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Diario di uno skater



Paranoid Park di Gus Van Sant



Van Sant non fa nulla per caso: To die for Tv è strutturato come una situation commedy, Elephant sembra un glaciale reportage, come quello da cui prende nome (ed è completamente diverso sia come fattura che come assunto da questo film di palingenesi e non di rabbia che alcuni hanno superficialmente avvicinato a quest'ultima fatica). Quindi anche in quest'ultimo lavoro la visione prismatica più evidentemente teorizzata nel bostoniano Good Will Hunting è la molla che muove la scelta di raccontare per successivi recuperi di sequenze già accennate e successivamente approfondite. Quelli che potrebbero apparire come artificiosi espedienti linguistici trovano così una motivazione intrinseca alla storia: quella scoppiettante serie di incipit dà luogo al codice adottato, perché il racconto è scritto in lingue di fuoco. Sono come ritorni di fiamma che mettono meglio a fuoco il racconto ogni volta che ripropongono una sequenza che ha tormentato il ricordo dell'adolescente; sono come guizzi improvvisi riproposti all'attenzione, per poi sopirsi lasciando spazio alla ricostruzione di un altro fronte del fuoco, quello che compone un unico incendio e si impone prepotentemente nel Lete obnubilante dato dall'oscillazione della mente trasportata dallo skate; a proposito, ubriacanti le sequenze in soggettiva dello skate, nella cadenza del rollio intervallato solo dall'approccio di qualche scalino da superare, così come è ipnotica e la musica che sostituisce il rollio, togliendo realtà al sonoro, lasciando labbra che pronunciano parole che non udiamo. Ma poi tornano ad affacciarsi alla memoria e nella impellenza della scrittura che è altrettanto incalzante. E solo alla fine si capisce che Alex ha seguito il consiglio della ragazzina che infatti comincia a comparire sempre più spesso nell'alternanza di situazioni concentrazionarie e di ricordi da cui liberarsi scrivendone, per poi farli consumare in un rogo catartico, che è davvero tale... per Alex e per lo spettatore (che in fondo spera che il ragazzino se la cavi) e questo è forse l'aspetto più inquietante, preparato lungo tutto il film dalla apparente imperturbabilità del giovane skater, in un climax che parte da un racconto piano (poi si scopre diaristico, come spesso nel cinema di Van Sant) per tornare a una sorta di quiete alla fine del falò: l'autentica catarsi narrativa, dove anche la struttura del racconto giunge a uno stato di "equilibrio", concludendo la confusione del tempo diegetico e terminando anche la macerazione dell'animo (nella sequenza finale Alex si addormenta in classe, preda del calo di una tensione che non gli dà pace per giorni - e anche questo è un atteggiamento che può sembrare tipica di una normalità scolastica distratta e senza stimoli, ma invece nasconde ben altro), che sembra oppresso più per il fatto di doverla nascondere che dall'enormità del delitto, che viene mostrato un'unica volta, rispetto a tutte le altre sequenze e la cui importanza nel ricordo del diario è data dalla quantità di volte che ne viene riproposto un fotogramma. Una prassi che apparenta maggiormente ai flashback di Drugstore cowboy un film che infatti mette in scena il bisogno di "riscattarsi", di liberarsi da una qualche forma di colpa che mangia l'anima.
Insomma quella esplosione del racconto in mille schegge di storia sembra trarre linfa dal rogo del racconto stesso che si fa rappresentare solo in quel modo e in un'unica performance, perché poi finisce bruciato e le sue singole parti si manifestano nel momento in cui il fuoco le esalta.

Anche la figura del personaggio ricalca una prassi vansantiana: quella dello stereotipo a cui ricondurre il protagonista, che non è una scorciatoia per raccontare utilizzando parametri già conosciuti dallo spettatore, ma per metterglieli in scena (il grandangolo in cui sono incorniciati i protagonisti di Elephant) in modo da scardinarli con un effetto più dirompente, non appena si gratta la superficie dell'aspetto o del disinteresse: per sottolineare quest'ultimo in una perfetta scelta di montaggio assistiamo a due dialoghi con la stessa ragazza, che funge da guida e interlocutore assennata, una sorta di grillo parlante un po' meno odioso e che alla fine viene ascoltato: dapprima è sorpreso a leggere un giornale e non volendo farsi scoprire interessato all'omicidio di cui è autore, accenna alla guerra in Iraq - dando luogo allo scetticismo della giovane - solo dopo nello scorrere del montaggio assistiamo al loro precedente dialogo, dove Alex rivendica orgoglioso di non aver alcun interesse (tantomeno per l'argomento della guerra perché difficile è occuparsi di qualcosa di esterno a quel mondo piatto e obnubilante di cittadina di provincia; forse da quei luoghi o ci si arruola o se ne rimane completamente fuori e il caso di Alex è il secondo, dato l'ambiente benestante in cui è immerso).
Questo serve anche per accostare i due Alex, quello precedente e quello successivo al fatto: la variazione è impercettibile, ma la bravura filmica del regista e del giovane attore sta proprio in quella impercettibilità. Infatti è smarrito, ma lo può capire solo una ragazzina evidentemente molto interessata a lui, sembra che sia catatonico e imperturbabile (e riesce a esserlo indubbiamente) ma solo perché si impone di esserlo, eppure la regia riesce a far trasparire il disorientamento senza calcare in modo che durante la visione - complice lo sminuzzamento del plot, ricomposto senza sequenza cronologica - del film sembra di cogliere il distacco, che invece è tutto costruito, come era l'apparente fragilità di Nicole Kidman in To die for Tv. Il risultato è che non esiste più la coppia oppositiva risolutezza/insicurezza, Alex sembra superare questo fattore di regolazione della personalità.

