GIORNATA CINEMATOGRAFICA A TEMATICA PALESTINESE

di Paola Tarino

I frutti dell'interazione e dello scambio

Consulta il programma generale presso il Centro Interculturale di Torino
Iniziativa promossa da "Mondi Lontani Mondi Vicini" e
a cura del Centro Cinematografico Culturale L'Incontro di Collegno
Martedì 24 settembre
Orario: dalle 9.00 alle 24.00
Sala 3 - Cinema Massimo - Via Verdi 18, Torino

Promises

ore 9,30 PROMISES
regia: B. Z. Goldberg, Justine Shapiro, Carlos Bolado - sceneggiatura: Stephen Most - fotografia: Yoram Milo, Ilan Buchinder - USA/Palestina/Israele 2001, 100'
Come vivono i bambini palestinesi e quelli ebraici in una Gerusalemme carica di tensioni e divisa tra due comunità? Com'è il loro rapporto con "gli altri" e cosa li accomuna? Promises ritrae il quotidiano di sette bambini e documenta il modo in cui il conflitto influenza la loro vita. Osservatori partecipi, i registi scoprono le vie di trasmissione di vecchi rancori, ma sono anche testimoni di inaspettate aperture, a volte persino di illuminazioni sbalorditive, con cui i ragazzi analizzano la propria condizione.
ore 11,15
KA'EK SUL PAVIMENTO
regia: Ismail al Habbash da un racconto di Ghassan Kanafani - Palestina 2001, 26' versione originale con sottotitoli in italiano
Ka'ek è un alimento che viene venduto per strada e in particolare da Hamid, un ragazzo che frequenta la scuola cui è assegnato il maestro Muhsin, impersonato da Mohammed Bakri. Senza conoscersi i due si sono già incontrati il giorno prima dell'inizio delle lezioni sul marciapiede di una strada, avendogli il ragazzo lucidato le scarpe logore.
Il maestro apparentemente non mostra alcuna sorpresa nel vedere Hamid seduto tra i banchi, ma la sua curiosità aumenta di giorno in giorno nello scoprire che il ragazzo gli nasconde la verità su tutto ciò che concerne la propria vita familiare, inventando risposte che poi Muhsin accerta essere non veritiere.
In un primo momento prevale il sentimento di vendetta, ma poi dinanzi al mistero della storia di Hamid ...
Tratto da un racconto di Ghassan Kanafani, scrittore palestinese che con un altro celebre racconto, Uomini sotto il Sole, ha permesso al regista siriano Tawfik Saleh di realizzare il lungometraggio Gli Ingannati sul tentativo di tre palestinesi di arrivare in Kuwait. Ma mentre in questo film la sceneggiatura segue molto fedelmente la narrazione del racconto, nel corto di Ismail Habbash il testo letterario serve come traccia per sviluppare una sceneggiatura che se ne discosta molto liberamente. Sullo sfondo del rapporto tra l'educatore e lo studente si staglia il sentimento di appartenenza ad una nazione palestinese che ancora deve realizzarsi e che l'insegnante enfatizza durante la sua lezione.

ore 18,00 AHLAM AL-MANFA (Frontieres of Dream and Fears - RÍves d'exiles)
regia: Mai Masri - Fotografia: Fouad Suleiman, Hussein Nassar, Jimmy Michel - Musica: Anouar Brahem - USA/Palestina 2001, 56' versione originale con sottotitoli in italiano
Questa è la storia di Mona e Manar, due rifugiate palestinesi, i cui nonni furono costretti ad abbandonare la propria casa in Palestina nel 1948. Pur vivendo in campi diversi, uno, Shatila, a Beirut, governato dall'estrema marginalizzazione economica del Libano, l'altro, Dheisha, a Betlemme, dall'oppressione militare ed economica israeliana, le due ragazzine riescono a comunicare nonostante le barriere che le separano. La loro amicizia, iniziata via e-mail, si consolida giorno dopo giorno e culmina in un incontro impregnato di emozione, avvenuto dietro il filo spinato che delimita il confine libano- israeliano, insieme ad amici e parenti.
ore 19,00
KHALF AL-ASWAR (Dietro le mura)
regia: Rashid Masharawi - Palestina 1999, 52' sottotitoli in inglese con traduzione simultanea in cuffia

