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Une Liaison pornographique - La Fille sur le pont
Anno: 1999
Regista: Frederic Fonteyne; Patrice Leconte;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 19-12-1999


Cinema francese

UNE LIAISON PORNOGRAFIQUE



Regia: Frédéric Fonteyne
Sceneggiatura: Philippe Blaband
Fotografia: Virginei Saint-Martin
Montaggio: Chantal Hymans
Interpreti: Nathalie Baye, Sergi Lopez
Provenienza: Francia
Anno: 1999
Durata: 80'
Distribuzione: Lucky Red

LA FILLE SUR LE PONT



Regia: Patrice Leconte
Interpreti: Vanessa Paradis, Daniel Auteil
Provenienza: Francia
Anno: 1999
Durata: 80'
Distribuzione: KeyFilms




Modi diversi di cinematografare discorsi amorosi, mantenendosi nella tradizione francese. Une Liaison pornographique si differenzia dal patinato La ragazza sul ponte – interessante ricostruzione di personaggi godardiani spostati in un mondo da fotoromanzo –, perché mette in scena un reportage, dichiarando fin dall’inizio la pretestuosità di questo approccio: ciò che interessa è l’idea di fondo. Rappresentare la relazione di due persone come atto d'amore, incentrato esclusivamente su una fantasia sessuale comune da perseguire per il solo gusto di farlo, e proporla al pubblico a posteriori, con le contraddizioni della memoria, le piccole bugie che arricchiscono il personaggio – disposto a divulgare la sua esperienza, ma riservato su alcuni sciocchi dettagli, che però sono la spia che il piacere rimane custodito in quella sezione che non si è disponibili a rendere di dominio pubblico. Noi ce ne accorgiamo da minute discrepanze tra i due racconti, che segnalano due organizzazioni mnemoniche e due sensibilità diverse, mentre le ricezioni del mondo in La Fille sur le pont collimano perfettamente e questo sembra essere l'assunto del film

Lo spettatore è posto nella condizione di poter sbirciare nei segreti più reconditi di ciascuno dei due, eppure non è in grado di valutare dell’opportunità delle loro decisioni, perché razionalmente si direbbe che i due amanti non abbiano sviluppato una capacità reale di comprendersi, nonostante l’incommensurabile apertura data dalla mancanza di secondi fini, prodigata dal fatto che il traguardo non è portare a letto o sedurre l’altro (quello è il presupposto già avvenuto), ma diventa trarre il massimo piacere dalla compagnia dell’altro. Eppure, nonostante le confessioni raccolte da un intervistatore, che non mette mai in gioco se stesso, sminuendo il nostro coinvolgimento – che invece rimane forte quando non ci accorgiamo della sua mediazione, rimane il dubbio che avessero ragione loro, non ingannandosi l’un l’altro con le espressioni e piuttosto cercassero di raggirare se stessi a livello razionale per perpetuare un rapporto piacevole e diventato necessario. Forse era l’abitudine che li accecava, o forse era l’adeguamento al tran-tran che imponeva il passaggio ad un altro modo di rapportarsi, a cui non volevano piegarsi. Quello che interessava "lei": "Volevo che fosse una fantasia che desideravo realizzare" non prevedeva l’evoluzione dell’incontro in termini che potevano divenire istituzione, comunque l’esperienza è positiva: "Ora è un bisogno meno insistente". Ma non esclude di poter ripetere la complicità con altri.

Interessante che i due film s’inizino con un’intervista, che ci prospetta la conoscenza dei personaggi direttamente attraverso le loro parole volte a produrre una biografia (Vanessa Paradis) o sviscerare un momento fondamentale della crescita sessuale di una donna (Baye). Le due donne sono il fulcro del racconto, benché gli uomini nel rapporto con la macchina da presa (oggetto delle confidenze in un caso e testimone nell’altro) abbiano un privilegiato accordo, che li porta a sostituirsi alla cinepresa, quando la sua presenza si fa più discreta e assumono sul loro personaggio l'onere di filtrare i ricordi per lo spettatore: attraverso di loro si ottengono più informazioni. Le stesse che il fascino delle donne fa passare attraverso il corpo; mediandole soprattutto con l’immagine affezione del volto, particolarmente espressivo per Nathalie Baye, ancora piacente, luminoso nel caso della giovane Vanessa Paradis, intenta a riesumare i fasti irraggiungibili di Jean Seberg e Anna Karina, mentre il lanciatore di coltelli potrebbe essere un attempato Pierrot le fou, meno scanzonato e nichilista. A lungo ci viene ammannita solo una lunga serie di primi piani, che classicamente proprio nel momento in cui lasciano spazio alla ricostruzione della vicenda si stringono sempre di più. L’espediente che alterna i due volti è assimilabile al profilo della giovane che elenca i suoi incontri sessuali con molti sconosciuti alla ripresa di fronte da intervista televisiva nel film di Leconte: estenuante per ripetitività, volutamente perché attraverso questo ricorrente scambio tra le due riprese si aggiunge reiterazione a iterazione, che trova sbocco nella sequenza sul ponte, come nel rapporto privato l’alternanza trova un’uscita nel primo incontro, per concludersi con la sospensione, fatta di tempi cinematografici precisi, davanti alla porta rossa, irrevocabilmente chiusa sulla fantasia oggetto d'amore e spalancata a mostrare - con garbati accenni autoreferenziali - un rapporto sessuale 'normale' realmente tale e non ("come capita sempre al cinema") o una sveltina, oppure il nirvana; qui invece scappa il termine osmosi, perché la sequenza era meditata per mettere in scena finalmente la scopata con i patemi e i piccoli piaceri che conosciamo tutti.