Il limitare, il confine tra le due personalità è dato dalla sequenza della doccia, una svolta quanto quella del rogo finale, ma non catartica come quella, dove la disperazione lascia la strada all'insicurezza sul da farsi (il tentativo di telefonare interrotto probabilmente dalla sensazione di non poter trovare un interlocutore all'altezza della situazione e conscio della difficoltà di raccontare l'inenarrabile) e poi alla pseudolucidità dettata solo dalla necessità di nascondere le tracce di ciò che non si può raccontare. La sequenza nella doccia è eterna, più lenta di qualsiasi rallenty di altre scene nel film, l'acqua non lava l'anima, pulisce solo dalla sporcizia dei treni ma l'inquadratura sul lento scivolare del corpo di Alex seduto nella vasca con le mani sul volto si chiude nel buio, un buio che non pulisce, un buio in cui si sprofonda (e si cade ancora di più dopo, quando si scampa al giudizio degli altri e bisogna inventare l'espediente letterario per trovare un riscatto). Da qui, anche se lo spettatore la percepisce già in precedenza grazie alla frammentazione del racconto, Alex inizia a cercare di mantenere intatta la normalità della sua vita, intaccata con particolare veemenza dalla paura solo nei momenti in cui si deve confrontare con il poliziotto (entrambe le volte), ma non dal senso di colpa (era legittima difesa, si ripete fuggendo dai binari, ripreso di nuovo sul ponte e di nuovo dallo stesso angolo, come uno sguardo inquisitore): infatti non lo colpisce tanto l'evento, quanto la sensazione nuova di non riuscire a tornare al suo tran-tran rassicurante e vacuo, nemmeno lo skate nuovo, l'ovattata - e protettrice - atmosfera del liceo, la scopata con la ragazzina bellissima, biondissima e stupidissima, lo confortano. La freddezza durante il colloquio privato con il poliziotto è tutta volta a salvaguardare la sua libertà, la sua vita di sempre, le sue abitudini, non c'è senso di colpa che turbi lo sguardo fisso negli occhi di chi indaga su di lui. Un guizzo come di fiamma anche questo, di razionalità estrema, soprattutto nella tirata sulla consumazione al fast food di cui finge di ricordare (impensabilmente) le portate e la spesa, reso credibile - paradossalmente! - da una finta indecisione di un secondo.
La geografia personale di Van Sant - che ha toccato il Bronx di Finding Forrester e la Hollywood di To die for, ma che trova la sua cifra paesaggistica sia nella sospensione del lago Washington di Last Days, sia nel deserto dello Utah di Gerry, vera metafora di esplosione spazio-temporale, corollario dei non-luoghi caratterizzanti la strage di Columbine di Elephant - torna nello stato dell'Oregon, quello da cui si partiva per l'Own Private Idaho, e proprio di Portland era il sindaco-padre di Scott/Keanu, forse non a caso, visto che anche Alex presumibilmente rientrerà nella tranquillità del consesso borghese, una volta liberato dai fantasmi di una notte sbagliata.
In questo caso il non-luogo mantiene le sue caratteristiche, nonostante queste abbiano prerogative forti che attirano per le evoluzioni, per il risultato obnubilante e di assuefazione dello skate: il parco è come il lago Salato dello Utah, non si differenzia dalla fattoria femminista di Cowgirl, né ovviamente dal liceo alienante di Elephant. E non à estraneo a questo senso di continuità nemmeno l'uso del carrello che accomuna quasi tutti i film di Van Sant: ossessiva presenza che pedina i protagonisti, o ne perlustra i volti mentre procedono lungo i loro itinerari attraverso strade anonime, se non ostili. La camera sta addosso ad Alex e, vista l'impostazione del racconto fatto in prima persona, sfrutta l'effetto schizofrenico che ne risulta rendendo questa presenza ancora più assimilabile alla coscienza che lo insegue (palese lo sguardo dall'esterno della casa dell'amico: assistiamo dalle finestre alla sua svestizione, ripetuta più volte a dimostrazione di quanto più centrale essa sia rispetto alla raccapricciante ripresa dello sbirro tagliato a metà) e infatti smette di essere alle calcagna del ragazzo quando brucia l'ultimo pezzo di memoriale.
Per contrapposizione interno è lo sguardo sugli skater: Alex - che non vediamo mai esibirsi sulla tavola - è l'occhio sulle evoluzioni degli amici e degli skater che frequentano Paranoid Park. La sensazione è che la soggettiva di chi invece si lancia incurante del giudizio degli altri o si allena semplicemente con gli amici sia comunque seguita dall'occhio di Alex e commentata dalla sua voce e dal suo pensiero: il fascino del parco degli skater sta nel coacervo di talenti che si esibiscono per sconosciuti, che provano evoluzioni nuove, che si misurano con se stessi o con gruppi di coetanei. Tutti quei ragazzi sono potenzialmente Alex ma non è Alex a provocare quel rollio ipnotico che a volte si sente e copre ogni rumore di città, a volte è coperto dalla musica completamente fuori contesto (a questo proposito, come non notare la sequenza in cui Alex lascia la ragazzina nel campo sportivo e il dialogo si svolge, a labbra che muovono, mute, sentimenti di rabbia e delusione in lei, distacco e disinteresse in lui, voci che si annullano nella felliniana melodia di Giulietta degli spiriti?)

