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Attualità, angustia e la capitale
Il Festival internazionale del Cinema di Berlino 2009
4 - Dall’Orso d’Argento alla terna FIPRESCI

Spacciato per innovativo, youtubico, sperimentale, transmediale, il film che ha poi vinto il premio Generation 14 plus pareva meritare una chance. Non fosse altro che per David Carradine in veste di consulente filosofico. Ed allora, rintronati da proclami e descrizioni ad effetto, il patatrac di andare a vedere My Suicide lo abbiamo fatto anche noi. Scontare lo abbiamo poi scontato, macchiati d’innocente colpevolezza, all’interno della sala principale del Babylon di Rosa Luxemburg Platz, ingrassata come e più di sempre dagli alternativi e maleodoranti ventenni del circondario, invasa e brutalizzata da 2 ore di una roba che chiamata col nome suo è una cagata pazzesca, coacervo di rotoscope e animazioni svendute, ribellismo adolescenziale e provincialismo americano che non va a parare da nessuna parte che non siano le palle.

My suicide

Proprio a seguito del Q & A con il suo regista, una grandinata di insulsaggini ed uno yankee boscaiolo in divisa dal cappellino agli scarponi, l’antiamericanismo berlinalesco già covato ad apertura danze per diversi questioni (tra cui certo, anche la Winslet) è cresciuto esponenzialmente,determinandoci per decisioni drastiche se non addirittura politiche. Una di queste è stata senz’altro quella di depennare dall’agenda il già programmato Notorius B.i.g., film sulla vita dell’omonimo rapper-teppista tragicamente scomparso, per sostituirlo con Soul Power.

L’origine del documentario si chiama dietro chiarimenti preliminari. 1974, il mondo è in grande attesa per il Rumble in the Jungle, primo incontro di pugilato organizzato da Don King, che vede contrapposti George Foreman e Muhammad Ali. Prima che Alì salga su quel ring, però, dovrà avere luogo un grandioso festival musicale, voluto da Mobutu Sese Seko, allora presidente dello Zaire: sono invitate le più grandi star di colore del momento, da James Brown a B.B. King, da Bill Withers ai The Spinners. Con loro, accorrono documentaristi e reporter da tutto il mondo. Risultato: ore ed ore di riprese, che coprono l’intera durata del concerto divenuto poi famoso col nome di Zaire ‘74, di fatto l’evento musicale più importante nella storia dell’Africa moderna. I diritti di tutti questi footages furono concessi per la realizzazione di When We Were Kings, Oscar al miglior documentario nel 1997. Peccato però che il notevole lavoro di Leon Gast su Alì, nei piani originari, dovesse invece essere un documentario su Zaire ’74; ed ancora più peccato che tutte quelle ore di riprese siano rimaste sostanzialmente inutilizzate per più di 30 anni, proprio fino a quando il californiano Jeffrey Levy-Hinte, montatore di When We Were Kings, non è riuscito finalmente a metterci le mani sopra per dare vita a Soul Power. La visione del quale è una vera goduria, fatta di splendide performance live così come anche di elementi cronachistici e di reportage su attività di backstage e trame e dinamiche riconnesse all’orchestrazione dell’intero evento. Tutto questo, in uno squisito e romanticissimo stile vérité.

