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Ritorno alla questione del DOCUMENTARISMO
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"Efficacia di forme e stili diversi di documentario "
(a partire da Memoria del saqueo)

PASSIONI DIVERSE
Appare immediato cogliere le differenze tra il documentario di Ferdinando "Pino" Solanas e quello di Michael Moore: nel linguaggio, nel tono... soprattutto nella passione "partecipata", che è diversa dalla passione con cui Moore si indigna con Bush jr, si possono scoprire le sottili e immisurabili differenze tra le due culture, quella sudamericana insurgentes da sempre, che da quando non è più cortile di casa sta affrancandosi dalla repressione, a confronto con la punta avanzata degli iperintolleranti Usa.


Eppure lo scarto non è poi così evidente dal punto di vista formale: il ritmo è simile, cadenzato da molte informazioni scritte, cartelli, le notizie sciorinate sono zeppe di cifre in entrambi i casi, coinvolgenti entrambe, anche se dopo un po' Moore prende un'altra strada,

fatta di una sola donna, che è parte per il tutto di quel ventre molle patriottico e rimbecillito (quella stessa imbecillità che Solanas individua nella società mediatizzata, quando lo si ringrazia di aver fatto un ritratto in cui noi italiani possiamo specchiarci prima che la catastrofe avvenga, come invece è capitata con l'implosione argentina), arrivando a creare la situazione melodrammatica, a cercarla per confermare l'assunto, che un po' si perde - essere sensibili solo quando si è toccati da vicino. Moore mostra un'America perfettamente ricostruita attraverso i suoi sterotipi, addirittura tramite i suoi burattini-politici restituisce una scenetta, così demagogicamente divertente quanto inutile per una cittadinanza che in maggioranza riconosce valori imperscrutabili da menti razionalmente funzionanti. L'intento centrale è lo spettacolo, la farsa, con un evidente intento elettorale, destinato alla sconfitta, visto che si adatta alle armi del nemico e pur usandole bene, non può contrapporsi al potenziale mediatico delle lobbies che sostengono il capitalismo ultraliberista: sono cachinni in realtà (e vengono presi come tali da molti destinatari rintronati dal patriottismo e dalla litania sulla sicurezza); sebbene encomiabile, l'analisi è puntuale ma viziata dal bisogno di sostenere tesi per due ore di film senza supporti teorici se non proprio nelle battute finali, dove emerge l'internazionalismo delle guerre fatte dai potenti di tutte le nazioni contro tutte le genti (i proletari, avrebbe detto Solanas nel 1968) di tutte le nazioni, che però, evidentemente, non hanno i mezzi per riconosere la loro condizione di succubi.


Un afflato libertario che tra La Hora de los Hornos (guevarista del 1968) e Memoria del saqueo (rassegnato al male minore nel 2004), si stempera, mantiene la concentrazione e la profondità di visione, ma non le bandiere rosse - sostituite da quelle biancoazzurre dell'Argentina -,
disilluso il visionario Solanas abbandona le metafore ellittiche di Sur o di Las nubes e si lancia invece sulla realtà immergendosi in essa: ecco la differenza con Moore. Solanas non si limita all'analisi - che c'è ed è approfondita - e non si fa mancare nemmeno gli stessi burattini che Moore mette alla berlina e lui invece fa parlare, perché le loro stesse parole li ridicolizzino. Ma non è solo denuncia, come nella prima parte di Fahrenheit 9/11, Solanas cerca di capire i meccanismi, non solo di scoperchiare gli scandali o ricordare al di là dei tempi televisivi di indignazione ("Quello che era la memoria di un mese fa con la televisione diventa una memoria flebile paragonabile a quella di tre o quattro mesi prima, ciò che era ricordo di fatti avvenuti un anno prima diventa oblio"), Solanas tesse trame che mettono in relazione la politica neoliberista e la storia del saccheggio della nazione, le mafie che si sono spartite il patrimonio argentino e i legami con gli interessi statunitensi; in questo senso risponde all'arguta domanda di Massimo Arvat che coglie uno dei tratti essenziali del film nel parallelismo con la nostra situazione attuale e gli chiede: "Ma cosa era successo perché gli argentini erano come narcotizzati e hanno dovuto perdere tutto per arrivare a ribellarsi?", evidentemente pensando alla nostra situazione attuale.