Il climax questa volta non ha il culmine nella scena di uccisione della precedente Trilogia della morte, ma si mantiene sul coté narrativo: è tutto intrinseco al modo usato per condurre la narrazione e la tensione sta interamente nello sforzo - riuscito - di non scoprirsi, di non far trapelare nulla da sotto il cappuccio. Questa attenzione centrale e asse portante del film è denunciata dall'inizio nell'interrogatorio, che presumibilmente si svolge in realtà all'epilogo dei fatti e che dunque solo col senno della ricostruzione del film a posteriori (come il prototipo Providence di Resnais) si può leggere l'uscita dal gabbiotto dell'interrogatorio affannata, impaurita, sconvolta come chiave di lettura: l'impunità lo spinge a compilare il memoriale, perché in quel frangente giunge alla certezza di non venire perseguito... ma permane l'angoscia e il rimorso da cui liberarsi.
Un'angoscia che ha forme ben scandagliate dal regista che le mette in scena attraverso i pochi dialoghi concentrati, ma soprattutto tramite le reazioni del suo corpo, da quella eclatante della sua passiva performance sessuale (come passivo rimane il suo approccio anche alla tavola: non lo vediamo cimentarsi con le giravolte del parco) a quella di sgomento davanti alla televisione che gli - ma solo a lui - getta in faccia il suo delitto.

Van Sant è il regista dei corridoi come contenitori di emozioni, ma soprattutto come - diversamente tra loro - luoghi simbolo e rappresentazioni di malessere tramite luci e riflessi, campi più o meno lunghi che mediano il rappporto con il soggetto collocato al centro, anditi da attraversare aspettandosi che provenga di tutto dai loro lati che scorrono anonimi a costruirli: quasi mai la figura è posta rasente i muri, perché non sono varchi rassicuranti o protettivi. D'altra parte lo spazio in cui si è immersi non sono apparentemente minacciosi - basta cancellare le componenti potenzialmente destabilizzanti come la guerra in Iraq -, persino l'alternativo "Paranoid Park" è frequentato al massimo da novelli Woodie Guthrie.Eppure basta quel poco di trasgressivo per scatenare l'irreparabile, per essere scaraventati nell'incubo, per doversi isolare dal resto del mondo al fine di costruirsi una barriera impenetrabile; chiudersi a riccio come unica salvezza possibile e poi ricostruire la narrazione di se stessi a partire dal grado zero di quel corridoio, percorso a passo di carica inquadrati un po' dall'alto, come nell'Urlo di Munch. Sono tre i momenti in cui il corridoio funge da protagonista: chiamato dall'altoparlante della scuola all'interrogatorio che vediamo in apertura, ma che fa seguito a quello collettivo, dove il branco è ripreso sempre collettivamente e offre un senso di comunità via via che avanza, perché da ogni porta che entra in campo nella carrellata all'indietro escono sempre nuovi skater convocati: una sorta di wild bunch inarrestabile, mosso dall'unica forma condivisa di interesse documentata dal film. Ma sono gli altri due carrelli nel corridoio della scuola a essere significativi e centrali nell'economia del film.
Nel primo caso Alex si reca dal poliziotto come se si trattasse della "solita" convocazione dal preside (anche se sa probabilmente cosa lo attende), la camminata è quella ciondolante, ma sicura, e in tempo reale, come quella che lo porta sulle strade da percorrere in skate. All'uscita Alex scappa dai suoi fantasmi, evocati dal poliziotto, fantasmi da cui guardarsi - come da chi indaga e che ha sicuramente i suoi sospetti ma non prove per inchiodarlo - ripercorrendo all'indietro e voltandosi a ogni passo, accelerando, sempre in tempo reale, verso il buio (come nella doccia, l'uso dell'illuminazione non è casuale). Il corridoio in entrambi questi casi sembra infinito.

Il salto è fatto, a tutti i costi Alex deve difendere l'equilibrio della sua vita da quei fantasmi e mantenere il proprio segreto è l'unica salvezza, per la propria coscienza e per il mondo che lo circonda.


chiara biano
adriano boano


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