Un oggetto delle Liaison è particolarmente significativo: il bicchiere di vino rosso appoggiato distrattamente all’inizio alle spalle della donna che narra se stessa introduce ad una dimensione familiare, intima, che poi si mantiene lungo tutto lo scavo nei sentimenti del personaggio; la predisposizione ad aprirsi. Un piacere dionisiaco, ma non da baccanale: sobrio, posato, personale. Nella tradizione francese infatti non mancano gli appuntamenti nei bar parigini e anche lì ritornano i bicchieri di vino o cognac. Da ultimo "lei" porta alle labbra quel bicchiere e degustandolo rifiuta di svelare quale era la pratica sessuale, la fantasia per la quale si erano incontrati. É tutto contenuto nel nettare che sugge; d'altronde "lui" aveva detto che gli aveva dato tutto in un secondo, attraverso la smorfia di piacere durante l'orgasmo: se l'era lasciata sfuggire. In ciò che fanno si nota l'attenzione a conservare, preservare, suggellare in sé gli aspetti intimi, non per vergogna o pudore, ma per ritrovarli alla fine, probabilmente perché il legame voluto, ricercato, goduto non è destinale, come nel caso dell'altro film, dove il lanciatore di coltelli e Adèle possono permettersi di dilapidare ogni legame tra loro, qualsiasi affettuosità, perché sono destinati l'uno all'altra e quindi si assiste al movimento opposto, centrifugo, per ritrovarsi su un altro ponte o a comunicare a distanza: tanto sono riservati gli uni, che non conoscono nemmeno i rispettivi nomi e professioni, quanto invece si conoscono profondamente gli altri a causa di un'unione esclusiva che li porta a dialoghi estremi, quasi incoerenti, intrecciati telepaticamente (unica spiegazione per la piena aderenza del loro sodalizio è che siano in costante sintonia); il percorso parigino invece è centripeto con l'inevitabile implosione finale, tuttavia la distanza è minima, poiché sono le due facce della stessa pulsione a scandagliare l'emozione legata a condividere uno stesso oggetto d'amore (uno scrittore americano di cultura francofila ha realizzato il film Lulù on the Bridge sugli stessi fondamenti, addirittura dandogli forma nella pietra blu e facendo sparire la ragazza tra i flutti di un fiume): i coltelli o i ponti a parti invertite, la stanza al di là della porta rossa o il bar degli incontri, ma anche il feticismo di Romance, o l'ossessione rappresentata dall'attrazione per la cocciuta ragazza di A Vendre per Castellitto; in quest'ultimo caso la seduzione si gonfia a distanza, eppure si mantiene la caratteristica della destinalità tra due perdenti fino al momento di incontrarsi. Una caratteristica ricorrente da Les Amants du Pont Neuf (tra i primi tentativi di citazione di L'Atalante) in avanti è proprio quella sensazione di essere incompleti fino all'incontro fatale, che scatena un interesse esclusivo, vibrante nella singola inquadratura e soprattutto nel gioco di sguardi tra i protagonisti, volti a creare un universo da cui il mondo è estromesso.

Ligi ai canoni baudrillardiani di seduzione, gli sceneggiatori affidano alle donne il compito di rappresentare il ruolo delle 'diverse': in Romance le scelte della ragazza sono dettate da un'insoddisfazione che la porta a ricerche estreme, sempre frustranti, come quelle della protagonista del film di Masson: in entrambi i casi il finale apre un nuovo orizzonte senza attribuirvi alcuna maggiore o minore positività rispetto al resto della narrazione. In tutti i casi di questi che si potrebbero definire nipotini di Rohmer (In Comte d'autumne gli eventi si fondano su un annuncio per incontri amorosi, come quello a monte della storia di Le Liason pornografique) si assiste ad un prologo che mette in scena godardianamente il personaggio che si presenta come la protagonista di Deux ou troi choses qeu je sais d'elle, per poi abbandonare la banda metalinguistica; come se buona parte della produzione cinematografica francese non sapesse quale delle due anime scegliere e si affidasse a figure godardiane immerse in situazioni rohmeriane.