Quello è proprio quanto scandaglierebbe volentieri "Pino", che in realtà sembra però animato inconsciamente da un'altra curiosità, tanto da annunciare un secondo lavoro sulla falsariga di questo e che approfondirà gli ultimi venti minuti: quelli che "documentano" la fuga in elicottero dei responsabili del saccheggio e quello che avviene dopo... confuso nei fatti, nelle menti degli spettatori e in quella del regista, perché ancora adesso in fieri. Si direbbe che l'ex deputato Solanas voglia mantenere aperta la linea di credito a Kirchner, eppure è consapevole che le concessioni operate, le prese di posizione sono maquillage socialdemocratico, eppure vuole difendere l'operato di Kirchner e lo paragona a Lula in Brasile, eleggendolo a campione di un radicalismo di sinistra maggiore del suo interlocutore carioca.
Forse la vera domanda da porre a Solanas durante l'incontro organizzato all'interno della splendida edizione di Cinemambiente sarebbe:
"Ma dove sono finiti tutti quegli argentini che avrebbero avuto la forza di inscenare un'altra Comune e adesso sono di nuovo sedati e silenziosi?"

Ovvero, c'è una palese contraddizione tra le parole del regista intervistato dal pubblico e quello che si palesa come essenziale: stride l'attenzione alla estrema miseria del film, il momento più commovente (bimbi morti di fame e moribondi di stenti), di contro il credito concesso all'operato del governo; due anime che si rincorrevano già nel film alternando politici e sindacalisti a testimonianze di persone comuni e gente di favelas.

 E poi soprattutto la enorme intuizione che fa la differenza tra Solanas e Moore: le immagini sono "autentiche", non che quelle di Moore non lo siano: ma lo statunitense fabbrica a posteriori situazioni autentiche che documentano fatti, o al massimo recupera immagini di archivio (repertori recenti, ma non di massa e originali); Solanas era lì, in mezzo al cacerolazo a riprendere esattamente quei volti e quelle rabbie, accompagnando nel presente dell'evento la Storia dell'Argentina che si stava dissolvendo.

Riuscendo dove molti cineasti nostrani fallirono a Genova, luglio 2001, quando non ce la fecero a ricavare se non abbozzi di film e non un'opera al contempo corale come questa che contemporaneamente monta uno studio analitico preciso e puntuale del robo y el saqueo che condussero a quella rivolta.

In entrambi i casi manca lo studio di dove siano finite quelle migliaia di manifestanti, adesso.

Forse la televisione li ha di nuovo ricondotti nelle loro case, la restaurazione soffice della socialdemocrazia arriva a completare il lavoro neoliberista delle mafie di destra. Pensare all'enorme potenzialità rivoluzionaria che traspare dal documentario di Solanas, immerso nella loro carica, priva della presenza di spirito capace di convogliare quella voglia di cambiamento radicale in una spinta dal basso a ribaltare il disegno conservatore. Ecco manca quel documentario, quello che narri un nuovo disegno contrapposto ai fascisti di ogni latitudine, ai fondamentalisti di ogni religione, che nomini l'orrore di un ministro ex Decima Mas che parla di culattoni in Europa, non mostrando la punta dell'iceberg rappresentato dalla sua figura di vecchio arnese fascista, ma il sostegno occulto che c'è alle sue spalle in una società sempre meno civile; ma anche che parli dell'orribile America mobilitata contro le unioni gay (bacino di voti per il sogno ultrareazionario dei neocons), non inseguendo mostri in divisa, che in quanto tali sono riconoscibili, bensì scovando quelli che mai più ti aspetteresti possano aderire all'orrore delle tesi più retrive; ovvero delle narcomafie che addormentano l'opinione pubblica esasperata del Sur.

PERCHÉ MANCA?