Questa é la Città che dà la sua anima per amore. Le preghiere e le recitazioni impregnano la Città. La grandeur della sua storia sta nei suoi palazzi e nelle sue volte, con gli archi che sfidano la guerra dei coloni israeliani contro i palestinesi. Vogliono rubare tutto... le case... le piccole stanze... le soglie ... le scale di pietra... i nomi delle piazze... e lo spirito della Città, provando a cancellare l'esistenza, la storia e i diritti dei palestinesi che, con i loro cuori, sostengono le mura delle loro case. Nonostante le pene e il dolore, i palestinesi continuano a supportare e proteggere il Grande Muro. È la storia di Jerusalem.
ore 20,30
HAIFA
regia: Rashid Masharawi - fotografia: Edwin Verstegen - musica: Said Morad-Sabrin - Palestina/Olanda 1995, 75' sottotitoli in inglese con traduzione simultanea in cuffia
Haifa ha lo stesso nome della città delle sue speranze. Per Embora ci sono molte cose che solo lei sa. Haifa è amico della famiglia di Abu Said, un vecchio poliziotto che crede in una soluzione politica; Oum Said, sua moglie, spera nell'imminente liberazione del figlio dalla prigione e tenta di trovargli una moglie, ma lui è cinico e ribelle; Sabha, la figlia di 12 anni, cerca di immaginare quale sarà il suo futuro. Un caleidoscopio di storie che ci aiutano a capire come vive oggi la popolazione palestinese.
ore 22,00
DARB EL-TABANAT (La via lattea)
regia: Ali Nassar - Sceneggiatura: Ali Nassar, Ghaleb Chaath -  Fotografia:   Antoine Slosson - Musica:  Tagoum Heiman - Interpreti:   Mohamed Bakri, Soheil Haddad, Makram Khoury, Ahmed Abou Salloum, Selim Nemo - Palestina 1997, 100' sottotitoli in inglese con traduzione simultanea in cuffia
Cosa c'entra la Via Lattea con le vicende degli abitanti di un villaggio della Galilea negli anni sessanta? È abitudine delle persone di questo villaggio guardare le stelle per trovare una via d'uscita dalle vicende dell'occupazione militare. Ma uno dei protagonisti, Mahmoud, il personaggio positivo, rifugge dalla tradizione e dichiara di volersi attenere ai fatti reali. Così il contrasto tra modernità e tradizione viene alla luce come quello tra chi, come il Mukhtar, si adegua all'occupazione israeliana e chi, come l'insegnante Ahmad, partecipa attivamente alla resistenza contro la presenza militare israeliana e paga con la prigione un'accusa ingiusta.
Mabrouk ha perso i genitori nel 1948, durante la guerra, quando tutti fuggivano dai piccoli villaggi della Galilea per rifugiarsi a nord, verso la frontiera libanese. Abbandonato a sé stesso, Mabrouk ha imparato ad arrangiarsi da solo, a chiedere l'elemosina e ad attirarsi la benevolenza degli altri giocando la parte dell'idiota del villaggio. È segretamente innamorato di Jamilah, anche lei segnata dagli orrori della guerra, e ha come amico fidato Mahmud, il fabbro del villaggio, anche lui innamorato di Jamilah e determinato a veder finire una volta per tutte la corruzione dilagante e silenziosa. Il Mukhtar del villaggio, infatti, se la intende con le autorità israeliane e si adopera in tutti i modi per promuovere gli interessi di un governo militare che detiene il potere gravando con le minacce sugli abitanti del villaggio. Poche persone hanno il coraggio di opporsi a questo stato di cose esprimendo apertamente le proprie ragioni e, insieme all'insegnante Ahmad, Mahmud è il più tenace e polemico. Quando il figlio del Mukhtar accecato dalla gelosia in una rissa con Mahmud si provoca la morte, le accuse cadono immancabilmente su di lui, e Mabrouk, testimone di un torto così grave, rischia di rimanere nuovamente solo.

