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L'insostenibile leggerezza dei Coen
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«Let's go back to God» canta con voce triste e cadenzata il coro gospel che accompagna una chiatta piena di rifiuti verso un'isola artificiale sul Mississipi adibita a discarica. Che God sia la discarica o la discarica sia God non è detto, ma il fatto che quasi tutti i personaggi di questo film finiscano proprio lì, a mio parere, è già un indizio. Anzi, un "giudizio", beatamente universale.

Le prime inquadrature ci introducono in un mondo che ricorda quello di Fratello dove sei: gli Stati Uniti del Sud, ma - questa volta - nel religioso deserto dell'anima di chi si aggrappa alla fede perché cerca un motivo di vita che non trova in - o intorno a - sé.

Il film è un remake, d'accordo, ma io e il mio ragazzino undicenne, (battezzato nell'età dell'incoscienza con un gesto a tradimento da parte di noi genitori, ma in seguito non catechizzato) abbiamo visto prima questo dell'originale e lo abbiamo digerito come solo gli "ignoranti" - nel senso etimologico del termine - lo potevano digerire, senza sovrastrutture mentali particolari dettate dal paragone inevitabile tra le due versioni; in particolare mio figlio, che si ritrova quest'anno alle sue prime visioni cinematografiche degne di questo nome.
Così abbiamo pensato - in questo momento in cui pare che l'aspetto più glamour della costituzione europea sia il distacco preso dalle radici cristiane del nostro paese (orrore... proprio ora che tentiamo in tutti i modi di annientare il nemico musulmano!) - di capire in che modo il cinismo che pervade tutto il film va di pari passo con l'ipocrisia religiosa dei personaggi e con la loro morale perbenista.

Scambiandoci le prime impressioni ancora in sala i commenti di mio figlio erano entusiasti: bene, concediamogli un certo entusiasmo che si può provare per questo film stile "arsenico e vecchi e merletti", se non si è visto magari prima qualche altra creatura dei fratelli Coen, come Fargo, Il Grande Lebowski o Barton Fink (film, quest'ultimo, che ho amato moltissimo, anche se credo di non averlo capito o intuito del tutto), ma chiediamogli almeno perché. Risposta: «faceva ridere». No, per Dio, mica tanto! Ma mi dimentico che io penso (a volte, solo a volte) da adulta, allora gli chiedo (tendenziosamente, è un tranello, lo riconosco) che cosa c'è da ridere nella morte di tante persone e lui mi risponde candido «è per come muoiono». E qui sta il senso del film: il cinismo è un'arma contro la tragicità. In effetti, mi spiega Lorenzo con linguaggio confuso e mimando le scene, le gag comiche minano tutta la pellicola, dagli attacchi di dissenteria del dinamitardo in sahariana alle semplici espressioni facciali del giovane nero, agli espedienti più banali come il ritratto del defunto Otar che cambia espressione con lo svolgersi della vicenda.

Tutta questa comicità è accentuata in contrappunto - per utilizzare un termine musicale - dalle continue citazioni bibliche declamate con il tono della profezia apocalittica dalla vecchia padrona di casa, pronta a giudicare chiunque in terra disubbidisca al suo dio, al quale lei, umile serva del signore, si sostituisce per risanare il mondo dal peccato, nonché dalla musica nera religiosa dei gospel a quella sacra dei finti musicisti, musica «commissionata addirittura dal papa», come sostiene Tom Hanks.

La padrona di casa offre, senza saperlo, la sua abitazione come base logistica ai soliti ignoti, una combriccola di macchiette che corrispondono a tipi precisi, assoluti, chiusi in loro stessi, per nulla a tutto tondo: la mente cinica e malata, il muscoloso senza cervello, il militare con baffetti hitleriani reduce dalla guerra in Indocina, l'esperto di esplosivi, il giovane di colore chiacchierone e spavaldo. In ogni personaggio, l'aspetto che lo etichetta è portato all'estremo fino alla comicità, fino a renderlo ridicolo, a provocare la risata nel pubblico, che dimenticando che i cinque si stanno facendo fuori a vicenda tentando di ammazzare una vecchietta - disseppellendo anche esilaranti contrasti edipici infantili e personali fragilità - si gode anche l'ultima caduta sulla chiatta dei rifiuti, quella della mente del gruppo, colpito a morte da un orrendo gargoille locale finto-gotico, simbolo, in oscure epoche religiose, di protezione dagli spiriti maligni.