Manca perché anziché sviluppare una teoria progressiva, invece di individuare un possibile sviluppo culturale fuori dalle secche totalitaristiche di religione e petrolieri, di andare "fuori" a riprendere idee collettive, si assiste all'ossessione ombelicale: è quello che sottendeva anche gli episodi dell'11'09"1, un ripiegare su se stessi perché la tragedia personale è più forte di quella collettiva, tanto che quasi tutti gli episodi (tranne quelli che rischiavano di più la deriva retorica come quello di Ken Loach) seguivano questa china: dal generale al particolare, dal politico al personale, che si nega sia "politico", anzi l'operazione documentaristica sembra farsi un vanto di riuscire a ritagliare uno spazio svuotato dalla politica. Il massimo lo raggiungono alcuni episodi di 11'09''1, ma Lelouche in particolare è emblematico: l'inquadratura della tv che rimanda l'angoscia sovrumana e sullo sfondo permane ignara la ragazza con la sua angoscia umana. In effetti è quello che è realmente avvenuto: sono stati spazzati via gli interessi individuali per sostituirlli con la ragion di stato. Era l'effetto voluto e ci sono riusciti. Questo significa essere in guerra. Ma il filmato non ha soluzioni per la svolta; anzi l'epilogo rinuncia alla supremazia del malessere individuale sulla tragedia che si pretende collettiva e nelle mani del capo.


Ecco: manca la disamina del bisogno da parte di metà della popolazione mondiale di ricercare un capo, il più autoritario possibile (non autorevole, questo a causa dell'inesistenza di eticità) a cui delegare la gestione del malessere collettivizzato: infatti anche il film era collettivo. Si trattava di una fiction, che però raggiunge corde di documentarismo dell'animo inarrivabili anche nel cacerolazo (contemporaneo) di Solanas. Quel film a più mani non è rimasto nella storia del cinema, ma continua a essere utilissimo per rimeditare su come stanno cercando di variare la nostra percezione dell'immaginario e su come vengono spostati i modi di raccontare, evitando argomenti o affrontandoli in modo da edulcorarli; persino quelli ormai di maniera della famiglia Makhmalbaf, e Samira aveva cercato proprio lì di misurare la distanza dalle torri che hanno fatto la fortuna di Bush, spostando il dato dallo spazio al tempo: un minuto di silenzio eterno, come questa notte buia che nessun documentario mascherato da fiction o di cristallina ricerca rigorosamente basata sul reale, riescono ancora a restituirci. Basti pensare al cinema in mezzo al guado di Gitai, né l'uno né l'altro, preciso nell'analisi e nel cogliere tutte le sfaccettature, ma carente quando deve indicare dove si potrebbe andare a parare

Non è un caso che proprio in Palestina nell'anomalo Route 181, fatto a quattro mani (e da un palestinese con un israeliano) per evitare tentazioni personalistiche di questo tipo e per diventare automaticamente poli-tici si tenti di costruire un ordito filmico di persone, non personaggi o eventi da narrare con incedere didattico. Dalla catastrofe palestinese infatti sembra venire l'idea di rintracciare una comunità, per quanto composita, fatta di individui anonimi, difficilmente riconducibili a sterotipi o classi. Ma dal lavoro di Khleifi e Sivan le singole storie montate dal viaggio lungo la strada che attraversa la Palestina da sud a nord sembrano voler rispondere alle parole di Sandro Portelli già usate su queste pagine elettroniche a proposito de Lo Specialista: "per farci vedere la realtà, il documentario ha bisogno di metterla in scena; ma omettendo la messa in scena inficia il senso di ciò che mostra". Qui il centro è proprio la scena in cui si dibattono quelle figurine che si susseguono nel cammino e gettano una luce non tanto - o meglio, non immediatamente - sui massimi sistemi della società, quanto sulle minime certezze, le enormità miopi dei sionisti estremi alternate alle nostalgie di anziane depositarie di una memoria precedente la Nakba. Tutto casuale, come gli incontri di Solanas nelle strade porteñe, ma sorprendente perché quotidiano; eccezionale per la situazione locale, eppure quei checkpoint, quei militari così brutali e inaccettabili scolorano facilmente nella coppia sorta all'interno di Tzahal e nel soldato filosofo, inconsapevolemente confusi, almeno quanto sono lucidi i commercianti, di entrambe le etnie, capaci di ricordare un tempo in cui si facevano affari con tutti. La banalità del male si trasfigura su quella strada immaginaria fatta di una risoluzione e di apartheid diventando un concentrato di indifferenza nel presente verso l'Altro, costruita sulla lettura del passato contenuto in ognuna di quelle pietre contese da ciascun testimone.

