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Immagine leggera

Palermo: 9-12 marzo 2000

Jon Jost e Yann Beauvais aprono il festival
"Sono stanco e stufo del mercato mondiale, dell'arroganza della produzione cinematografica, per questo ho lasciato la pellicola, per dedicarmi al digitale. Sono libero così di produrmi i lavori, dato che il digitale costa in rapporto alla pellicola praticamente nulla" Così Jon Jost all'incontro con il pubblico, prima della visione di "The bed you sleep in" (Alla deriva), che appartiene al passato in trentacinque millimetri. "Sei pezzi facili" è invece l'ultima opera, sessanta minuti intensi d'esplorazione dello sguardo in pixel, percorso nel farsi e disfarsi della luce, scomposizione prismatica della radiazione elettromagnetica nelle componenti cromatiche. C'entra ancora la pittura come nell'indimenticabile "Tutti i Vermeer a New York". Sei parti che costituiscono un collage percettivo stimolante, le impressioni del dispositivo elettronico sottratte ancora a corpi, oggetti d'arte. Il primo "pezzo" dilata la luminosità notturna di una strada: i bagliori delle automobili in corsa si fondono coi suoni, le parole di un architetto in viaggio verso Venezia. Il secondo brano stimola un confronto tra Borromini e Bernini nel colonnato di San Pietro a Roma. La scomposizione-dilatazione del "normale" visibile, la dissoluzione della massa architettonica, tentano il superamento percettivo; gli oggetti ripresi confluiscono in un'unica sostanza sensoriale dominata dai colori più intensi della luce. Nel terzo alcuni bambini in divisa da boy scout a Lisbona sono osservati rigorosamente in una porzione rigida dell'inquadratura, dall'alto in basso, e con lo sfondo grigio del selciato di una strada. Il quarto pezzo si abbandona ai movimenti acquatici dei corpi in un'anonima piscina. Le parole, le frasi confuse, quasi un altrove sonoro perché dissociate dalla loro provenienza, costituiscono un flusso di pensieri, desideri che vagheggiano d'America o di semplici domicili a Parigi. Il quinto brano mostra chiaramente la divisione in split screen. Da una parte la giovane donna in un poligono di tiro, dall'altra la performance di un corpo femminile, una danza, che si libra in movimenti rotanti in persistenza retinica senza il peso della gravità. La ripetizione dei gesti, il fucile che spara il colpo, è ricaricato, il bersaglio che si sposta; dall'altra parte le fluttuazioni si alternano con dominanti cromatiche e spostamenti. Il sesto pezzo è quello più estremo. Una passeggiata in Santa Maria del Fiore a Firenze. Lo sguardo è totalmente diluito, attento deleuzianamente alle più piccole differenze e ripetizioni degli spazi che diventano sullo schermo superfici in cui lo spostamento del punto di vista scuote le innervazioni del visibile, prospettando orizzonti inediti.
È stata poi la volta del francese Yann Beauvais. Tre cortometraggi. I primi due in sedici millimetri, "Amoroso" e "New York long distance" sono rapporti fisici, sensibili dell'artista con gli spazi, i luoghi della propria esistenza. Dice lo stesso Beauvais di aver sviluppato una ricerca linguistica partendo da sentimenti affettivi. "Amoroso" è un diario intimo, omaggio diretto a "Eaux d'artifices" di Kenneth Anger, ma anche a Jonas Mekas. Correndo alla velocità di diciotto fotogrammi al secondo le immagini dei giardini di Tivoli tendono al rosso invece che al blu scelto da Anger.
Più formalista (quasi dadaista) "New York long distance" tenta un avvicinamento alla famosa metropoli anche attraverso i rumori frastornanti tra i quali sono disseminati tracce autobiografiche di memoria. Infine "Work and progress" (Lavoro e progresso), trentacinque millimetri, mescola materiale d'archivio (cinegiornali e brani da film) con riprese girate direttamente a Mosca. Quasi a ripercorrere l'immaginario, stereotipi e propaganda sia dall'est che dall'ovest, frammentandolo nella visione split screen.

 