In entrambi i film emerge la volontà di avvicinare una materia, sfuggente agli sceneggiatori ancor prima che ai personaggi, e forse questo può spiegare il bisogno di esordire con interviste, che più coerentemente in un caso si protraggono per tutto il film, costellando, introducendo e commentando lo sviluppo della storia intera, mentre nel film più fantasioso si preferisce racchiudere la storia tra un movimento in caduta dal ponte che prosegue lo sguardo attratto dai flutti con un allontanamento visto dalla chiatta di passaggio intravista sulla Senna (risaputa e nemmeno lontanamente paragonabile la sequenza che cerca di evocare il ricordo di Vigo, persino più imbarazzante del film estivo sul grande regista anarchico) e lo stesso richiamo sintattico riproposto identico sul Bosforo, relegando a semplice prologo l'esordio da cinéma-veritè.

Ma cos'è che sfugge alla cultura francese quando deve avvicinarsi all'esperienza passionale? Forse il desiderio per una persona provato nello stesso momento in cui quella medesima persona ti guarda e ti desidera, riuscire a provare quel piacere così forte da essere "esattamente al limite dell'insopportabile": "Mi dispiace, è stato troppo piacevole" è la versione di "lui" per esprimere il pianto liberatorio di "lei", smarrita "perché non sapeva più cosa provare"; ma anche per Sergi Lopez sono in agguato le lacrime di fronte alla disarmante dichiarazione d'amore mirata a completare il meccanismo che avvicina sempre di più i personaggi maschili e femminili del cinema francese, che li rende sovrapponibili al termine di percorsi rigorosamente ad anello che riportano all'inizio con piccoli arricchimenti sentimentali per i personaggi.

Nella trattazione dei luoghi si possono individuare delle analogie: si assiste ad una cortocircuitazione attorno agli stessi posti. In un caso i ponti, i circhi, i casinò sono medesimi stereotipi comunque ricostruiti in modo uguale, che riconducono tutti al tema principale del mettersi in gioco sfidando il destino; l’unica vera scelta è gettarsi o meno dal ponte, o meglio: rappresentare il dubbio se apparirà il partner al momento giusto anche in un momento e luogo improbabile, a confermare la totale adesione di due anime. Nell’altro caso gli ambienti sono davvero sempre gli stessi, mantenendo se possibile la loro aura di stereotipi – il consueto bar parigino, la solita stanza dell’alberghetto nemmeno troppo sordido (come solo a Parigi è possibile), per confermare una routine comprovata che gravita attorno all’esigenza opposta: non mettere mai in gioco l’effimero sodalizio, che ha ritagliato una complicità periodica, la quale se venisse anche lievemente modificata andrebbe in crisi. Dunque anche dal punto di vista delle locations si avverte un’identità di utilizzi del prossemico con la funzioni di racchiudere la storia, ritagliare attorno ai protagonisti l’ambiente, contornandoli in modo da isolarli più facilmente in luoghi simbolici che escludono gli altri (addirittura dalla stanza d’albergo siamo tenuti fuori), perché è esclusivo il loro legame ed è proprio quell’esclusività che muove questa tipologia di film a scavare nelle loro storie per indovinare il segreto della loro intesa solo per un attimo. Tant’è vero che quando incomincia ad incrinarsi l’incanto, che i film hanno cercato di indagare, durante i momenti della loro divisione, descritto da entrambi i registi con tatto e sensibilità estreme (l’angosciosa sospensione dell’attesa al bar dopo la bella ripresa nei sotterranei della metropolitana, affannosa), si usa di nuovo sottilmente la prossemica e sia tra i due protagonisti, ma soprattutto e molto di più tra la macchina da presa e i due soggetti, fino a quel momento evidenti in enormi primi piani, si frappone un mondo di intrusi, traffico, divisioni che impediscono di vedere (la rincorsa nel suq turco, come la pellicola trasparente, ma invalicabile dell’acqua che scroscia dalla fontana, dividendo irrevocabilmente i mondi dei due amanti). In un caso la struttura di sogno quasi surreale impone di ricominciare magicamente su un nuovo ponte, nella scelta di registro realistico invece l’incanto si spezza definitivamente, ma rimane la sensazione di aver compreso almeno per un attimo la sua entità.