Proiezioni mattina: riservate a classi di scuola media superiore e altri gruppi organizzati, a seguito di prenotazione obbligatoria presso il Centro Interculturale (tel. 011-4429700)
Proiezioni pomeridiane e serali: ingresso libero fino al completamento della sala
L'ingresso è gratuito

Qualche piccola anticipazione circa i film della rassegna che già conosco, in quanto al resto vi auguro di poterli vedere

PROMISES
regia: B. Z. Goldberg, Justine Shapiro, Carlos Bolado - sceneggiatura: Stephen Most - fotografia: Yoram Milo, Ilan Buchinder - USA/Palestina/Israele 2001, 100'

Shlomo e Sanabel

Quali sono le "promesse" a cui il titolo allude? Quelle di avviare trattative di pace per trovare finalmente una soluzione alla questione ebraico-palestinese, quelle che i grandi della Terra fingono sempre di fare agli stati piccoli per controllarne le rivendicazioni, oppure quelle riposte nelle speranze di chi vede ancora il mondo con gli occhi innocenti dell'infanzia? L'intento dei registi, tutti e tre ebrei americani, sembra optare per quest'ultima prospettiva, che li spinge a privilegiare e a mescolare - in montaggio alternato - lo sguardo di alcuni bambini, apparentemente dall'infanzia "normale", per quanto quest'aggettivo in Medio Oriente si intrecci inevitabilmente con la guerra, la violenza e quindi con la morte, presenza costante, con la quale "fare i conti" tutti i giorni, sia tenendo a mente il numero degli amici e dei parenti deceduti, sia imparando a convivere con la precarietà e la paura di incontrarla, salendo su un autobus per andare a scuola o semplicemente uscendo di casa.
I protagonisti del film sono sette bambini, palestinesi e israeliani, laici e ortodossi, incontrati a Gerusalemme e nei dintorni, che abitano a venti minuti di distanza l'uno dall'altro, ma vivono in mondi completamente diversi. Ad accompagnarli nel racconto delle loro giornate e nel disvelamento progressivo di sogni e aspettative per il futuro è una figura adulta, uno dei registi, giornalista ebreo che ha vissuto e studiato a Gerusalemme per poi trasferirsi in America. Tornato al suo Paese per seguire da vicino il conflitto e le innumerevoli e irrisolte trattative di pace, decide di indagare proprio l'universo infantile, quello che si evita sempre di interrogare, per scoprire cosa ne pensano i bambini della guerra e soprattutto del processo di pace.

Yarko e Daniel, Sanabel, Shlomo, Moishe


Prima sveglia
Daniel e Yarko sono due gemelli, figli di israeliani laici. Ogni giorno sono costretti a salire sull'autobus 18 per andare a scuola. Durante l'intervista non celano la loro tensione per la paura di saltare in aria da un momento all'altro.
Stuzzicati dall'idea di poter incontrare gli altri ragazzi palestinesi interpreti del documentario, mossi anche dalla curiosità di conoscere direttamente cultura, abitudini e tradizioni diverse dalle loro (a parte la comune passione per lo sport), accetteranno di accompagnare il regista presso il campo profughi di Deheishe, per trascorrere una giornata in qualità di ospiti dei vicini, sconosciuti alieni.

Seconda sveglia
L'orologio a forma di moschea ridesta Mahmoud, ragazzino del quartiere musulmano di Gerusalemme, che, mentre compie i suoi rituali del mattino, trova il tempo di gridare in macchina che sul Corano sta scritto che la terra è dei palestinesi e non degli ebrei.

Terza sveglia
Shlomo, figlio di un rispettabile rabbino americano, nato nel quartiere ebraico di Gerusalemme, si agginge ad uscire di casa per andare a studiare la Torah. Sa di avere una missione che lo aspetta: dedicarsi alla vita religiosa e alle preghiere quotidiane, perché Dio ha detto: "Devi prima imparare e poi agire".