Ben diverso è lo spessore linguistico del video realizzato dagli anarchici israeliani contro il muro (in effetti le due ore dal vivo con le quali Liad accompagna la visione del video sono più interessanti e composite), eppure sul fronte opposto rispetto a tutti i tipi di documentarismo finora presi in considerazione, quel video su un episodio minimo getta una luce ancora diversa: la telecamera si presentifica diventando personaggio che partecipa a una manifestazione e gli attanti estremizzano se stessi fino a "creare" l'evento, laddove in Route 181 invece non esisteva alcun "fatto" contingente, solo situazioni incancrenite e indistricabili, le stesse documentate nel lavoro a metà tra fiction e realtà di Intervento divino in Suleiman, dove proprio la quotidianità delle figure che potrebbero popolare un documentario creano la base per un approccio ironicamente critico alla condizione di palestinese intrappolato dai checkpoint... e quanto scavi nella realtà politica è dimostrato dalla sequenza del palloncino-Arafat che riesce ad arrivare ad al-Aqsa beffando gli ordini di Sharon, che non ce lo vuole nemmeno da quasi cadavere.
Invece nel video anarchico sul ferimento di un ebreo da parte di ebrei si presentifica quello che in Khleifi/Sivan è invece iscritto nel paesaggio ai lati della strada lungo la quale si materializzano fantasmi che non portano fatti, ma parzialissime "visioni" orali. Ebbene sembra incredibile, ma quest'ultime sono più evocative e incisive della banalità delle immagini di un ferimento; le ferite che emergono dall'acqua rubata o dalle foto di deserto sottratto sulla scorta di pretese bibliche, la brutalità dei checkpoint (spesso ripresi grazie alla presenza di un ebreo - o di immagini rubate) è più violenta del gesto e della concitazione presentificata. Le parole di Liad appunto sono più efficaci del montaggio del video: l'affabulazione arriva ad approfondire più dell'immagine che "documenta"; le rughe del volto di anziane palestinesi pervicacemente - per fortuna - legate alla loro terra raccontano più di un telegiornale.

Ritrarre dapprima i singoli, come si sono evoluti dopo l'11 settembre, solo dopo si potrà descrivere lo stato delle comunità o ricostruire l'evoluzione degli eventi o dei sistemi diventati coacervo di corporazioni; solo dopo si potranno individuare le nuove forme di aggregazione e i nuovi riferimenti ancora non emersi in contrapposizione a retrive forme di conservazione moralista. La differenza tra il cileno Patricio Guzman (Il caso Pinochet e Salvador Allende) e The Corporation è nel fatto che Guzman dice "Nei documentari non intervisto mai politici, personaggi o specialisti, perché tutti fanno discorsi standard, intervisto solo persone comuni. In questo caso, ciascuno di loro mi rimandava a un altro e così ho ricostruito la storia". Gli autori di The corporation invece inseriscono tra spezzoni d'archivio e serie di loghi o tabelle accattivanti i faccioni dei guru che pontificano; un caso anomalo e forse unico è quello di Ford Transit, un documentario che usa come set il furgone del titolo, sul quale sfilano sì i politici riconoscibili, per lo più palestinesi, ma solo perché la loro presenza isolata dal contesto sul veicolo fermo, che li riprende intenti a pontificare, è surreale rispetto alla presenza di persone che lo usano come bus collettivo, occasione per tastare il polso della popolazione di Palestina.

<<< precedente disamina del "documentarismo"
adriano boano
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