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La mort en exile


Regia, soggetto, sceneggiatura: Ayten Mutlu Saray
Fotografia: Felix von Muralt
Montaggio: Daniel Gibel
Decor: Elvira Isenring, Cemila Mutlu Musica: Amina Djahnina
Suono: Gérard Engler
Mixage: Adrian Kessler
Direttore di produzione: Felicitas Huggenberger
Produttore e vendita: Ayten mutlu Saray, Prieuré 18, CH-1202 Géneve, Switzerland, tel 41 22 7320922 cell. 4179 6431162
cast: Elidan Arzoni
durata: 27'
provenienza: Svizzera, 2001



Era il 3 marzo 1999, quando spirava Khaled Abuzarifa, soffocato dalla prassi di espulsione elvetica: due poliziotti ai lati come per il burattino Pinocchio, insolente sovversivo, e un giro di scotch sulla bocca nell'ascensore dell'aeroporto di Kloten a Zurigo. La responsabile della polizia di Berna, la radicale Dora Andres, rifiuta ancora oggi di riconoscere la responsabilità per la morte di Khaled Abuzarifa.

30 nov. 2002: manif per chiusura lagerCorso Brunelleschi, Pozzo Strada, Torino (Italia?). Questo quartiere è popolato da anziani, per lo più retrivi imbozzolati nei loro trascorsi di benessere minacciato, derivante da attività remunerative di liberi professionisti e imprenditori; basti vedere quante copie di "Il Giornale" sono esposte nelle edicole, in corso Montecucco, in via Mazzarello, in via Monginevro. L'indifferenza feroce regna sovrana, ma quando si cominciò a parlare della costruzione del centro ci fu un'insurrezione di legaioli e fascisti, allarmati dalla vicinanza con i pericolosi extracomunitari: la vergogna delle lenzuola alle finestre per testimoniare quel dissenso, l'avversione alla scelta di adottare un pezzo di una caserma semidismessa nel mezzo di un'area vastamente popolata - e da buona borghesia in gran maggioranza - fece andare su tutte le furie i proprietari di questi alloggi che temevano di veder diminuire il valore catastale dei loro beni (come se invece la presenza di militari fosse più confacente al loro decoro).
Protestavano perché il lager non aprisse, ma non in quanto struttura destinata a sofferenza e costrizione di persone innocenti, non per un soprassalto di umanità, ma per un eccesso di egoismo: quei cittadini, miei vicini di casa, avevano superato per gretta meschinità gli abitanti di Auschwitz: non tolleravano nemmeno di doversi sforzare di non vedere l'orrore, che invece pretendevano nei confronti dei "diversi", solo volevano fossero spostati un po' più in là, lontano dai loro affari, affinché non dessero nemmeno quel piccolo fastidio. Mostri degni del KKK, che i governi succedutisi, in saletta rossa come a palazzo Chigi, come i parlamentari convenuti (di ogni genere) in visita guidata, hanno blandito molcendo gli umori grevi e impedendo sempre che quanto avviene lì dentro trapeli, anzi i racconti degli sbirri crocerossini nei negozi, nei bar come dal tabaccaio, sono sempre improntati alla rassicurazione da un lato - per le coscienze dei pochi che ne hanno ancora un po' si dice che i reclusi sono trattati benissimo, in tono generico - e alla demonizzazione dall'altro (in fondo sono pericolosissimi e giù serie di episodi incontrollabili di risse e episodi di cui non si racconta per non turbare, ma si lascia intendere che si tratti di turpitudini inenarrabili). In realtà quella zona è rimasta invariata: una "zona militare - limite invalicabile" era il cartello che campeggiava sul perimetro già trent'anni fa, un buco per la società civile, non solo sospensione extraterritoriale, ma addirittura spazio inesistente, buco nero, sottratto alla vista e alle notizie. Cancellato, trasportato in un universo parallelo dove vigono regole diverse e improntate all'assenza di diritti per alcuni. Diversi.
Non so quale espressione di disgusto potrebbero adottare i miei vicini, se conoscessero i meccanismi messi in atto da quella situazione coatta; alcuni, quelli che hanno i balconi che dal corso danno sulle molteplici gabbie inscatolate, non possono fingere che l'apartheid non abbia prodotto un regime di disuguaglianza tra simili, provocando una situazione insostenibile di privazione della libertà, trattamento ai limiti della tollerabilità, abusi autoritari, punizioni psicologiche, condizioni igieniche inaccettabili anche qualora fossero rivolte ai peggiori malfattori, di cui l'attuale governo potrebbe fornire un lungo elenco, figuriamoci se riservate a innocenti con l'unica onta di non avere i documenti giusti.