Quarta sveglia
Nel campo di Deheishe (a soli 15 minuti da Gerusalemme, che accoglie undicimila palestinesi costretti a lasciare la loro terra dopo la guerra d'indipendenza vinta nel 1948 dagli israeliani), Sanabel e la sorella Fida non hanno timore a raccontare la loro storia di profughe, fortunate da un lato perché possono disporre di un letto sul quale riposare, dall'altro infelici in quanto il padre, giornalista del Fronte Nazionale di Liberazione della Palestina, si trova da tempo in carcere, senza un'accusa precisa nè tantomeno la prospettiva di un processo.
Dagli occhi di Sanabel sgorgano lacrime autentiche, non appena ripensa alle lettere che il padre le scrive: la commozione si impadronisce dell'inquadratura per accogliere in primissimo piano la sua espressione smarrita e in cerca di conforto.
La giovane si dedica alla danza per imparare a suo modo una forma di resistenza del popolo palestinese: quella di tramandare la cultura anche attraverso la difesa e la salvaguardia del folklore locale.

Quinta sveglia
Faraj rammemora l'amico morto durante l'Intifada (una forma di lotta nata nei campi profughi e condotta prevalentemente da ragazzini muniti di fionda e pietre) e il suo sguardo deciso, reso ancor più rigido dal dolore provato, reclama vendetta.
"Certo che tiro le pietre. Tutti dovrebbero farlo. Hanno permesso di liberare metà della Palestina. Loro hanno fucili e bombe atomiche, noi solo le pietre e nient'altro".

Sesta sveglia
Dopo la guerra del 1967 alcuni ebrei nazionalisti occuparono il territorio cisgiordano (corrispondente all'incirca alla Giudea e alla Samaria bibliche) per creare insediamenti presidiati dall'esercito.
A Betel un filo spinato separa gli arabi dagli ebrei: qui abitano Moishe e Raheli, che, protetti dalle armi dei cecchini e dal rispetto delle loro tradizioni, conducono un'esistenza all'insegna dell'ortodossia più fervente.
«Dio ci ha promesso la terra di Israele, invece gli arabi se la sono presa e l'hanno portata via. Nel libro della Genesi Dio si rivolge ad Abramo, il nostro antenato, e gli dice: "Darò  a te e a tutti i tuoi discendenti dopo di te tutta la terra dove tu abiti come forestiero", la Terra di Cana, dopo Abramo ci fu Isacco e Giacobbe ... Il nome Israele deriva proprio da Giacobbe ...»

Settima sveglia
Moishe vorrebbe da grande fare il comandante dell'esercito (il primo comandante supremo credente), mentre Raheli sogna un futuro di moglie, madre e casalinga, impegnata: in casa a rispettare le regole dello Shabbat, in sinagoga a pregare.
Interessante la sequenza che mostra la bambina intenta a liberare da un incastro due sedie di plastica: la macchina da presa non la molla per un istante, si sofferma a ritrarre le sue mani che con fatica e determinazione ripetono il medesimo gesto nel vano tentativo di separare le seggiole (metafora dei due popoli intrappolati nello stesso spazio?), nonostante ciò non smette mai di parlare e di decantare la bellezza insita nella ritualità, a cui è stata educata.

Faraj e Raheli

Dopo aver presentato, una alla volta, le storie dei sette bambini protagonisti del film, i registi decidono di mescolare queste infanzie dense di domande e di aspettative, alternando riprese, che, mentre mostrano i ragazzini alle prese con gli eventi della loro giornata (lo studio della Torah, le preghiere al Muro del Pianto, la partita di pallavolo, la corsa dei cento metri, le lezioni di danza ...), passano in rassegna eventi, brandelli di Storia, rituali religiosi, feste e commemorazioni. Eppure lo sguardo dei giovani sembra farsi attento soltanto di fronte alla rievocazione di ricordi affidati alle voci delle persone anziane (depositari di memoria e di oggetti simbolici come le chiavi di case che non esistono più), i soli che permetteranno loro di conoscere la storia di quel territorio travagliato, desiderato sia dal "popolo senza terra", sia dalla "terra senza popolo". Riattraversando quei luoghi, che celano le trasformazioni e le occupazioni subite nel corso del tempo per trasformarsi in mete di pellegrinaggi dolorosi, i bambini, accompagnati dai loro nonni, scopriranno quanto sia difficile - per gli adulti - mettere da parte il diritto di possedere una terra, che è di tutti e al contempo di nessuno, o meglio soltanto di chi impara ad amarla, rispettando tutti coloro che la calpestano.

