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"La morte arrivava tutti i giorni"
(dice un carceriere)

Regia:  Rithy Panh
Sceneggiatura:  Rithy Panh
Fotografia:  Rithy Panh
Montaqgio:  Marie-Christine Rougerie, Isabelle Roudy
Suono:  Sear Vissal
Musica:  Marc Marder
produzione:  Cati Couteau per INA/ARTE France
Distribuzione:   Olivier-René Veillon per MK 2

NOSTOS NELLA VERTIGINE.
Potentissimo, perché si fonda sul confronto incredibilmente pacato tra vittime e carnefici a distanza di tempo. Pacato, eppure irriconciliato.
E trascina con sé un impatto centuplicato dalle asserzioni che richiamano quelle di Eichmann e le affermazioni di Arendt sulla banalità del male ("Li portavo a uccidere, così andvo a casa prima"; ma anche contemporaneamente la tranquillità d'animo con cui uno scampato può "confessare" - di fronte ai documenti da lui firmati venticinque anni fa - che aveva denunciato perfetti sconosciuti: 50 o 60 persone perlopiù morte in seguito a quella denuncia, per i motivi più futili.
E rimane lo sconcerto per l'irrazionalità in cui si finisce per essere calati, tanto che in uno degli sporadici interventi dell'autore (anche se a porre la domanda è lo scampato) ci si chiede come è possibile accettare quel delirio. Attenzione: non è una domanda peregrina isolata in quel periodo, perché il delirio è duplicato attualmente da Osama e dal suo contraltare, Bush. Quindi evidentemente quella degenerazione nasce dal potere.

Non è un lavoro retorico, non c'è nemmeno traccia dello sbandierato dolore in cui gli occidentali amano crogiolarsi dopo un bagno di sangue. e questo fin dall'inizio: per chi non sapesse le tappe storiche vengono proposti filmati nei primissimi minuti, gli unici d'archivio e in bianco e nero, poi non è più la Storia degli eventi di quei tardi anni settanta a interessare, ma le esistenze durante e dopo lo sterminio

"Hai ucciso e fai una cerimonia, così chiedi ai morti di cancellare il kharma negativo", può apparire cinico - e probabilmente lo è - ma dai volti impassibili dei cambogiani che torturarono e uccisero migliaia di altri cambogiani il problema è riuscire a quietare la coscienza (non il rimorso, che non è previsto: più volte si ribadisce che non hanno colpe e quindi nemmeno rimorsi): "Mi sento sempre male. Non riesco a mangiare".
Una sola volta interviene una madre, accampando una scusa: "Mio figlio l'hanno indottrinato trasformato in assassino"; anche plausibile, ma non in grado di legittimare l'orrore che poi verrà sciorinato dal film in 101 minuti di immersione in racconti che hanno il tono epico della verità non mai negata da nessuno dei due lati, fino ad arrivare all'allucinante sequenza, verso il termine, in cui si rappresenta verbalmente nel luogo degli eccidi e delle fosse comuni - quindi rievocando il rito una volta di più - come si procedesse alla eliminazione dei nemici del partito.

Si diceva della prassi consolidata di attribuire ai capi le colpe: "Noi obbedivamo", dei travet della tortura che si limitavano a esguire, ma qui si va oltre la confessione di Eichmann, non solo perché vige l'impunità, ma anche perché manca totalmente la comprensione di quello che si è fatto e sicuramente, se si ripetessero le condizioni, quegli uomin ripeterebbero ogni nefandezza, qualunque tortura, qualsiasi massacro: si vede come entrano nella parte e ripetono i gesti che compivano durante le guardie ai "nemici". Con quale convinzione e senza dubbio si trovano catapultati di nuovo in quel delirio di onnipotenza, che solo all'inizio tentano di occultare il gusto insensato del potere esercitato per conto del partito che non sbaglia se perseguita, quindi solo all'inizio accennano con poca convinzione alle minacce di venire incarcerati a loro volta, che dovrebbero giustificarli. Poi è una ridda di ricordi, che non scaricano le coscienze: sembra di assistere a una cronaca, solo che qualche volta il tono epico evoca le migliori sequenze stranianti di Straub, solo che la tragedia epica qui narrata ci viene sciorinata dal reprobo che ha compiuto i misfatti