Soul Power

Facciamo volentieri il punto nel bel mezzo del cammino: siamo rimasti che la porcheria americana iperpubblicizzata ultra gonfiata si aggiudica il premio del caso, che sia quello dei ragazzini poco importa, ed invece il documentario vincente passa in totale sordina e rimane lì dov’è. È allora il momento giusto per introdurre, senza alcun preavviso, il quarto ragionamento: come norma generale, tra il valore dei contenuti di un Festival, pur essendo questi stessi filtrati, selezionati e riassestati dall’amministrazione del Festival, e le opinioni personali degli amministratori del Festival medesimi, che pertanto, quantomeno teoreticamente, si mordono all’infinito la coda in una sorta di danza del cane scemo, ci passa sempre e comunque una distanza abissale, anzi meglio: siderale. Nel caso della Berlinale questa distanza vale di regola doppio. Si è già detto che il Festival Internazionale del Cinema di Berlino è il primo al mondo per pubblico e tale constatazione allude già abbastanza chiaramente ad ingenti sommovimenti di capitale. Sennonchè a sommuoversi e ribollire non sono solo i botteghini, bensì anche le tasche di qualche altro migliaio di stakeholders, tra le orde dei quali poniamo volentieri l’accento sulla vasta componente politico-istituzionale. Ciò rende in prima battuta fortemente risibile il reporter europeo del caso al quale, ogni anno, da fastidio che “ci sono troppi film tedeschi”: cos’altro desidererebbe questo reporter idealtipo, posti gli interessi in ballo? Ed è ovviamente ancora qui che vanno rintracciati i moventi dell’Orso d’Argento alle mani della commedia Alle Anderen, la quale s’è lasciata sì guardare, ma senza alcuna eccitazione. Poi c’è anche la seconda battuta ed ha molto a che fare con un comunicato stampa preliminare di qualche mese fa, in cui già si leggeva: un’edizione all’insegna della diversità. Per cui attenzione al fattore moltiplicatore: a Berlino, un’edizione della Berlinale dichiaratamente all’insegna della diversità; nella città diversa per antonomasia, un’edizione diversa della manifestazione che da sempre è la città, ma quest’anno di più. Quest’evidente rumore ha prodotto un muro di gomma, un vincolo inviolabile che nessuna Tilda Swinton poteva buttare a terra - figurarsi poi quella Tilda Swinton, che se c’era era lì proprio per stare al gioco.

Nord

Si può allora guardare con questi occhi all’Orso d’Oro della Teta Asustada, lungometraggio con certificazione di premio Berlinale già in fase di progettazione e Gestaltung, il film “più diverso di tutti” ed innanzitutto più diverso degli altri americani ed europei, passati come ogni anno via dal valico del festival con poco più che molta pubblicità nel sacco. Ed ecco che proprio qui la voce della naïveté si ferma e chiede: ma tolti denaro e dirigismo, c’è mai qualche esito berlinale da ritenersi puro? Forse sì. Vi è infatti una giuria, ben nascosta tra la miriade di altre che impestano ogni compartimento della manifestazione, i cui pronunciamenti paiono quasi sempre saggi, ovvero anche “scevri di condizionamenti” se vogliamo che sia questo il cartellino, ovvero ancora semplicemente “condivisibili”. Si tratta della giuria della FIPRESCI (Fédération Internationale de la Presse Cinématographique), la quale in questo 2009 ha appuntato nuovamente un’ottima terna. Innanzitutto La Teta Asustada, che però basta così; dopodichè, anche Nord e Ai No Mukidashi. Per il solito bizzarro sesto senso di cui sopra, li abbiamo visti entrambi ed eravamo tutt’occhi.

In Nord, l’angustia del protagonista Jomar sono gli attacchi di panico. Combattendoli svogliatamente a suon di alcool (“Sprit”) e pasticche, l’omone trascina la propria esistenza tra le incombenze di un lavoro che detesta (bigliettaio dello skilift) e l’implicita attesa di una qualche redenzione. Complici l’incontro con l’uomo che gli ha soffiato via la ex compagna, in fuga verso Sud, nonchè un poco accidentale incendio che divora la cabina in cui vive, Jomar decide che è arrivato il momento e punta la bussola verso il Nord della Norvegia, al fine di recuperare gli affetti familiari, per troppo tempo obliati. Con un palese occhiolino a The Straight Story di Lynch, il regista colloca dunque il protagonista in sella ad una motoslitta, inadatta alle sfide che l’anabasi pone, per poi architettargli alle spalle ogni tipo di incidente di percorso, da un’invalidante oftalmia fino ai più assurdi incontri, grotteschi o esilaranti o surreali a seconda. L’inquadratura finale vede infine Jomar planare all’interno del campo visivo del figlio che gioca nel cortile di casa, immerso nella neve di una vallata algida, lasciando intendere che le tensioni accumulate sono destinate a sciogliersi nella più dolce ricompensa.