Shlomo e Sanabel

L'impianto didattico e al contempo politico di quest'opera cinematografica si manifesta nella volontà di fotografare le due realtè coinvolte, l'universo palestinese e quello ebraico, cercando di rimanere per quanto possibile equidistanti: non solo un'operazione "politically correct", ma una forma di tributo all'innocenza dell'infanzia, che, pur destinata ad ereditare le colpe commesse dai padri, ha dalla sua il pregio di potersi affacciare al mondo senza pregiudizio e con la voglia di guardare in faccia l'altro da sè con l'entusiasmo di conoscerlo a misura di bambino.
Sollecitati dai registi a incontrarsi tra loro, sarebbe stato banale gridare al "miracolo", mostrando un grottesco girotondo di mani infantili, arabe e giudee, unite nella lotta, eppure un timido contatto tra i due universi scaturisce dalla volontà di credere al desiderio di conoscersi, per capire almeno le ragioni degli altri, senza la pretesa di stare sempre dalla parte della verità. In questo risiede la forza del film, che, pur passando in rassegna punti di vista e visioni del mondo in antitesi tra loro, documenta una riconciliazione, impossibile nella forma, ma credibile nella sostanza, perché fatta della stoffa di cui sono tessuti i sogni dei bambini.
A differenza di quella degli altri ragazzini, tentati dall'idea di potersi finalmente conoscere, ma alquanto dubbiosi sull'utilità del gesto sul piano pragmatico, la posizione di Sanabel (che vede il mondo anche dal punto di vista femminile) risulta invece esemplare: "I bambini sono innocenti. Può essere un modo per iniziare la pace, iniziare a fare amicizia tra bambini. Nessun bambino palestinese ha mai spiegato la sua realtà ad un bambino ebreo. Sono i bambini che si possono avvicinare e permettere di fare qualche passo. Per cui voglio conoscere la tua opinione e sapere cosa ne pensi, anche se so che non abbiamo gli stessi punti di vista. Se ci fosse più comunicazione, forse capiremmo di più".
Fa da cornice all'intero film un pneumatico incendiato, colto nella sua corsa in mezzo alle rovine: viene inquadrato all'inizio e torna a sancire l'epilogo, quasi a ricordarci che nel frattempo nulla era cambiato.

Insediamento di Betel e terre di Ras Abu-Ammar

AHLAM AL-MANFA (Frontieres of Dream and Fears - RÍves d'exiles)
regia: Mai Masri - Fotografia: Fouad Suleiman, Hussein Nassar, Jimmy Michel - Musica: Anouar Brahem - USA/Palestina 2001, 56' versione originale con sottotitoli in italiano

