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L'Archivio in testa:
Incontro con Roberto Radicati

(L'intervista è ricca di immagini, ma proprio per questo potrebbe richiedere un po' di tempo per essere visualizzata. E' disponibile anche una versione solo testuale.)

Ritornando sui nostri passi, abbiamo rincontrato Roberto Radicati, già intervistato da Cinemah (in versione cartacea) nel 1995, ritenendo che la sua testimonianza sia importantissima per ricostruire le origini e lo sviluppo del Museo Nazionale del Cinema, un’istituzione italiana sul cui futuro, in tempi di progetti da grandeur subalpina, si addensano punti interrogativi. Ascoltare la voce di chi in questa istituzione ha avuto un ruolo vitale per circa 30 anni (salvo esserne allontanato abbastanza repentinamente in momenti di crisi economica — all’inizio degli anni ’90) ci sembra doveroso e allo stesso tempo benaugurante, con la speranza che la passione raccontata da Radicati venga riconosciuta da coloro con i quali ha lavorato e lavora tuttora, e costituisca uno stimolo a considerare indispensabile il lavoro di chi raccoglie, ordina e (soprattutto) mette a disposizione degli altri materiali culturali. Purtroppo pare che taluni in posizioni di rilievo non vogliano più ricordare la dedizione di questo appassionato cinefilo e facciano cenno di non accorgersi del patrimonio di conoscenze custodite nella sua memoria sbalorditiva di ordinatore di archivi; e hanno l'ardire di elencare con pignoleria i beni raccolti e di citare i collaboratori dell'Archivio Cinematografico della Resistenza senza segnalare la sua presenza preziosa tra i collaboratori dell'istituzione voluta da Paolo Gobetti.

H.G.Clarke, base per zoetrope

Cominciamo chiedendo a Radicati quali origini ha la sua passione cinefila, anche se, come vedremo, si tratta di una cinefilia molto particolare…

"Mah, è una questione di famiglia. I miei fratelli avevano dieci anni più di me e andavano spesso al cinema. Ho sempre sentito parlare da loro dei film che vedevano, per cui quando sono cresciuto è stato naturale che io avessi voglia di andarne a vedere.

Generalmente faccio la catalogazione in base agli autori, al museo talvolta inserivo anche gli sceneggiatori. Ovviamente non facevo le schede delle riviste principali, per le quali c'erano gli indici. Facevo le schede di riviste poco note, oppure di riviste che non erano di cinema ma contenevano articoli interessanti per il cinema. Per esempio la francese Esprit, oppure l'italiana Belfagor. Magari, invece di tenere l'originale, che a volte proveniva dai miei archivi, facevo una fotocopia e la inserivo in raccoglitori."

Quindi il dott. Radicati catalogava anche al di là del patrimonio effettivo del museo.

"Sì, per esempio Il Ponte era una rivista politica su cui scriveva Di Gianmatteo. Oppure poteva capitare una rivista americana come Life o Time con ritratti un po' articolati di qualcuno e io la catalogavo."

La conversazione si sposta poi sulle origini della collaborazione con il Museo e, inevitabilmente, sulla nascita del museo stesso, di cui Radicati è stato testimone non partecipante, essendo però una delle persone più vicine alla Prolo negli anni immediatamente seguenti.

Thorskild Roose in Dies Irae, 1943
 

"Il museo è stato inaugurato nel 58 e io ho iniziato a lavorarci nel 59. Conoscevo la Prolo in quanto frequentavamo il cineclub dell'Unione Culturale, che faceva vedere parecchie retrospettive, proiettando i film dove si poteva, per esempio alle scuole Maria Adelaide, in cui c'era un'ampia stanza dove ci si poteva raccogliere per vedere i film. Lì si potevano vedere cose che non passavano regolarmente nelle sale, avevano contatti con la cineteca Italiana di Milano, con la cineteca di Roma e si vedevano Pudovkin, Dreyer, ecc.

