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Diario di un burattino



Dicono che ho dei modi di fare un po' bruschi, ma io non ci credo. Dicono anche che questi modi rigidi vogliono dire due cose: che sono testone - e fin qui, passi - e che sembro una marionetta. Ma io li lascio parlare. Che mi frega se mi danno addosso. Io devo solo stare attento a non bruciarmi i piedi un'altra volta, perché potrebbe essere pericoloso.
Poi devo stare attento ai ragazzi quando mi prendono in giro, perché nei gomiti sono un po' spigoloso e forse faccio ridere, ma riesco a difendermi bene; se non basta cerco qualche carro da rovesciare oppure un'asse per fare da bilanciere e scaravento frutta e ortaggi contro i carabinieri.
Poi non capisco perché da me tutti si aspettano qualcosa che non posso fare. Non posso andare a scuola come gli altri (e poi, lo vorrei?); non posso correre come loro, sarò sempre un po' irrigidito. Il fatto è che nei giochi, nelle corse, nelle recite al circo, gli altri sembra che si divertano; per me è una sofferenza, e così anche in mezzo a loro sono sempre come solo.
Nella mia - diciamo - carriera ho fatto diversi incontri, ma nessuno ci vuole credere. A quanto pare, se provo a raccontarli a qualcuno, mi dicono che sono inverosimili, e non per il motivo che potrebbe sembrare più logico. Quale? Beh, fate voi, se entrare nella bocca e nello stomaco di un mostro marino è verosimile... Se trovarsi con le orecchie e la coda di un ciuco vi sembra normale...
Ecco, se mi dicessero che le mie storie - "avventure", le chiamano - sono incredibili per questi motivi, in fondo non ci sarebbe molto di strano. Ma non dicono così. Dicono che l'incredibile è che non c'è logica, non c'è un filo rosso tra una storia e l'altra. Insomma, prima non vuoi andare a scuola, vendi l'abbecedario a dei personaggi assurdi, credi che a seminare gli zecchini nel campo verranno su e si moltiplicheranno; poi vai in un circo dove i burattini si mettono addirittura a parlare con te (e qui non ci capisco più niente: i bambini si stupiscono che le marionette parlavano con me, ma che c'è di strano, visto che io sono uno di loro?); poi non credono che sono finito in un paese che era come una pubblicità: ma non li vedete, quelli della televisione, che poi non sono solo in televisione ma sono ormai nelle nostre case? Quelle stanzette di colori pieni pieni e di bianchi bianchi; quei dolci che vengono da una valletta che la domenica si può anche visitare? È qualcosa di incredibile, cioè è incredibile che esista davvero: ma allora che cosa vogliono da me? È proprio bella: non mi credono se racconto che ci sono stato col mio amico Lucignolo... e poi loro ci sguazzano per tutto l'anno, con papà e mamme che, non contenti della visita guidata, poi comprano e comprano e comprano tutti quei dolci (che hanno nomi molto più strani di lecca-lecca).
Non c'è una logica tra una storia e l'altra. Perché prima questa e poi quella? Prima il gatto e la volpe e poi l'amico che diventa ciuco e poi il pescione e non il contrario? Non ci sono delle particolari motivazioni (so parlare anche difficile), o forse ce n'è una; ecco, quando passo da un'avventura all'altra, da un posto all'altro, da uno spavento a un altro spavento, se fate caso, passo da un colore all'altro: bianche bianche, con qualche macchiolina le stanzette dei bambini veri (!); tinte calde, calde calde in campagna, che poi è anche campagna verde; marrone e nero nella pancia del pescione. Un episodio un colore, pensate un po' che cosa mi ricorda... mi ricorda quei giochi, quelle strane macchine che c'erano una volta prima che inventassero il cinema; oppure quei colori che mettono oggi ai film vecchi dove non parlano ancora: un pezzo marroncino (pare che si dica "seppia") un altro azzurrino un altro rosato... E io ci passo da una all'altra, una va male una va bene, un po' me la godo un po' piglio botte.
Insomma, le mie avventure sono proprio avventure, o forse sventure, ma non sono certo una fiaba. Una fiaba ha un perché e un percome; intanto io, se dovessi essere il protagonista, in una fiaba sarei un bambino in carne e ossa; e casomai, se proprio deve esserci qualche personaggio strano, sarebbe, diciamo, il mio "aiutante", un aiutante magico (io tutt'al più ho avuto alle calcagna quel noioso grillo che aveva sempre una risposta per tutti i problemi); oppure in una fiaba vera - e nella campagna toscana ce ne sono delle vere antologie - sarei io l'aiutante. Altro che bambino (!) ribelle, sarei l'amico dell'eroe, sarei il pezzo di legno più ammodo di tutti e saprei dire a Lucignolo quel che non deve fare. Invece niente, non ho saputo aiutarlo e lui, l'unico amico, è morto sfruttato alla morte. È il destino degli asini, lo diceva uno che si chiamava Balthazar.
Il mio invece è di stare un po' solo, e sempre sul chi vive. Diffido dei bambini. Diffido anche dei grandi, i primi che ho visto erano in uniforme. Ma io, ora, niente. Se mi cercano sto fermo fermo; se le loro chiacchiere non mi piacciono, faccio finta di non sentire; se fossi un bambino sarebbe più difficile, si insospettirebbero e mi porterebbero a curarmi; o mi metterebbero alle costole un altro grillo, un esperto. Attento ai piedi, attento al fuoco. È meglio così, vivo più tranquillo.
Ah, dimenticavo che c'è anche uno strano ragazzino che gira per il mio paese e si camuffa come se fosse me. Non lo sopporto proprio. Però a qualcosa almeno serve: l'ho mandato a scuola al posto mio.

(Questo è il testo che ho raccolto nel quaderno di un povero ragazzo; sì un povero ragazzo, non un ragazzo povero. Un povero ragazzo sventurato, malato, melanconico e, come dire, "fissato". Pensate che era convinto di essere un burattino di legno. Firmato: dottor Itard) Alberto Corsani
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