Il film del norvegese Rune Denstad Langlo è intelligente, fresco e notevolmente ispirato. Complice la solita ambientazione corale modello film scandinavo in pace con la propria terra (cosa tornata decisamente in voga), l’epica di Jomar assume a più riprese toni irresistibilmente commoventi. È però proprio in corrispondenza di questi punti che la sceneggiatura prevede la svisata e mette nuovamentein equilibrio l’emotività, come ad es. con la sequenza del “metodo per ubriacarsi con poco alcool”, a memoria personale una delle situazioni più esilaranti viste su grande schermo negli ultimi anni. A cavallo tra la poetica delle ting som virker e l’humor tipico di chi passa troppi mesi rinchiuso in casa ad alitare sui vetri, il vincitore del Panorama è stato alla fin fine lui, di diritto: la sala che esplode, i vicini che agitano le gambe, le ragazze con gli occhi umidi e tutto quanto ciò che ti spinge a chiederti quanto è sbagliato un tempo in cui, tra le varie crisi, debba essercene una anche per ilCinema.

Ai No Mukidashi

Specularmente, l’attualità di Ai No Mukidashi si situa innanzitutto in un’imprevedibile allineamento tra i due capi del mondo, ancor più imprevedibile perché venutosi a creare al momento opportuno: difatti, all’origine delle grane del povero Yu, protagonista maschile impersonato dalla becera j-pop star Takahiro Nishijima, c’è proprio e niente meno che il Cattolicesimo. Dopo aver perso due donne di fila, l’una per morte l’altra per fuga, suo padre viene infatti travolto da un’inane onda anomala di paranoia religiosa e lo costringe, da prete qual è, a confessioni compulsive per le quali l’ingenuo Yu non ha alcun peccato da rivelare. Questa latenza spingerà pian piano il giovane a peccare per il solo fine di accontentare il padre: e dove risiedono i peccati più funesti, per un vero cattolico, se non nel sesso? Guidato da un esilarante guru, Yu diviene dunque un tousatzu, parola che connota la figura tipicamente giapponese del guardone che fotografa, molto spesso con apparecchi in miniatura, gli upskirt delle collegiali nipponiche in gonnellina che tutti i maschietti occidentali sanno. La nuova passione del giovane diviene però oggetto delle attenzioni di una femme fatale, che guarda caso è anche a capo di una indeterminata, pericolosa ed assai gerarchica setta di culto estremo: sarà allora proprio il confronto strenuo tra queste due realtà ad articolare gli snodi principali della narrazione, nel bel mezzo della quale finisce col situarsi una ragazza che simboleggia la Vergine Maria, oggetto dei più scomposti desideri da parte dell’uno come dell’altro fronte.

Infinitamente più accessibile di ogni suo altro lavoro, l’ultimo film di Sion Sono mette in piedi una faccenda grossa, seppure con la tipica e sincretica levità della cultura otaku. Grossa innanzitutto per proporzioni, raggiungendo la pellicola il limite di non ritorno delle quattro ore di durata. Ma grossa anche e soprattutto per i contenuti, tanto sul versante del dilemma della spiritualità contemporanea, confusa e malata quale che sia il voto per cui opta ed il lato del mondo da cui si ritrova ad operare, quanto sull’altro versante del contegno, del costante sbeffeggiamento anticlericale in cui il regista si è cimentato evitando con cura candori superflui: “credo in un Dio che ha erezioni”, ha dichiarato con nipponica impassibilità nel corso del dibattito facente seguito alla prima mondiale della sua ultima creazione. Sennonché queste erezioni, per niente divine ed anzi umane troppo umane visto il piglio e le movenze delle protagonisti femminili del film, gli sono servite più che altro come trait d’union narrativo con cui infilzare su di un unico spiedo la noia dei propri conterranei assieme alla disattenzione a stelle e strisce ed all’abulia criticista della Vecchia Europa, per poi cuocere tutto e presentare in tavola un piatto sapiente, da trionfo intercontinentale perfetto. Ai No Mukidashi è insomma sostanzialmente questo: e tra chi lo svilirà facendone un cult e chi lo biasimerà per l’ipermodernità che rappresenta, che osanna, c’è davvero da librarsi in aria e portarsene via lontano il ricordo. In quel preciso momento il buon Sion (sempre stando alle dichiarazioni da post proiezione, non si sa se attendibili) sarà già in Norvegia a girare la propria versione delle vicende dei Mayehm e di Burzum… quanti auguri gli facciamo?

Giordano Simoncini