 

Con la Prolo ci siamo conosciuti lì, poi ci siamo persi di vista per qualche anno. Non mi ricordo più chi mi disse che la Prolo aveva avviato il Museo. Così io la andai a trovare e le dissi che sarei stato contento di fare il bibliotecario, anzi avrei portato anche alcuni dei miei libri di cinema e un po' di riviste.

 

All'epoca, nel museo c'eravamo noi due e il personale di sala (c'era già uno schermo adatto al CinemaScope). Poi c'era la cassiera, che il mattino faceva l'archivista, ingressava gli oggetti e i libri, mentre io mi occupavo delle schede."

 

Il lavoro di Radicati non si limitava, però, alla catalogazione bibliografica e sarà lui stesso a ricordarci l’importanza della multimedialità proposta dalla Prolo…

Emile Reynaud, Praxinoscopio
"L'intuizione della Prolo fu proprio quella di pensare al cinema comprendendo non solo le pellicole o i libri, ma anche gli oggetti e soprattutto quelli del pre-cinema. Per cui catalogavo un po' di tutto. Anche manifesti. Di ogni film che usciva, la Prolo voleva si acquistasse il manifesto. Anche allora c'erano agenzie che facevano girare i manifesti tra i cinema e alla fine del ciclo di programmazione (c'erano prima, seconda e terza visione) cercavamo di recuperare i manifesti. Queste agenzie, tra l'altro, arrivavano ad avere magazzini stracolmi, che, prima o poi, dovevano svuotare. Così lei insisteva con queste agenzie per avere i manifesti. Al termine di parecchie insistenze, qualcuno cedeva, per esempio fummo chiamati per andare in un magazzino al fondo di Corso Regina. Ci precipitammo e, una volta vista la quantità di materiale, la Prolo corse in Comune a chiedere un camion. Con questi metodi costituimmo la base dell'archivio dei manifesti.

Qualcuno degli altri musei ci spediva i manifesti delle sue retrospettive, ma non si poteva parlare di una vera e propria collaborazione.

Ogni tanto capitava l'occasione di un antiquario che voleva vendere un manifesto; ovviamente costava di più rispetto ai magazzini. Allora la Prolo cercava di abbassare il prezzo, sminuendo il valore del film, anche se magari era un film importantissimo.

Avevamo almeno 10.000 titoli e per ognuno di essi a volte c'erano diversi oggetti, diversi formati, serie fotografiche…"

 

Reynaud

Per un attimo, la malinconia si affaccia tra le parole (poche) che Radicati riserva al congedo dal Museo, ma subito si passa a parlare di quello che il Museo stesso potrebbe diventare nella nuova sede della Mole Antonelliana.

"Come esposizione, potrebbe venir fuori qualcosa di originale, qualcosa che richiami anche i musei americani moderni, ricchi di forme elicoidali… ma ci sono grandi problemi logistici, dati dalla vastità dell'ambiente. Comunque credo che potrebbe sortirne qualcosa di buono. A dire il vero, la Prolo aveva pensato anche alla Mole come una possibile sede per il Museo, poi ci fu la proposta di Palazzo degli Stemmi; addirittura si era pensato a un corridoio che andasse dal Palazzo degli Stemmi al cinema Massimo, che nel frattempo era stato assegnato al Museo.

Per quanto riguarda l’attualità, non ho notizie fresche. Non sono molto d'accordo con gli attuali criteri di programmazione del Massimo, che talvolta sembra un proseguimento di prima visione, invece di dedicarsi alle retrospettive. Il problema mi sembra proprio quello di definire quali sono i fini e i contenuti di un museo del cinema. La Prolo aveva dimostrato di averlo capito, con la molteplicità dei materiali raccolti, con le ricerche a tutto campo. Il museo ha anche tentato di fare didattica nelle scuole, andando a fare proiezioni. Ma durò poco, appena un paio d'anni. Ovviamente, costava troppo."