Uno dei primi a parlare è un pittore torturato, che si è salvato perché i suoi quadri piacevano, mentre spiega con particolari e voci e dettagli la notte del suo arresto continua aspennellare la giubba di uno dei personaggi ritratti nel quadro che ha davanti a sé: un lungo corteo di incarcerati. Sta descrivendo la stessa scena che ci viene mostrata e ad ogni pennellata si evidenzia di più la luce su una giacca. Lui, che poi è anche tra i pochi sopravvissuti; gli altri rimangono nell'oscurità. Un pezzo in cui si confondon bene la ricostruzione attraverso l'immagine e quella fatta oralmente, lasciando briglie più scelto al ricordo
Si confronta con un collega di prigionia, l'unico a lasciarsi sopraffare dallo sconforto quando arrivano sul luogo del delitto per la serie di incontri con i carnefici: ha perso l'intera famiglia. Si chiedono cosa fare con i khmer ancora vivi, perché dapprima la scelta è quella di montare nel video separatamente i due gruppi di persone e lo stupore aumenta quando si registra una sostanziale identità di atteggiamento, di espressione, sembra quasi che loro, i protagonisti, in realtà siano stati comparse che potevano assumere qualunque ruolo in commedia e che il destino gliene abbia conferito uno a seguito di uno strano scherzo. Leggono alcune confessioni, fino ad arrivare a quella stilata da uno dei sopravvissuti presenti: "Il mio gruppo ha rotto troppi aghi", era falso, ma doveva trovare una colpa per legittimare il potere che lo stava torturando nel suo abuso di averlo internato e torturato come sabotatore, nemico del popolo... e come verrà più volte ribadito, il partito non sbaglia se incarcera qualcuno. Denunciò 64 persone.
In mezzo a questo delirio risulta ancora più stridente il calcolo che stimola questa valutazione: se tutti avessero denunciato altre 60 persone si sarebbe creato un processo esponenziale che avrebbe portato tutti in galera.
Ma è proprio quello che è successo: chi non era recluso, faceva la guardia con zelo e timore che la tenue distinzione si potesse spezzare, finendo definitvamente dall'altra parte, tra i dannati. Infatti:
"Vi sentite vittime, voi che lavoravate qui?", chiede l'intervistatore.
"Se non obbedivi eri morto", risponde una guardia.
"Se siete vittime com'è che venivano giustiziati?", incalza.
"Su 100 di noi, solo 30 si salvarono".

VESSAZIONI E INDOTTRINAMENTO.
Venivano picchiati sulle orecchie perché mangiavano grilli, per integrare i due cucchiai di zuppa al giorno. Torturati quotidianamente e rimessi in "forma" solo per poterli continuare a torturare
E le guardie nel montaggio di contro ripetono ancora adesso: "Non arrestavano mai per sbaglio. Erano nemici del popolo"; "se mi dicevano: 'Questo è un nemico', io lo ripetevo".
Si scoprirà alla fine che molti dei guardiani erano stati reclutati da ragazzini, trascinati via dai loro villaggi e cresciuti nelle caserme. ("20-30 bambini per ogni camion; ci lasciavano vivere fuori della caserma e poi, indottrinati al punto che si fidavano, ci arruolavano"). L'indottrinamento aveva fatto questi danni irreversibili, creando tantissimi mostri ciecamente obbedienti alle procedure che prevedevano come "complementare" la tortura e divideva in tre gruppi gli interrogati: "medi", "caldi e "violenti". Non erano aggettivi derivati dalle persone denotate attraverso di essi, ma definivano il tipo di tortura a cui dovevano essere sottoposti; e qui cominciano a spuntare fotografie non solo segnaletiche.
Sono i torturatori a descrivere: quelli caldi subivano il trattamento più blando: si scortcava la schiena e dalle botte pisciavano sangue, se non funzionava si lasciavano marcire. "Il mio cuore e la mia mano lavoravano insieme, la mia testa non interveniva mai a fermarli".
Ma ciò che è più allucinante non è il racconto esplicito, quanto la dimostrazione quasi teatrale di questa messinscena sempre più straubiana, dove la guardia ripete i gesti automaticamente: non smette mai, entra ed esce, chiude la porta e sottolinea ogni gesto descrivendolo a parole (duplicazione simmetrica a quella iniziale sul quadro delpittore che descriveva il proprio arresto), porta il bugliolo, minaccia da fuori, blandisce e fa rapporto... e ricomincia come una giostra impazzita.
Il torturatore più consapevole riesce a dare una motivazione alla sua adesione ai khmer: "Sianouk aveva fatto l'appello nazionalista e poi per rabbia verso i bombardamenti americani". Pare che questi ultimi non abbiano ancora capito i risultati del loro uso creativo dell'aviazione; certo che questi ex-ragazzini diventati torturatori sono convinti di quello che hanno fatto al punto che rievocando un episodio di suicidio, riportano i commenti di allora ("Questo popolo non è unito") e all'unisono ancora adesso ripetono lo slogan, urlato e cantato al contempo: "Decisi, decisi, decisi".

