Reporter

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Cerca nel sito


Iscriviti alla nostra mailing-list: inserisci qui sotto il tuo indirizzo e-mail

Reporter
reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
<<< torna al sommario

FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA - Milano, 2005

Manifesto 15° Edizione

ESSERE O NON ESSERE PADRI? UNA SCOMMESSA ATTUALE

 

Una figura adulta, seppur nel suo essere del tutto assente oppure troppo presente, attraversa nomadicamente (finendo con lo srotolare un immaginario filo d’Arianna, il cui bandolo si direbbe invece orchestrato dai desideri di mani bambine) alcuni film presentati alla quindicesima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, tenutosi a Milano dal 14 al 20 marzo 2005, organizzato come sempre dal Centro Orientamento Educativo.

Questa figura, dalle molteplici luci e ombre suggerite dalle opere cucite insieme da una medesima matassa interpretativa, fa capo a una mansione familiare specifica, quella in genere svolta dal padre, la cui attorialità finisce con il mettere in scena svariati atteggiamenti relazionali e autoriali, intesi come cifre irrinunciabili, a partire dalle quali risulta interessante rileggere le proposte filmiche del recente festival.

 

O heroi - Sometimes in April


Al padre mancato fa da contraltare un eroe mutilato, ex combattente dell’esercito angolano che ha perso una gamba nello scoppio di una mina, nel film
O heroi di Zeze Gamboa (Angola/Portogallo, 2004); in Sometimes in April di Raoul Peck (Haiti/Ruanda, 2005) un altro padre, sopravvissuto alla guerra tra tutsi e hutu, narrata anche dal recente e più famoso Hotel Rwanda di Terry George, diventa l’unico depositario della tragica sorte che ha colpito dieci anni prima la sua famiglia; il protagonista di El cielito di Maria Victoria Menis (Argentina, 2004) genitore non è lo ancora, anche in virtù della sua giovane età, ma impara ad affezionarsi a un neonato e a prendersi cura di lui con una tenerezza invidiabile da parte di qualsiasi papà; per finire il genitore del giovane Reda in Le grand voyage di Ismael Ferroukhi (Marocco/Francia, 2004), immigrato in Francia da anni, riesce a esaudire il desiderio di ogni buon musulmano, ovvero poter andare almeno una volta nella vita a La Mecca, proprio grazie all’aiuto del figlio, con il quale intesse durante il lungo viaggio un interessante, seppur conflittuale, rapporto che li porterà a parlare, a conoscersi e anche a interessarsi l’uno dell’altro.

 