È interessante anche scoprire come venivano raccolti i fondi ai tempi pionieristici degli inizi.

A.Charvet, 22 aprile 1884, Ponte sul Canale Michelotti.

"Spesso la Prolo interveniva personalmente, vendendo azioni o usando altre risorse. Era una grande passione, animata anche dall'intuizione di un Museo che oltre al materiale strettamente cinematografico, si occupasse anche del precinema e della fotografia. Nessuno aveva ancora pensato ad un Museo del Cinema che si occupasse anche di fotografia. Anche qui, per ottenere il materiale, c'erano diversi sistemi. Alcuni fotografi erano amici personali della Prolo (anche Secondo Pia, per esempio); un'altra occasione fu la chiusura della sede dell'Associazione Fotografica Italiana. Certo, ci voleva un bel coraggio per andare a chiedere i materiali. Pensate che una volta un amico, che faceva impianti idraulici, ci avvisò che in una casa destinata a demolizione si trovava l'archivio di un produttore francese che coproduceva spesso con l'Italia. Si partì con il pulmino del museo (la Seicento multipla), si andò a Parigi e, mentre il nostro amico teneva impegnato il portiere del palazzo, raccogliemmo tutto quello che si poteva portare e lo portammo nel pulmino. Prima di arrivare alla frontiera, la Prolo, temendo controlli, ci fece fermare e raccolse molti fiori pieni di spine, cosicché ai doganieri non sarebbe venuta voglia di mettere le mani nel nostro bagagliaio. In mezzo a questi materiali c'erano tantissime foto di scena di ottima qualità (per esempio La bella e la bestia di Cocteau, oppure alcuni film franco-italiani dei primi anni 40).

 

James Steward, Lanterna magica Tri-unial
Probabilmente la vitalità , la cocciutaggine e la capacità di convinzione di Maria Adriana Prolo avrebbero ottenuto di controllare anche il nuovo Museo di Lanterne Magiche tanto pubblicizzato in questi giorni per l'inaugurazione avvenuta a Padova domenica 7 febbraio 1999, quarantun'anni dopo l'iniziativa della Prolo. Nessuno ha pensato di sollevare un rilievo quando dal nord-est si è levato il superlativo "la più grande raccolta di precinema d'Italia": sarebbe stata un'occasione ghiotta per riportare l'attenzione sulla raccolta del Museo torinese polemizzando con i disinformati padovani, ma l'incuria degli attuali vertici del Museo è pari solo a quella degli immediati predecessori.
Vetro per Lanterna Magica

Vetro per Lanterna a panorama scorrevole

 

"Tornando alla fotografia, raccogliemmo materiali tra alcuni importanti fotografi torinesi; alcuni archivi erano anche abbastanza consistenti. I fotografi (o le loro vedove) speravano di ottenere con queste donazioni una visibilità che solo in rari casi si è effettivamente verificata."

Voyage dans la lune, 1902
"I vicedirettori, durante la gestione della Prolo, non hanno mai resistito a lungo, non tanto per una questione di carattere della Prolo, quanto per la sua tendenza a decidere personalmente e a seguire i consigli di poche persone fidate, come per esempio Henry Langlois della Cinématheque Française. Le visite di Langlois erano abbastanza frequenti e in genere egli arrivava al mattino dopo un viaggio notturno, per cui si fermava al Museo a riposare. Con lui furono organizzate, per esempio, retrospettive di Meliés e Carné, con film di quest'ultimo che non erano mai usciti in Italia. Questo avveniva negli anni 60.

 

Le proiezioni cominciarono fin dal 59. Si contattavano le cineteche, anche non italiane, e si chiedevano loro le copie. La Prolo era un po' restia a chiedere copie fuori d'Italia, anche perché i film subivano tassazioni piuttosto pesanti in dogana.