Sono curioso di vedere come accoglieranno la protesta ben più civile prevista per il 30 novembre, per questo mi basta attendere, invece non potrò mai assistere ai sentimenti che trascorrerebbero sui loro volti a vedere ciò che avviene dentro, lì come in ogni costruzione della vergogna, in ogni parte del mondo. Basterebbe mostrare i 26 minuti di La mort en exile di Ayten Mutlu Saray a reti unificate al posto di arnesi nazisti à la Borghezio, per instillare almeno il principio del dubbio.
Inutile dire che, una volta rassicurati sul valore dei loro immobili - invariato - e scoperto che nemmeno durante i tentativi di fuga la loro tranquilla esistenza rimane perturbata, ogni protesta del quartiere si è assopita, come le coscienze.
La fiction di La mort en exile si occupa di cosa passa per la mente di Khalil, un palestinese della infinita diaspora prima del 3 marzo 1999, quando all'aeroporto di Zurigo gli veniva strozzato in gola il respiro, quell'uomo in fuga di un'etnia ormai clandestina ovunque, che subisce apartheid in patria e reclusioni in attesa di espulsione all'estero non è solo la quintessenza del rifiuto disumano del sistema globale che divide in garantiti e paria, ma diventa - congiungendo rappresentazione e cronaca - emblematico assassinio di stato che l'atteggiamento di preclusione del mondo ricco produce fatalmente ai danni di chi si affaccia al mondo occidentale con speranze di sopravvivenza; quando a mettere in scena la sua fine è una regista kurda, specializzata in storie di efferato razzismo elvetico, si raggiunge un livello simbolico parossistico dall'unione dei due popoli più sottoposti a persecuzione in questi ultimi anni e proprio con l'intento di soffocare la loro cultura.
All'ultimo Festival internazionale cinema delle donne di Saray avevamo potuto assistere alla storia di Alima (sottotitolo Das Leben ist wie Ei auf dem Stein), senegalese 21enne che alla morte del marito autottono non solo non può seguire il corso di formazine medica, ma viene espulsa.
Invece in questo tesissimo lavoro su Khalil, dove traspare l'enorme distanza tra il protagonista e i suoi aguzzini, l'appartenenza a mondi diversi, si fa largo uso del piano simbolico. Però non per richiedere uno sforzo interpretativo che espliciti la metafora, bensì perchè quella si configura come forma espressiva originaria del protagonista. Quello che traspare dalla descrizione della detenzione è che con lui è imprigionata anche la sua cultura, evocata in una sorta di incubo costante che confonde il piano onirico, in cui il giovane si va a rifugiare per sopportare l'attesa dell'espulsione, e la realtà spoglia della cella.
Ecco, un aspetto a cui non pensiamo mai: quali circuiti mentali possono verificarsi in situazioni di costrizione e come possono trasformarsi tradizioni e premonizioni; precetti acquisiti in gioventù in stridente contrasto con la situazione carceraria producono una condizione di prostrazione, che denota solo feroce persecuzione ai danni di un uomo in fuga, che si ritrova inchiodato da solo con i suoi fantasmi non più collocabili ormai in nessuna casella di quelle previste nei suoi orizzonti di riferimento.
Inoltre tutti i momenti di intervento allegorico del film riguardano più il rapporto con la morte e la costrizione, piuttosto che mettere in scena la nostalgia. Qui è rappresentato dapprima il dover dimostrare un'identità che si rivela inadeguata e quindi sostanzialmente inesistente, in seguito si aggiunge il disagio dell'essere maltrattati; da cui derivano le inquadrature più colme di poesia, ancora più laceranti perché è difficile suggellare la realtà, dividendola dalla fantasia popolata di luoghi tradizionali, forse di racconti assorbiti da bambino, di poi interviene l'abbandono e a quel punto in queste Guantanamo europee ci sono soltanto più esistenze sospese dal razzismo alla mercè di chiunque, tanto che Khaled Abuzarifa (ma non è sicuramente l'unico) ha subito ancora un ultimo stadio della sopraffazione: ucciso mentre subiva l'ennesima umiliazione, assassinio per trasformazione in pacco postale.

Ultime notizie
da http://www.italysoft.com/news/corriere-del-ticino.html.

VOTAZIONE FEDERALE - L’iniziativa sull’asilo approvata dalla maggioranza dei cantoni bocciata per pochi voti
Decisivi sono stati poco più di tremila voti: l’iniziativa dell’Unione democratica di centro denominata «contro gli abusi in materia di asilo» è stata approvata ieri dalla maggioranza dei cantoni, ma è comunque risultata bocciata avendo mancato per un soffio la maggioranza popolare. I voti contrari sono stati 1.122.874 (50,08%) e quelli favorevoli 1.119.452 (49,92%). La differenza è stata di 3.422 schede soltanto.

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