter and wander about where you chose. Larcher's relentless layering and reworking of his imagery can be thought of as defining the range of possibility. For example, something might happen to you in your everyday life, and in your mind you might have an extreme reaction to it; but what comes out in speech or in a final resolved thought is more moderated. You might repress the extreme thought, or not even acknowledge its existence. Yet understanding the limits of the extreme  helps to define the moderated, rational thought. Larcher's imagery acknowledges the limits without trying to explain or suppress them; cut loose from the realm of reason, an unspoken catharsis is achieved. The boundaries are widened, and you are able to locate yourself in relation to them. There are few *moments* in Larcher's work; instead, there are *passages*, movement between sections, channels between states of being. There are many ways to travel inside the work. Snatches of eastern philosophy, dense patterns, rippling textures, pictures within pictures, discordant sounds, movement through real and imagined spaces -- everything blends, connects and transcends. There are no starting and ending points, no defining foci  or moments of epiphany. Larcher talked often during the projection, his voice soft and gentle. "I was particularly pleased with the way this turned out...", he would say, or  "Here I was trying to..." It was as if he was guiding the audience into the work, gently nudging in this direction or that, and then at a certain point he'd become silent, turning us loose inside the densely layered imagery. As Konrad pointed out, at times he became a little too nervous, too much in control, not trusting the work to carry its own passage. I suspect he had been burned more than once in earlier screenings of it by reactions to its sheer breadth. Larcher described how he first showed it as a single projector work from 6am to 12 noon, enjoying the idea of people seeing it  shortly after waking, and then having the rest of the day to process it. At six hours, though, it would certainly be a formidable film to endure; and the authority of a single projector might have made it harder to drift in and out of the imagery. 

Mare's Tail di David Larcher

Mare's Tail di David Larcher, Gran Bretagna 1969, 150 min.
La deformazione sistematica è il procedimento di ripresa, la trasfigurazione dell'immagine Il volto umano fissato nel calco di gesso che si frantume, frantume l'identità dell'uno. La luna che sprofonda dal cielo sul terreno, si scorge tra i cespugli, la mosca che è forse agonizzante, una donna seminuda nella vasca da bagno gioca con una fede nuziale, è incinta. I gabbiani, gli stormi di uccelli ricorrono insieme al profilo del mare ora riconoscibile, ora irriconoscibile, da ignoto a noto da conosciuto a sconosciuto, diverso di nuovo da riscoprire
Serie di segni, segnali che si scompongono e ricompongono, si manifestano in una epifania di nuove figurazioni
Le testuggini pescate, trascinate sulla nave, si addossano in cumuli in attesa che l'agonia termini, sopraggiunga la morte, alcune espellono l'estremo movimento vitale, alcune uova che scivolano... poi solo i gusci ... vuoti scarnificati Il coito e la nascita, la vagina che si apre quasi in primissimo piano, e la testa il bagno del bambino appena nato una bellissima soggettiva dalla culla sulla quale penzola un pipistrello giocattolo Un gatto che mangia ripreso alla sua altezza  e del prato
I bambini percorrono  in una passeggiata accelerata, la partenza in nave bacini sessi corpi desideranti segni grafici alfabetici in libertà
Missing Scene. Lunghissimi schermi totalmente bianchi, separano percorsi tra i boschi, i menhir, ancora la luna, la lente d'ingrandimento deformante, una bocca, una palma, due infanti, una famiglia nuda forse un picnic, immagine scura, bianca alternanza...

Ich Tank di David LarcherIch Tank di David Larcher, Francia, 1983-98, 58 min.
Il titolo in tedesco si riferisce a das ich, the ego, l'Io psicanalitico, nel senso freudiano, anche se il video lo attraversa  nella concezione lacaniana;
tank, vale a dire la boccia, la vasca contenitore acquario dell'io. Alla fine del video vediamo compiersi la sostituzione finale. L'uomo dentro l'acquario, raccolto in una posizione quasi fetale, da osservare come il pesce rosso. Tutto l'ego è immerso dentro i limiti forse rassicuranti, confortanti dell'acquario. E lo sguardo ritorna a fissare la luce ipnotica, il vetro, che separa dalla dimensione "altra" dell'esistenza nell'acqua. Eppure questo guardarsi, come nello specchio lacaniano è il momento iniziale di una formazione-costituzione dell'identità, dell'essere uno, ego. "Lacan ha inventato la sessione breve così che non si potesse calcolare il tempo. Se riusciva a trovare il tuo significante in cinque minuti l'analisi era finita e potevi riprenderti i soldi".
Fish Analyst -
diagramma dell'isterico, il pesce sul lettino d'analisi
il mistero conjunctis: due persone fanno l'amore, si congiungono in un solo essere nella profondità dell'oceano
Il cardellino becca un vetro, autisticamente: "non si può combattere ciò che non si conosce"
Epitaffio finale - La morte del pesce.
"Era un pesce rosso indebolito, l'avevo salvato un paio di volte quando era rimasto intrappolato nell'erogatore d'ossigeno, ma la terza volta non ce l'ha fatta."
"La comunicazione è interessante, il non senso quanto il senso, sono uguali forse? o come il cupo frattale si apre a infinite possibilità, cambia sempre e non si fissa mai in nulla...
Alcune dichiarazioni di Larcher:
"Quando lavoro non riesco ad elaborare un'idea, parto con un lavoro, e con una tecnica, non c'è in quello che faccio una coerenza narrativa, questo film ha diverse versioni, addirittura ne ho proiettato versioni diverse contemporaneamente, dicendo cosa non andava nel lavoro, se c'era qualche errore, cosicché - sorride sornione... - posso anche distrarvi sulle imperfezioni... Alcuni hanno detto che questo lavoro è pretenzioso, dal punto di vista  didattico è certo impossibile come metodo."