La Prolo capì anche l'importanza del cinema industriale, o di serie B. Per esempio, il fallimento di una piccola casa di produzione americana, ci fece arrivare i film di un certo Joseph Kane. Così ne facemmo una piccola retrospettiva. Ci furono altre retrospettive, magari su autori che avevano diretto solo un film degno di nota e altri meno riusciti.

 

Le proiezioni avevano un pubblico per metà di anziani, pensionati che trovavano comoda la proiezione pomeridiana. Certo, alcune retrospettive come quella di Joseph Kane non avevano un grande pubblico, però c'erano sempre 50-60 persone. L'ingresso costava 200 lire ed era in realtà il biglietto d'ingresso al museo, che valeva anche per la proiezione. Ci fu il pienone quando proiettammo in lingua originale, senza sottotitoli, È nata una stella con Judy Garland. Non fummo i primi a fare proiezioni in lingua originale. Ci aveva già provato la sala Alexandra di Via Sacchi nel dopoguerra. Poi cominciammo a programmare film in lingua originale, quando possibile con i sottotitoli, collaborando magari con il Centre Culturel e il Goethe Institut. La pubblicità delle proiezioni appariva sui giornali, sulle varie edizioni locali dei quotidiani ed era l'unico modo per far sapere i programmi del Museo, che consistevano di tre film a settimana, cambiati ogni lunedì, mercoledì e venerdì.

A Star is born, Cukor, 1954

 

…no, il dibattito no…, però ci sono state alcune presentazioni di film in presenza del regista, che in genere introduceva.

Alfred Hitchcock
Per esempio è venuto Hitchcock, il quale, una volta entrato nella sala dove c'erano i materiali su Pastrone non nascose la sua ammirazione e rivelò che in Inghilterra il carrello veniva chiamato Cabiria all'epoca del muto, proprio perché il suo utilizzo era stato introdotto con il film di Pastrone. Di questo la Prolo era molto contenta, in quanto anche lei era un'ammiratrice di Pastrone."

Nel flusso dei ricordi di Radicati, si inserisce anche un aneddoto su Francesca Bertini, che introduce poi una breve riflessione sul cinema nel momento del declino italiano e dell’ascesa statunitense.

"La Bertini era veramente un po' folle. Si faceva mandare le lettere nell'albergo più elegante di Roma, anche se non vi risiedeva. Malgrado le resistenze, alla fine venne al Museo per presentare qualche film. Avrebbe voluto essere pagata per venire, ma su questo la Prolo era intransigente.




Cabiria

Fu una grande attrice del muto, però soffrì decisamente l'avvento del sonoro. Inoltre dei moltissimi film a cui ha partecipato non ne è rimasta che una piccola parte. Io temo che ci sia una ragione per questa moria di documenti: ho il sospetto che tre quarti di quei film perduti fossero veramente orrendi. Credo che l'insistere su questi temi mondani negli intrecci abbia portato al progressivo spegnersi del cinema italiano. Il tracollo avvenne a cavallo della guerra, ma prima il film italiano era un prodotto fortemente esportabile. Pare che anche Griffith abbia studiato Cabiria, cercando di cogliere le tecniche avanzate di ripresa. Certo che gli americani avevano mezzi tali da poter anche migliorare cose come l'introduzione del carrello. Così, Griffith poteva permettersi i mirabolanti salti temporali presenti in Intolerance e anche il montaggio poteva farsi più ardito e rompere la sequenzialità del tempo."

"Al momento di avviare il museo si raccoglieva praticamente tutto il possibile e l'immaginabile, compatibilmente con la disponibilità di magazzini come quello della distribuzione Pittaluga. A volte venivano trovati anche nulla-osta ed elenchi di didascalie (tra l'altro, alcuni erano firmati dal traduttore).
Poi anche Pastrone collaborò. Quando fu creato il museo, lui era ancora vivo e fornì parecchio materiale. Mi ricordo che una volta un suo film fuoriuscì dalla demolizione, avvenuta dopo la sua morte, di un arco che introduceva alla sua villa.
Ricordo anche che preparando un libro su Cabiria, facemmo una gaffe notevole, scambiando il luogo di alcune riprese africane per Cartagine, quando invece si trattava dell'attuale Ceuta. Vennero fin dalla Svezia segnalandoci l'errore.

