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Psyco - Psycho
Anno: 1960
Regista: Alfred Hitchcock;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Stati Uniti;
Data inserimento nel database: 22-06-2006


La grande guerra

Psyco.  Alfred Hitchcock. 1960. U.S.A.

Attori: Anthony Perkins, Vera Miles, Janet Leigh, John Gavin, Martin Balsam, John McIntire, Simon Oakland

Durata: 109’

Titolo originale: Psycho

 

 

Phoenix. Arizona. Venerdì 11 dicembre, ore 2:43 del pomeriggio. In una stanza d’albergo Marion Crane e Sam si amano, ma la loro è una relazione clandestina. Tornata a lavoro, Marion viene incaricata di depositare in banca la somma di 40.000$ lasciata da un ricco cliente per acquistare una casa.  Marion, infelice per la sua condizione, decide allora di impossessarsi del denaro e fuggire. Dopo aver guidato per tutta la notte, è svegliata di mattino da un poliziotto che la scopre a dormire in macchina sul ciglio della strada. Giunta presso una stazione di rivendita d’auto usate, la donna cambia la sua con una con targa della California, dove è arrivata a seguito del lungo viaggio. Si allontana sotto lo sguardo sospettoso del poliziotto che per tutto il tempo l’ha seguita a distanza. A notte però la coglie un diluvio e decide di fermarsi al motel Bates. Ad accoglierla c’è il giovane Norman, unico uomo nei paraggi visto che non vi sono clienti. Norman si mostra da subito educato e gentile e dopo averle dato la stanza la invita a cenare assieme. Mentre Marion ne approfitta per nascondere i soldi in un giornale, ascolta alla finestra la lite di Norman con la madre, che vive nella vicina e tetra casa, e che urla perchè non la vuole nel suo appartamento. Norman invita allora Marion a cenare nel salotto del motel. I due chiacchierano tranquillamente e Marion apprende della malattia di nervi che affligge la madre di Norman. Quando gli consiglia di portarla in un manicomio il ragazzo s’innervosisce. Marion torna nella sua stanza e Norman la spia da un buco nella parete del salotto. La vede entrare nel bagno e torna verso casa sua. Mentre Marion sta facendo la doccia, la sagoma di una donna entra in bagno e la pugnala ripetutamente, uccidendola. Nella casa sulla collinetta si odono le grida di Norman che accusa la madre d’omicidio. Accorso in bagno scopre il cadavere di Marion. Dopo aver ripulito ogni traccia, ed aver raccolto tutto nell’auto della donna, la fa sparire in un lago paludoso. A Phoenix intanto, Lila, la sorella di Marion, si rivolge a Sam per avere sue notizie, ma l’uomo non sa risponderle, tanto meno quando s’intromette il signor Milton Arbogast, un detective privato incaricato di recuperare i 40.000$. Quest’ultimo si mette sulle tracce della scomparsa e dopo aver passato in rassegna diversi motel giunge in quello di Norman Bates. Qui, mettendo sotto torchio l’uomo, scopre che la sorella di Lila è passata da lì, ma quando prova a chiedere di poter interrogare sua madre, Norman gli rifiuta ogni ulteriore informazione. Avvertiti sia Sam che Lila delle ultime scoperte, Arbogast torna verso il motel, entrando in casa. Salite le scale viene pugnalato dalla sagoma di un’anziana donna. Sam e Lila attendono invano altre notizie dal detective dopodichè, senza averne ricevute, Sam decide di andarci personalmente. Quando fa ritorno, è insospettito dal fatto di non essere riuscito a vedere la madre di Norman, ma di avervi solo parlato attraverso una porta chiusa. Decidono di rivolgersi allo sceriffo Chambers il quale, insospettito, chiama Norman senza ottenere nulla, ma soprattutto informa i due che la madre è morta suicida dieci anni prima, dopo aver avvelenato a sua volta il compagno, per gelosia. In casa Bates intanto, Norman si prodiga per nascondere la madre in cantina, spaventato da un eventuale arrivo della polizia. Il giorno dopo lo sceriffo, di ritorno dal motel, dice che la madre che Sam ha sentito attraverso la porta è frutto di un’allucinazione. I due non sono convinti e decidono di tornare al motel. Qui, dopo aver trovato alcuni elementi sospetti proprio nella stanza che Marion aveva preso in affitto, si dividono, e mentre Sam tiene occupato Norman nella hall, Lila s’intrufola nella casa. Girando per le stanze, Lila non trova nulla se non solo la tangibile presenza di una donna anziana. Nel motel intanto, messo sotto torchio dalle domande di Sam, Norman si accorge dell’assenza di Lila e corre verso la casa. Lila per nascondersi si rifugia in cantina dove, credendo di aver trovato la madre di Norman, ne scopre il cadavere mummificato. Una sagoma di donna anziana prova ad aggredirla alle spalle armata di coltellaccio, ma l’arrivo di Sam la blocca: si tratta di Norman travestito. Al commissariato tocca allo psichiatra spiegare quanto accaduto, dopo aver ascoltato la confessione della madre di Norman, la doppia personalità che ha vinto sul ragazzo. Dopo aver ucciso la madre ed il suo compagno avvelenandoli, Norman aveva vissuto nel senso di colpa, ricostruendo sua madre nella sua stessa personalità, e riportando in vita anche gli aspetti più esasperati della gelosia materna. In custodia, la madre nel corpo di Norman riflette sull’accaduto promettendo a se stessa che non farà più male nemmeno ad una mosca pur di dimostrare che non è lei l’assassina, ma suo figlio.  