La vicenda dell'originale inglese di Mackendrick del 1955 è diversa per clima e per maniera: non si ritrova in quella il moralismo religioso, la comicità è schietta, da commedia europea anni Cinquanta. Alec Guinness è superbamente maniacale (un ciuffo di capelli bianchi ribelli sottolinea a tratti un sorriso mentalmente in disordine) e l'atmosfera che pervade la casa della Signora Omicidi è cupa e molto british.


La chiatta sul Mississipi dei Coen sostituisce i treni su cui cadono di volta in volta, più o meno casualmente, i cadaveri dei componenti della banda, Guinness compreso, mentre la «vecchietta sbilenca» (com'è chiamata con un'opinabile traduzione nella versione italiana del film di Mackendrick) è ben conscia in conclusione di tenersi il bottino e di essere diventata improvvisamente ricca mentre la nera padrona di casa dei Coen, presa dal suo fanatismo religioso e moralista, decide di devolvere tutto in beneficenza.


Insomma, nemmeno l'episodio blandamente macabro del gatto in fuga con un dito amputato in bocca ha colpito mio figlio, anestetizzato ormai da improbabili Prigionieri di Azkaban, da orrendi "dissennatori", o da rivoltanti Urukai nati dalle viscere delle terre dell'Oscuro Signore degli Anelli. Quella "bevuta" qui, in confronto, è acqua fresca, "leggera", a detta d'undicenne, perché il cinismo supera la tragicità della situazione e la rende comica, quasi surreale (penso alla scena in cui i poveri malcapitati stanno tentando di disfarsi del cadavere del giovane nero - morto perché cascato in una trappola psicologica edipica che gli ha impedito di uccidere la vecchia - e nel frattempo le lavano le stoviglie con il grembiulino legato in vita. Bianchi al servizio di una donna nera!).
Il perbenismo fondamentalista americano è scardinato da una tale leggerezza di rappresentazione, una superficialità che lo rende ridicolo e che fa sembrare la vita una cosa di poca importanza, di scarso valore, facilmente sacrificabile e non sempre per puri ideali. Allo stesso modo si rivela inutile, di fronte a una simile vacuità, la rigida distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male per la chiesa battista o per qualsiasi chiesa o dottrina. Il confine è sottile e facilmente valicabile, nonostante i muri alzati da secoli di indottrinamento.


Alla fine la pellicola sfarina tra le mani, poco rimane di quest'opera se non una godibile sensazione di facile catarsi dei vari pesi privati sulla coscienza, una assoluzione dai peccati (il crimine alla fine paga, non chi l'ha perpetrato, ma qualcuno ne usufruirà) accentuata dalla scarsa rilevanza data dalla fisicità dei cinque delinquenti, talmente caricaturizzati da sembrare irreali. Poco si soffre per la loro comica dipartita, anzi si ride cinicamente, contenti di essere tra quelli che ancora, grazie a questo cinismo, sopravvivono.
In alcune recensioni lette in rete lo si definisce ipocritamente un film per adulti «per il linguaggio crudo e i molti riferimenti sessuali», ma non credo che un ragazzino abituato a guardare (non semplicemente a vedere) un telegiornale qualsiasi di questi tempi non abbia le armi sufficientemente affilate per vedere questo film senza subirlo.

Chiara Biano



Cannibalizzare le idee altrui consente di esprimere quelle poche interessanti che possono venire in mente, trovare addentellati con quanto è già stato analizzato e lasciare al "già espresso" dagli altri l'onere di sostenere il motivo dell'espressione artistica o critica. Un film come Ladykillers, che cannibalizza un genere, esasperando la maniera dei Coen, invoglia a estendere anche alle recensioni questa prassi: Chiara ha usato suo figlio come specchio riflettente di quali siano i motivi di interesse nel modo di fare cinema dei due fratelli, a me piacerebbe restare a margine di quello che lei scrive per evidenziare dove conducono i rifacimenti, apparentemente meno dirompenti del solito, alcuni elementi di interesse linguistico e soprattutto il nuovo tassello di quella analisi sociale degli Usa perpetrata dai due terribili fratelli lungo tutta la loro filmografia.

Innanzitutto l'esordio anodino rispetto a quello che era - e sarà poi nell'opera - la prassi di quei film: qui la vecchia nera (che dorme con crinoline in testa, indossa i vestiti degli anni Quaranta) è protagonista da subito: è lei che introduce il mondo (al punto che il poliziotto non vedrà mai il bandito, che potrebbe essere frutto della fantasia della donna, ovvero del cinema) sia localmente, attraverso il suo percorso tra le stradine deserte da iconografia della sonnacchiosa cittadina solcata dal Mississippi ripetuto a ritroso alla fine, come a chiudere in un anello il bislacco racconto, sia temporalmente («Come se non fossero passati 30 anni dal reverendo King», a rimarcare che sembra invece proprio essere ripiombati in quei tempi di divisione razziale - solo che i neri occupano nell'immaginario stereotipi altrettanto sgradevoli e tutti improntati a sottolineare l'indolenza e l'approfittarsi di una "presunta" condizione di discriminazione), ma per dimostrare che si colloca invece in uno spazio e tempo congelato, quello cinematografico dei film di riferimento, avulso da qualunque realtà, che invece faceva capolino da tutti i film precedenti, anche quelli più letterari come Barton Fink, per non parlare di Big Lebowski.