Stereo 30 Drones for television #0, di Cane Capovolto, Italia, 2000, 15 min.
Flash, flash, flash, flash, flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash flash

Videovøid: Text di David LarcherVideovøid: The trailer di David Larcher, Francia 1993, 32 min.; Videovøid: Text di David Larcher, Francia 1994-96, 35 min.
"Una perdita di memoria provoca una perdita di informazione che passeggia in compagnia della Freccia di Zenone attraverso dei paesaggi elettronici verso il regno del vuoto a babordo del Vidus nel void".
Un uomo regge un'antenna televisiva, capta i segnali che arrivano dallo spazio. Lo spazio vuoto è un vasto mare composto da particelle. La trasmnissione binaria, lo zero e l'uno. Dove si trovano veramente gli oggetti la freccia di Zenone è immobile
Dirac: lo spazio vuoto non è vuoto
I piani disegnati da Larcher tentano di configurare una percezione di quello che non possiamo né percepire, né immaginare. Gli atomi che si spostano secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg. La realtà virtuale creata con la numerazione binaria è la trasmissione che si visualizza, la colonna che si forma, che informa e rende visibile il vuoto. I piani paralleli del virtuale che s'intersecano sono i piani solo concettuali della realtà che cerchiamo di avvicinare nella sua ineluttabile inavvicinabilità. Perfino tentiamo di abitare, costruire per dire che è fatta in quel modo. "Farò un verso di puro niente" (Comte de Poitiers). "Prima di spiegare agli altri il mio libro, aspetto che siano loro a spiegarlo a me. Cercare di spiegarlo per primo significa limitare immediatamente il suo significato" (André Gide)

EETC di David LarcherEETC di David Larcher, Gran Bretagna 1986, 69 min.
Il fuori è uguale al dentro... ? Five six, bussa alla porta muro legno sega elettrica.
The dra g gone
di-gi-tal is
occhio foto roman photos minions staylittle
La traccia, degli uccelli in volo. Coscienza della traccia, il mondo è per noi solo coscienza della traccia.
Seconda parte: il corpo
donna bianca, donne e bambini. Donna che stende i panni, bianchi. Procreazione.
Urina, sangue, sperma, escrementi, emorragia del ciclo mestruale. Allattamento.
Il fuori e il dentro, il dentro quello che chiamiamo interiorità.
Il muro si apre, no limits. Il varco si allarga, dentro e fuori, al di qua e al di là. Luce che passa, attraverso il varco, luce che trasforma senza trasformare, luce  bianca .
che chiamiamo colore.
Per noi la traccia è esterna?

Granny's is di David LarcherGranny's is di David Larcher, Gran Bretagna 1990, 78 min.
"I miei primi bozzetti in video U-matic realizzati grazie a mia nonna con la quale abitavo. Tutto è stato girato nei giorni di Natale dell''82, '83, '84 all'interno della camera che lei occupava dal 1943. Ne sono risultate 6 ore di materiale. Tempo dopo, nel 1988, ho ricevuto un finanziamento dal British Film Istitute per realizzare il video. Allora ho rimesso mano ai diari e agli album fotografici di mia nonna. Ho ricostruito la stanza di mia nonna esattamente come era disegnata in un piccolo acquerello che lei aveva fatto nel 1945" David Larcher. Nonna. Vecchiaia, assenza della vita che è presenza. La nonna davanti a molti schermi, ridiffusa, si rivede ella stessa, corporalità. La stanza che ruota nell'obiettivo. Stanza di giorno, di notte, Luce.
"In Granny's Is (1989?, video), Larcher presents a multi-layered portrait of his aging grandmother. Some sections are single image interviews, hand-held, with Larcher's interrogatory voice always behind the camera; in other sections there are as many as seven or eight shots of her matted into the screen simultaneously, with Larcher himself seen tweaking and prodding the imagery. It's impossible to know on which to focus; instead, your attention drifts between them, or to one or another, or else you pull back and look at the whole, assembling the many parts that make up this person, the cubist paradox of being able to see more than one thing at once. There is an impossibility of knowing that awakens in the viewer the possibility of all that is human; it is an acknowledgement of the infinite by demonstrating the futility of the finite." (Scott Stark)

Andrea Caramanna


Archivio:
1999