Sul confine libano-israeliano

In questo film sono le giovani palestinesi a svelare alla macchina da presa le loro "frontiere di sogni e di paure": limiti fisici e invalicabili, barriere delimitate dal filo spinato che recinge il campo profughi di Shatila in Libano (si commemora la strage, compiuta vent'anni fa, proprio in questi giorni) e quello palestinese di Dheisha (situato a pochi chilometri da Betlemme), confini tracciati sul sangue versato dai loro padri, che solo la forza dell'immaginazione e la volontà di comunicare possono oltrepassare per darsi la mano, intrecciare le dita, ritrovare un'unità, spezzata dalla furia della guerra, dai massacri e dall'occupazione, che ha disperso un popolo, costringendolo a cercare riparo e rifugio in aree invivibili, prive di acqua, elettricità e servizi minimi essenziali.
"Una volta avrei voluto essere una farfalla. Ma una farfalla è così bella che la gente la cattura e la imprigiona in un quaderno. Non vorrei che qualcuno mi chiudesse là dentro. Vorrei essere un uccello e trovare una lanterna magica nel deserto che mi facesse volare al mio paese", esclama la ragazza di Shatila, Mona, mentre la macchina da presa fruga le espressioni del suo volto illuminato da uno sguardo magnifico; "Vorrei fotografare le scritte sui muri dei campi profughi, fotografare le persone che ci abitano e i bambini che non hanno un posto per giocare": sono invece i desideri di Manar, costretta a vivere a Dheisha.

Mona e Manar

Tra i sogni dell'una e il timido coraggio dell'altra di denunciare la triste realtà che la circonda, si dipanano le riprese di Mai Masri, una donna palestinese che ha fatto della regia il suo mestiere e al contempo una personale forma di lotta, che riesce a scuotere le coscienze, proprio sbriciolando nelle immagini le emozioni, le passioni, la sofferenza e il dolore di queste protagoniste, tutte orfane di padri, scomparsi troppo presto per vederle crescere, tutte spaventate dall'idea di amare qualcuno per non correre il rischio di doverlo perdere di nuovo.
Alla commozione che invade la sua indagine condotta in forma di interviste improvvisate fanno da contraltare riprese che perlustrano rovine, miseria e devastazioni, dando vita ad un reportage sempre giocato sul filo sottile che separa il documentarismo dal racconto di vita vissuta, a metà tra il reale, il ricordo e la speranza di credere che un altro mondo sia possibile.
"Perché sono una profuga? Perché qualcuno ha il suo paese? Perché non sono come lui?": questi interrogativi accorati, recitati dalla ragazza intenta ad accarezzare le pietre di quelle che erano le case dei suoi antenati, non trovano risposte razionali né emotive, nel frattempo solo i cactus hanno invaso il terreno, nascondendo la verità ed anche la storia. Il film ci insegna come sia importante allora andare alla ricerca delle radici, per scoprire dove erano collocate le porte, che solo le chiavi che portano al collo i bimbi profughi potrebbero ancora aprire: attraverso questa ricerca sarà possibile far incontrare le generazioni e al contempo distruggere il muro fisico e mentale della barriera che separa i palestinesi rifugiati in Libano da quelli costretti ad abitare i territori occupati dagli israeliani in Cisgiordania o lungo la striscia di Gaza.

Gli incontri dei profughi lungo il filo spinato

La sequenza che mostra il viaggio verso la frontiera libano-israeliana intrapreso dai profughi del campo di Shatila, in seguito alla liberazione del Sud del Libano da parte delle truppe israeliane avvenuta nel 1999, è estremamente commovente: in quella barriera avviene un evento unico e indimenticabile, si incontrano parenti che non si vedevano da anni o che non si erano mai conosciuti, si fa amicizia, ci si scambiano gli indirizzi per iniziare a scriversi, cresce la voglia di esistere e di contare sul proprio popolo.
Una ragazza si salverà, lasciando il campo di Shatila per trasferirsi a Londra come rifugiata politica, anche se si sentirà sempre una profuga, ovunque lei vada, Manar invece resterà a Dheisha. Ci si domanda, oggi, se abbia avuto almeno il tempo di vedere l'ingresso dei carrarmati israeliani giunti a spianare l'intero campo, ma questa è storia recente e il film non poteva ancora prevederlo.
Mona e Manar non riusciranno a spezzare il filo spinato che divide il loro popolo, perché, crescendo, i sogni finiscono con il venir meno, mentre la paura aumenta fino a trasformarsi in incubo quotidiano, ma le loro storie possono insegnarci a non dimenticare, a conoscere e a documentarsi come fanno loro, per scoprire una geografia diversa di un territorio, le cui chiavi di accesso sono ancora negate.

Le protagoniste del film di Mai Masri