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Attualità, angustia e la capitale
Il Festival internazionale del Cinema di Berlino 2009
1 - Ragionamenti

Attenta all’attualità, la Berlinale di quest’anno”, assevera l’incantevole Katrin Bauerfeind, di nero vestita e con fare mieloso nel vivido e carminio contesto della Glanzvolle Eröffnung del Festival internazionale del Cinema di Berlino numero 59, per poi socchiudere repentinamente gli occhi ed ammiccare a Dieter Kosslick: “c’è anche un film sul Papa?”.

Allude, l’angelo, allo scandalo sui negazionisti americani e la crisi diplomatica aperta dal Vaticano con la Merkel – alla quale è stato ufficialmente risposto, appena il giorno prima, con qualcosa come “cara signora, lei non è neppure cattolica, non pretenda di capire il Papa e badi piuttosto ai fatti suoi”. Ed eccolo allora lì, il furbetto direttore del festival del cinema di Berlino che replica, coi polmoni pieni della propria nazione e lo sguardo a scavalcare la linea degli occhiali ed approcciare media e mondo: “no, non c’è; però nella sezione Retrospettive abbiamo Ben Hur, potrebbe ricordargli che la sua Azienda (sic) l’ha fondata un giudeo”. Alzi ora senz’altro la mano chi l’ha visto sulla Rai, questo episodio qui, nel mentre che proviamo a spargere sul tappeto i primi tre ragionamenti, imposti compulsi ed addensati come si vengono proponendo.

Primo ragionamento: non è affatto ineluttabile che una manifestazione quale la Berlinale abbia come compito quello di percuotere il nervo del proprio tempo o rendere o meno ad ogni costo atto dello Zeitgeist. Anzi: fai un festival cinematografico che è il primo per pubblico a livello mondiale; lo innervi di premiere sud-est-asiatiche, medio-orientali, sudamericane; ci gonfi dentro un overload epocale d’arte ed aneliti e speculazioni ed ermeneutiche che tramortisce: potresti già solo per questo permetterti il lusso di infondergli quell’afflato universalista ed includente che verrebbe addirittura naturale auspicare, in quell’ottica di buon senso per così dire medio borghese che meglio pare addirsi al carattere genericamente inteso della manifestazione. Invece nient’affatto: critica, glocal, a più riprese palesemente obamiana, la Berlinale 2009 s’è resa talmente tanto trade fair dell’arte filmica da scendere spesso, per non dire “precipitare”, nel dettaglio profano, sia questo la crisi finanziaria, la multinazionale assassina, i preti le suore e i vari altri mali del mondo. Anche per tale motivo è stato particolarmente divertente seguire, da Berlino, un minimo di rassegna stampa italiana a copertura dell’evento: tra chi ha registrato bassa affluenza e chi ha denunciato l’inedita distanza del grande pubblico, è stata quasi una gara a spararle più lontane possibili dai nudi fatti. Perché come giornalisti bisogna essere davvero cazzari allo stadio terminale, bugiardi cronici anche quando non serve per non avvedersi del bollettino di guerra dei “tutti esauriti” e non comprendere che è stato proprio il carattere populista dell’edizione in oggetto a decretarne il successo, oggettivo e conclamato. Prima chiave di lettura, dunque: Berlinale 2009 come manifestazione che s’incaponisce a voler vivere del e con il proprio contesto, persuasa che sia proprio questo ciò che fa la differenza, convinta che si tratti d’una opzione di valore, da perseguire al rischio di mandare tutto quanto fuori asse. Rischio assai presente, rischio tangibile.