A questo punto il lavoro documentaristico evolve ulteriormente e i due gruppi si incontrano, si fondono, alternano i ricordi, arrivando a un certo momento a commentare documenti, fino all'accusa diretta: "Tu hai portato via i bambini... Tu e Duch avete mentito alle madri...". Scopriamo da una battuta finale riassuntiva che il montaggio è frutto di faticosi e numerosi incontri, intollerabili soprattutto per i torturati.
Un momento anticipato dalla domanda retorica: "Qualcuno ha mai chiesto perdono? Perché avrebbero dovuto se dalloro punto di vista non hano fatto niente?"

"NON ESSERE TROPPO LIBERO"
Quello avevano scritto sull'interno di una porta di cella, un bugigattolo invivibile simile a quello di Ocalan in Turchia, Guzman in Perù, Barghuti in Israele... E poi il registro delle malattie, uguale a quello di tutti i carceri del mondo di tutti i tempi (basti leggere una qualunque relazione sui disagi patiti nei GUlag o una pubblicazione sulle carceri speciali fasciste, o sulle villeggiature come ama chiamarle Berlusconi): segni di tortura, febbre, diarrea, deperimento... Eppure in queste baracche sembra aleggiare qualcosa di più perverso ancora: l'idea che si potrebbe ripetere allo stesso modo nello stesso luogo, perché qui si è verificato senza che poi ci sia stata una consapevolezza dell'orrore.
Ecco: non si è elaborato alcun lutto; continua a rimanere ingombrante non solo la documentazione non mai repertoriata seriamente (infatti è proposta con polvere e accumuli lasciati a caso sparpagliati in terra), ma anche il ricordo: "Ma tu sapevi che uno si ficcò in gola la penna con cui stava scrivendo la confessione...? E un altro si versò l'olio della lampada addosso per darsi fuoco...?".
Il racconto - piano, quasi sommesso, ma non contrito, semplice dato di fatto - è agghiacciante: spillavano ai detenuti il sangue letteralemente: 4 sacchetti di sangue a testa finché non avevano nemmeno la forza di aprire gli occhi... e poi li lasciavano morire. i rubapatate venivano giustiziati senza processo. Le confessioni estorte erano anche sottili: "si annientava la loro memoria in modo che la colpa venisse fuori dalle banalità più innocenti e a quel punto si estendeva ai parenti". Una colpa collettiva.
Anche i sentimenti erano negati: le donne venivano stuprate - "sapete, eravamo giovani... gli ormoni..." - ma uno degli aguzzini guardando le infinite fotografie che vengono mostrate riconosce una ragazza. Era davvero bellissima: lui ammette che gli piaceva enormemente ("lo dico con vergogna, come vedete non nascondo niente: era proibito amare il nemico". Ancora adesso si vergogna di aver provato un sentimento. È l'unico momento in cui ha un moto come di ribellione: "Stupravamo, ma non si poteva fare l'amore con i nemici". La picchiarono per 5 giorni fino a farle confessare che era andata a cagare nei pressi dell'ospedale per gettare discredito su una struttura modello istigata da una cellula che faceva parte di una rete legata alla Cia. Tutto falso, ovviamente: ma in quei frangenti la fantasia inventa gli intrecci più accattivanti per il cinema.

"PARLIAMO DI QUESTO PASSATO INTOLLERABILE A CUI NON POSSIAMO SFUGGIRE"
"Non li vidi mai come esseri viventi. Per me erano già morti".
"Meglio un arresto sbagliato che un nemico libero"
Dicono gli uni, che svolgono un ruolo nella recita collettiva, che sembra seguire un canovaccio su cui c'è l'accordo unanime di tutti.
Gli altri confermano: "Non mentivamo a te, ma a noi stessi: denunciavamo sconosciuti"

Ma c'è un soprassalto di ragione e finalmente si dice alla mdp: "Non voglio sentire 'Obbedivo a Angkar' esiste una distinzione tra uomin e bestie, sennò non esiste giustizia. 'Uccidere' è ancora umano, 'distruggere' non lo è più".
E di nuovo viene in mente il nazismo e la volontà di annientare.

Infatti, nonostante l'invito, il montaggio propone subito dopo una guardia che ripete: "Ero giovane, obbedivo. Oggi mi vergogno, ma non ci penso".
Il vero problema è il tono di totale normalità con cui racconta... e a noi sembra intollerabile persino immaginare quello che va tranquillamente narrando: "La terra spaccata puzzava di cadavere. Dopo mi diventò normale. Davamo una botta in testa e poi gli tagliavamo la gola. Se i vestiti erano puliti li tenevamo e poi li gettavamo nella fossa".

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adriano boano
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