E poi la presentazione dei comprimari, tutti caratterizzati e tutti prolettici in qualche modo, ad esempio il cane dello spot - muore ovviamente stecchito anche lui, come tutti nella storia - che mangia da una ciotola, ammaestrato dal dinamitardo a cui il gatto porterà via il dito; dove la prolessi non è semplicemente un espediente linguistico a maggior rigore filologico, ma anche e in particolare per accentuare la presenza di ripetizioni di luoghi retorici tipici del genere cannibalizzato: il piano ci viene riproposto in svariate occasioni, ripreso a tutto schermo, arrotolato, presentato e descritto, sfondo per l'ennesimo grottesco sberleffo (la mano monca del dito che si staglia sul piano disteso sul tavolo, la riproposta delle medesime inquadrature sulla cantina come deve presentarsi all apadrona di casa, la gag della sigaretta inghiottita dall'indocinese... l'idiozia del giocatore di baseball già tutta compresa nella soggettiva, che di nuovo denota maestria nella analisi del cinema di quell'epoca citata)


La negritudine che pervade il film è quella, irreale come ha dimostrato Melvin van Peebles, che esiste quasi soltanto nei cinema: neri che ballano e cantano spirituals nel sud, poliziotti sfaccendati e giovani hippers pronti alla rissa, vecchie svanite che sembrano uscite da Gone with Wind. Una presa in giro feroce della questione razziale nient'affatto risolta, vista la presenza di un indocinese o dei soliti stereotipati gestori cinesi di un supermarket che si difendono con una violenza inusitata; persino il bianco dinamitardo aveva partecipato ai Freedom Raiders nel 1964 e subisce quella deformazione intestinale, che rende la sua copia grottesca: proprio a lui è affidata la battuta che rivendica al contrario una parità di responsabilità a fronte della parità di diritti. Prima che si scateni la furia omicida.

Altro aspetto è quello legato all'uso smodato delle virgolette: tutto nelle parole del professore è tra virgolette (e ricorre sei volte il suo gesto con le dita a mimarle) a sancire che ogni inquadratura, ogni parola del dialogo, qualsiasi luce o situazione, non è quello che si legge dal testo filmico così come è confezionato, ma rimanda ad altro e lo fa scopertamente, in modo smaccato e grottesco al punto da indurre al riso, ma senza farsi accorgere: le altre volte i fratelli Coen agivano di più sul registro della confezione e delle situazioni, anche nell'Uomo che non c'era l'importante era il corpo e l'epoca, ma qui si fanno testo le "situazioni extralinguistiche impronunciabili" con cui chiudevamo la recensione allora: i cori si connotano per singole parti che ricalcano la descrizione letteraria (le gambe della vecchia per il tutto, la sigaretta dell'indocinese per la sua caratterizzazione. Mentre in O brother where art thou? Si ritrova la zona, non il tempo e la stessa cinefilia, senza il calco maniacale fin quasi al dettaglio, sostituito però da piccoli spostamenti rispetto all'originale. Perché? Forse proprio per marcare la enorme importanza del linguaggio quando quello è l'unico riferimento. Cinema da amare quando si è adolescenti, come unico rifugio da assumere completamente come realtà e ricalcare all'infinito, duplicandone i vezzi, fingendo di aggiornarlo, quando invece non si cambia nemmeno la chiatta, la chiesa, la musica (che all'inizio dà fastidio al quadro appeso da decenni, ma ancora capace di emozioni attribuite al marito morto) e soprattuto la casa, che è un potpourri dei più terribili luoghi comuni ricercati con una minuzia maniacale: la riproduzione dell'Ultima cena che si confonde con la terribile carta da parati, e acuisce la dominante marron d'antan, è solo il dettaglio curatissimo - e inquadrato con attenzione come di passaggio e "casuale", ma la battuta di Tom Hanks allusiva a Dio dimostra la minuzia del particolare - che serve a ricreare esattamente la somma di tutti i set di quel genere di film, incentrati su una casa del Sud... dotata di cantina: i soliti due mondi, divisi e metaforici, il sotto e il sopra, il sordido e il puritano.

Adriano Boano