I visti di censura erano molto interessanti perché contenevano le trame scritte in modo esteso, oltre alle motivazione, spesso cervellotiche, dei tagli. All'epoca del fascismo, a volte la censura era talmente sbrigativa da non curarsi nemmeno di tagliare; semplicemente, venivano respinte le pellicole.
Pare comunque che Mussolini amasse Chaplin, anche se forse non provava lo stesso sentimento per Il grande dittatore, un film per certi versi senza tempo, ma il cui finale era decisamente ottimista, se confrontato con i successivi sviluppi e soprattutto con la guerra che di lì a poco sarebbe scoppiata."
The Great Dictator, 1940
A fronte di un tale bagaglio di conoscenze cinematografiche e bibliografiche, osiamo chiedere se Radicati abbia mai pensato di dedicarsi alla saggistica o alle recensioni e gli chiediamo se abbia visto qualcosa di recente che lo abbia colpito.

"No, non so scrivere. Mi riesce faticoso. Preferisco fare schede. E poi, detto fra noi, non credo molto alle recensioni, soprattutto a quelle verbose. In effetti, credo che la maggior parte dei registi non le leggano. Però ci sono stati dei critici che hanno visionato dei film durante la realizzazione. Mi sembra che la Cappelli abbia pubblicato una collana con testi di questo tipo. Chi ha visto queste fasi, può sicuramente parlare meglio di un film, delle intenzioni degli autori e sulla situazione in cui lavorava la troupe.

Il sapore della Ciliegia, 1997
Sono molto pigro e vedo i film solo in TV (solo sulla RAI perché mi rifiuto di essere interrotto dalla pubblicità). Non mi sembra che si possa parlare di tendenze nuove.
Mi sembra che non ci sia niente. Credo che sia giusto il rimprovero che si fa al nostro cinema di non raccontare storie, di rinunciare a farlo. Forse le uniche cose interessanti vengono dalle cinematografie meno frequentate. Per esempio mi è piaciuto molto lo straordinario film di Kiarostami sull'uomo che cerca chi lo seppellisca (Il sapore della ciliegia). Da queste cinematografie, talvolta "povere", si avverte la volontà di raccontare, di farsi conoscere. Ma è ovvio che al cinema come in TV queste proposte sono minoritarie e ghettizzate, in nome dell'audience."

 

Intanto, Radicati ci mostra alcuni volumi curati dall'archivio storico per cui lavora, volumi che ripercorrono uno per volta i decenni della storia italiana del dopoguerra, con informazioni sui film dell'epoca, schede, recensioni d'epoca e anche dati statistici interessanti…

"I dati sugli incassi sono interessantissimi. A questo proposito, ricordo che la mia famiglia di fratelli cinefili tornò entusiasta dalla proiezione di Ladri di biciclette, che aveva confermato e superato le attese dopo Sciuscià; mi convinsero ad andare ed il giorno dopo trovai appena una quindicina di persone in sala, in uno dei principali cinema di Torino, il Corso. Ovviamente, fu smontato in gran fretta.

Sciuscià, 1946

Un altro ricordo di quegli anni fu la visione di Giorni perduti di Billy Wilder: il pubblico, malgrado la drammaticità dell'argomento, rideva in continuazione, visto che lo stereotipo dell'ubriaco era associato alla comicità, a comportamenti buffi."

E adesso il Corso è diventato una Banca ...

a cura di Adriano Boano, Sonia Del Secco, Marcello Testi

 


 

 

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