El cielito - Le grand voyage


Il filo rosso della paternità rappresenta quindi un possibile percorso di lettura capace di gettare luci inusuali su una dimensione umana, affettiva e culturale complessa, spesso trascurata o sottostimata, vuoi perché declinata in maniera subalterna rispetto al ruolo materno, vuoi perché ridotta a macchietta di se stessa: portare allo scoperto vizi e virtù dell’essere padri, e di conseguenza figli, nel mondo attuale è una scommessa apparentemente banale, in realtà profonda, se permette di interrogarsi su questo scippo parentale determinato da scenari bellici permanenti o da insanabili contrasti generazionali inquinati da credenze religiose, che creano una ineluttabile e irrisolvibile mise en abîme di una funzione familiare, che non può più seguire il suo corso naturale perché costantemente minacciata, spesso impedita fin dall’inizio o resa orfana man mano le creature messe al mondo crescono e si autodeterminano.
Vincere questa scommessa e restituire ai padri il loro legittimo compito educativo resta un interrogativo aperto dalla disamina di questo quartetto filmico, che dischiude a sua volta squarci interessanti sull’impossibilità di svolgerlo secondo la tradizione, perché sono ormai saltati i raccordi di come vivere in famiglia, ammesso sia ancora possibile farlo, desiderarlo solamente, oppure temerlo.
La trama di questo presunto filo rosso che cuce invisibilmente un’immaginaria figura paterna, rendendola vieppiù protagonista del percorso suggerito, si serve inoltre di un ago particolare, un punto di vista capace di annodare ulteriormente l’analisi, ossia il rapporto con la morte maturato dai genitori messi in scena.
In due film i padri muoiono: uno non è presente fin dall’inizio e viene vicariato da un giovane, l’altro scompare per morte naturale alla fine; nei restanti due: al padre morto si sostituisce un reduce mutilato, l’ultimo sopravvive al resto della famiglia, ma con il peso di un’eredità dolorosa. Come se la figura dovesse contenere in sé il compito che la mitologia affidava alle tre Parche: una, Clotho, filava (come nel film angolano e argentino che producono una narrazione che consentirebbe di creare una figura paterna paradigmatica, intesa come modello da seguire), l’altra, Lachesis tesseva (come nel film francese, attraverso il quale si può immaginare una texture educativa paterna), l’ultima, Atropo, tagliava il filo (il colpo ferale capita in tutte e quattro le trame, lasciando talvolta ai padri o ai figli i ruoli di testimoni, con o senza speranze e rimpianti).
Sulle ceneri della morte c’è comunque sempre una nuova vita in fieri, il bambino che nasce, il figlio che resta, l’adolescente che trova un amico adulto con cui poter andare in giro per il mondo e che l‘aiuta a riabilitarsi con il ricordo del vero padre: una sorta di palingenesi finale, che viene invece capovolta a favore della figura materna nel cortometraggio Kare Kare Zvako (Il giorno della madre) di Tsitsi Dangarembga, Zimbabwe, 2004, premiato dalla giuria. In questo caso sarà il padre a decidere di uccidere la moglie per sfamarsi con la sua carne, dal momento che la carestia ha colpito duramente la famiglia. Le tende quindi una trappola mortale, ma eliminare la madre dei suoi figli non sarà una cosa semplice. Inoltre può avvalersi della complicità dei ragazzini che evocano lo spirito della madre, consapevoli della palingenesi materna, attuabile solo attraverso il corpo e il desiderio del padre.

 

Kare Kare Zvako


“Ispirato ad un racconto shona, il film interpreta gli elementi macabri e magici della tradizione popolare in chiave musicale, can canti e danze. Uno dei rarissimi esempi di musical del cinema africano” (dal Catalogo del 15° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Editrice Il Castoro, Milano 2005, pag. 81).
Al termine della quindicesima edizione si scopre inoltre che il primo premio del concorso lungometraggi “Finestre sul mondo” è andato al film Okhotnik (Il cacciatore) di Serik Aprymov, Kazakistan, 2004, che fornisce un ulteriore tassello alla disamina proposta.

Non ho potuto vederlo, perché impegnata nella visione del film di Gamboa, per cui mi limito a citare quanto scritto da Antonello Catacchio ne Il manifesto di martedì 22 marzo 2005: “Lo sguardo più ampio del festival nato come africano, ma ormai comprendente altri continenti, ha spostato anche l’asse dei premi. Trionfatore del festival è stato infatti un titolo kazako: Okhotnik (Il cacciatore) di Serik Aprymov. La vicenda racconta di un ragazzino ribelle e abbandonato che trova ospitalità dalla donna di malaffare del villaggio che praticamente lo adotta. Ma il giovane, indurito e divenuto indifferente nei confronti del mondo, più che di una madre, ha bisogno di un padre. Che arriva in modo anomalo, un cliente, il cacciatore del titolo. Per evitargli il riformatorio, dopo l’ennesima stupida bravata, l’uomo lo porta con sé in territori inesplorati, popolati da persone a volte stravaganti e dai lupi. È questo il percorso di formazione del ragazzino, compiuto attraverso momenti di commedia, notazioni etnografiche e una natura magnifica, seppure non sempre facile".

 

Il film kazako vincitore

paola tarino