Secondo ragionamento: non si annoino gli addetti ai lavori se si ricorda che non è casuale che la Berlinale si chiami così, lasciando al secondo accapo la dicitura “Festival Internazionale del cinema di Berlino”. Perché in primissima battuta il Festival di Berlino non è né tedesco né europeo né internazionale o globale (e dunque figuriamoci se universale, come da precedente paragrafo): è proprio solo e soltanto di Berlino. Tanto meno caso è che la Gliederung (“linea guida”, “filo conduttore”) della Berlinale sia per tradizione la più ragionata e rifinita nel grande mondo dei Festival del cinema su larga scala; cosa, questa, a propria volta berlinese, essendo propriamente di Berlino il vivere rettamente e con ordine nel caos, il lasciarlo fluire organizzandolo capillarmente da dentro, raddrizzandolo senza che se ne accorga, partendo dal letto e con confidenza sessuale. Ebbene, diciamo, la Berlinale è di Berlino: ma poche volte lo è stata come quest’anno, il quale ha raccolto assieme d’un colpo solo tutta la via via crescente popolarità della capitale tedesca, una delle poche occidentali in cui è ancora piacevole vivere. Il potere esplicativo di questa banale constatazione andrebbe mostrato scavando cose e portando alla luce verità disparse. Ciononostante, qui può esser sufficiente rilevare come: colorata e multiculturale fino a quando non si tratta di prediligere il prodotto autoctono; politicizzata di quel politico di voga che non da fastidio e si esibisce, vedi la mostra, vedi il fenomeno pop, vedi la sfilata shock; globalmente attenta, localmente dedita, sostenibilmente chic; sono descrizioni pass par tout e vanno bene ugualmente tanto per Berlino quanto per la Berlinale 2009.Ne viene in qualche modo che la seconda chiave di lettura è questa: una città a buon diritto fiera di sè che, seppure per mezzo del suo proverbiale understatement, decide e stabilisce che è davvero arrivato il momento di autocelebrarsi come si deve e lo fa mettendoci letteralmente il nome.

Terzo ragionamento: bisogna coprire il range che va da Kate Winslet nel “ruolo più importante della sua vita” alla Schuldfrage (la “questione della colpa” di Jaspers) fino al disagio angoscioso, Angst per i nordici ed angoscia, angustia per noialtri. Ebbene: nei termini della Berlinale 2009, The Reader era senz’altro il grande evento da evitare: troppo hype, troppe stupidaggini e tanta voglia di dire basta, che palle!, specie se si considera che di film a tema, nel solo 2008 e sul solo mercato statunitense, ne sono usciti perlomeno sei. L’apparizione berlinese della coproduzione usa/tedesca in questione è stata scortata da un batti e ribatti mediatico da rimanerci esterrefatti: la Winslet, per proprio conto, s’è guadagnata plurime prime pagine, interviste a otto colonne sui vari Morgenpost, Berliner Zeitung etc. nonché quel generico e diffuso ossequio teutonico da (appunto) Schuldfrage che non l’ha mai portata a dover rispondere a domande come quelle di fine 2008, quando The Reader raccoglieva i primi riconoscimenti ed i critici statunitensi le chiedevano “cosa c’entrano le tue tette con l’ Olocausto?”. Effetto valanga per effetto valanga, il doppio ed intorcinato e quantomeno postmoderno collegamento Winslet / Nazismo è stato pertanto messo nelle condizioni di percorrere a gran falcate i tappeti rossi berlinesi, richiamando indebite attenzioni ed innescando le polveri di sopite dinamiche d’inconscio collettivo. Ciò pare essersi riverberato, alquanto sociologicamente parlando, sulla percezione di gran parte delle opere in programma da parte del pubblico fruitore, il quale si è ritrovato spesse volte a vivere con angustia più che proporzionale un percorso che la direzione artistica ha pur palesemente voluto assai più apocalittico che integrato. Di nuovo, si dovrebbe scavare e riportare assieme pezzi per accedere al quadro d’intero, in cui Food, Inc dell’americano Kenner o Terra Madre del nostro Olmi, assieme al canadese l’Encerclement o agli altri due terzi della programmazione Forum, inspiegabilmente ma in realtà no, finiscono col condividere il medesimo terreno in cui colpe, ossessioni e paranoie la fanno da padrone ed illustrano senza inutili orpelli le proporzioni di un’era. Dunque senso di colpa e disagio, ansia e fretta da modernità-mondo con conseguenti aneliti di fuga, Great Escape e Redenzione su ogni fronte, tutto questo come terza chiave di lettura: di quando il primo Žižek che arriva potrebbe controbattere che tutto ciò è piuttosto e pur sempre l’essenza del Cinema tout court, rimanendo però cieco dinanzi al fatto che è solo oggi che domande sul come con-viviamo, sul cosa facciamo al prossimo nostro ed al contesto di entrambi, assumono per la prima volta la rilevanza che le rende aggettanti, che le porta innanzitutto in TV e poi presso i Festival (Italia in un caso e nell’altro rigorosamente esclusa).

Giordano Simoncini