Chris Marker: Una giornata con Andreji Tarkovskij
Chantal Akerman. Il Sud razzista.
L'evento speciale, doppio, triplo, perché in un paio d'ore abbiamo visto tre cineasti al lavoro. Chris Marker ha costruito l'intenso ritratto di Tarkovskij, continuazione sempre più necessaria del percorso-serie sui "Cineastes de notre temps" promosso da André Labarthe. E Chantal Akerman, anche lei, impegnata in un documentario che nasce casualmente dall'attrazione del Sud.
Marker punta lo sguardo direttamente sul meccanismo cinematografico tarkovskiano, pur non tralasciando episodi cruciali dell'esistenza del russo. L'esilio lontano dalla famiglia: nella prima sequenza la moglie Larissa e il figlio Andriusha finalmente riuniti, il gran regista è già malato bloccato in un letto. La fatica fisica è impressa nel lavoro del set del suo ultimo film, "Sacrificio", sequenza già registrata in un anonimo documentario svedese (di recente passato in una televisione a pagamento). La casa in fiamme è ricostruita dopo che il guasto meccanico ha impedito la prima ripresa. Il piano sequenza è per Tarkovskij, sottolinea perfettamente Enrico Ghezzi, "non una necessità espressiva o invenzione o prodezza tecnica, quanto slittamento dell'immagine in se stessa lungo un margine labile sempre appena spostato, impercettibilmente mosso". Il cinema di Tarkovskij è sempre, con le sue levitazioni, i suoi voli, un cinema di fantascienza anche se guarda non in plongée, ma dall'alto in basso, la terra (nella tradizione russa e come Dovzenko nel film "La terra") e non il cielo come il cinema classico hollywoodiano soprattutto western.
Il sud di Chantal Akerman è un territorio sottratto alle prime apparenze. Un tempo presente con un passato terribile che, ed è questo l'elemento inquietante, è pronto ad affiorare nella sua incredibile crudeltà. Le lunghe panoramiche dei paesaggi sempreverdi avvolgenti del sud americano di Jasper, Texas evocano le sommarie esecuzioni di neri, impiccagioni che hanno piegato per molto tempo i rami degli alberi. L'infinita tristezza del ricordo dello sfruttamento dei neri, gli assassini truculenti, normali, e le analisi dell'oggi di fronte all'ennesimo omicidio razzista, improntate, come quelle dello sceriffo, ad un sano pragmatismo: "il razzismo è il riflesso di problemi economici. Occorre risolvere questi per avere meno razzismo". "Sud" è anche un bellissimo resoconto della vita di una piccola comunità, impegnata nei suoi riti, la fede che si esalta nei solenni canti dentro le chiese battiste.
Nella sezione del concorso internazionale tra "immaginari rivisitati", "perdite d'immagine", "metamorfosi" e "corpi in movimento", difficile segnalare in breve la qualità degli stimoli offerti dagli autori, molti dei quali giovanissimi. Noi abbiamo votato per "Alien Kisses" di Dara Gellman video che in soli tre minuti condensa tutta la fascinazione, anche musicale, per un bacio lesbico, donne i cui lineamenti del viso sono elaborati in chiaro scuri che ricordano la sacra sindone. Interessante l'investigazione di Keith Sanborn sull'uccisione del presidente americano John Kennedy. Il famoso filmato è "attraversato" ossessivamente in 485 fermo immagine. Infine i lavori di Aggêo Simões e Marcus Nascimiento, "If", e "Handy Man" di Nelson Henricks. Il primo traccia con ironia le coordinate fallaci degli organi di senso umano. Il secondo, voyeurismo allo stato puro in high8 sul corpo maschile, riprende la tranquilla pratica masturbatoria di un manovale.

 

Angela Melitopoulos. Jem Cohen. I premi della quarta edizione.
Il più premiato della quarta edizione del festival "Immagine Leggera" è stato "The Maelstron - Una cronaca familiare". Segnalato sia dalla giuria (composta da Jon Jost, Angela Melitopoulos e Angelo Sferrazza) sia dal pubblico numeroso di votanti, il film di Péter Forgacs è originale da molti punti di vista. Utilizza come testimonianze del passato filmini/album di famiglia, nessuna immagine dei campi di concentramento o delle partenze in massa. Non ci sono dialoghi, ma soltanto suggestioni sonore della retorica nazista. Gli eventi della famiglia scorrono di anno in anno dal '34 fino al '42 circa. In questi pochi anni si continua a vivere, ci sono matrimoni, nascite di figli, mentre le leggi razziali cominciano a configurare un orizzonte incredibile: la sottomissione del popolo ebreo alla presunta superiorità ariana.
Il primo premio della giuria è andato a un altro film di forte impegno politico, "Kayam al Hurbano - Vivendo sulle proprie rovine" di Tirtza Even e Alon Bosmat, vero e proprio scuotimento dello sguardo, girato direttamente in un campo profughi vicino Betlemme, registra poeticamente i tempi quotidiani, le stasi colme di paura e precarietà del conflitto interminabile tra palestinesi e israeliani.
Secondo premio per "Outer space -Lo spazio remoto" di Peter Tscherkassky, per la giuria un'"estensione in trentacinque millimetri, vertiginosa e magistralmente eseguita", un perfetto found footage riciclaggio di spezzoni di film hollywoodiani con l'icona Barbara Hershey.
Terzo premio per "The Kiss - Il bacio" di John Smith e Ian Bourn, efficacia tecnica di un fiore che cresce schiacciato da un vetro di serra la cui rottura produce un sorprendente effetto estetico. Altre menzioni della giuria alle esplorazioni dell'estetica dei media elettronici di "Three Waltzes Tre walzer" di Monique Moumblow, "Sarkany - Dragone" di Anita Sárosi e "Suspension - Sospensione" di Anthony Discenza.
Le giornate conclusive del festival hanno ospitato le opere di Angela Melitopoulos, come già detto membro della giuria. Allieva di Nam June Paik ha realizzato tra il '97 e il '99 il documentario "Passing Drama" (primo premio al festival Medi@terra '99 di Atene), un video di sessantasei minuti che prende di petto la sfida, e la vince, di ricostruire visivamente il racconto, i flussi di memoria dei profughi greci, tre generazioni (parenti della regista), i sopravvissuti alla deportazione che li ha portati dall'Asia Minore in Grecia nel '23, e durante la seconda guerra mondiale nella Germania hitleriana, tratteggiando con acuti montaggi diversificati per velocità, spazi temporali distanti tra loro, quelli del passato più remoto e quelli che si avvicinano al presente della narrazione.
Molto atteso è stato il video di Jem Cohen, "Instrument", sui Fugazi, gruppo musicale hardcore di Washington D. C. Il principale obiettivo, documentare dieci anni di attività, ha forse preso un po' la mano al regista, che invece di selezionare eventi e canzoni ha preferito condensare quanto più possibile in due ore di riprese frammentando eccessivamente le parti musicali. Risultato non sempre apprezzabile, e che scontenta sicuramente i fan del gruppo, costretti a vedersi tagliare dopo pochi secondi esecuzioni live di brani leggendari come "Smallpox Champion".

Andrea Caramanna

 

 

 

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