Sebbene nei titoli di testa si preannunci una linearità narrativa tipica del regista, così com’era accaduto per le linee che s’intersecavano nei titoli di Intrigo internazionale (1959) a meglio porre l’attenzione si comprende che si tratta invece di linee spezzate, di linee che non s’intersecano ma che si distanziano tra loro, come la personalità psicotica del protagonista. Sempre tenendo conto l’inizio di Intrigo internazionale, dove l’autore passava dalla folla al protagonista (tra essa selezionato) in questa pellicola invece la macchina da presa parte dal totale della città per entrare in uno spiraglio di finestra lasciato aperto, e non per scegliere il protagonista, ma per introdurre la prima vittima. È questo infatti uno degli aspetti più interessanti del film, che fa entrare in scena lo psicotico Norman Bates dopo che sono trascorsi oltre trenta minuti dall’inizio della pellicola. Passando dal thriller all’orrore puro (poi teorizzato meglio ne Gli uccelli (1963)), Hitchcock però non abbandona i temi a lui più cari: sono molto forti le componenti sessuali (si tratta sempre del difficile problema dell’emancipazione sessuale del protagonista), il tema della colpa e della punizione (sia di Marion che ruba i soldi che di Norman dopo che ha ucciso sua madre ed il compagno), il senso della vertigine (il sangue che cola è anche una citazione de La donna che visse due volte (1958) e che aveva nel titolo originale, Vertigo, l’ossessione esplicita del regista) e viene esasperato ulteriormente il tema del voyeurismo, in questa pellicola sempre più malattia (mentre in La finestra sul cortile (1954) la malattia era solo accennata nella gamba rotta di James Stewart). Ancora una volta ad essere messo sotto accusa è il matrimonio (se ne parla costantemente per tutta la prima parte del film) che sembra l’oggetto attorno al quale si complicano le esistenze dei personaggi (drammatico e folle quello che colpisce l’instabilità di Norman, ma altrettanto triste è quello che costringe Sam e Marion a non avere una relazione normale). Ispirato al romanzo omonimo di Robert Bloch (e adattato per il grande schermo da Joseph Stefano) il film è costruito in maniera davvero intelligente, soprattutto se si ascoltano attentamente i dialoghi tra Norman e Marion, dove viene tutto anticipato, sottilmente, sia l’omicidio della donna (paragonata agli uccelli impagliati) che la follia del ragazzo (che conosce bene i sorrisi e le lacrime del manicomio). Molto interessante è anche l’uso della voce fuori campo (nei primi piani di Marion quando si allontana con la sua macchina) capaci non solo di accrescere il senso di colpa (e paranoia) della protagonista, ma soprattutto di far evolvere la storia a Phoenix, senza nemmeno un’inquadratura girata. Il tema del denaro, all’apparenza centrale, è messo da parte a metà del film (Norman non se ne accorge e butta nella palude anche i 40.000$) dopo che gli viene consegnato un valore altamente negativo (è sia oggetto di tentazione, che di morte). La scena dell’omicidio di Marion Crane sotto la doccia (la shower sequence) è uno dei capisaldi del cinema, costruita con un montaggio serratissimo (sette giorni di riprese, 72 posizioni della macchina presa e soprattutto lo storyboard di Saul Bass) che non mostra mai il colpo che affonda, ma ottiene lo stesso violento effetto nella ferocia del montaggio (con quaranta inquadrature) e soprattutto nell’apparente quiete che cala dopo l’omicidio, con la macchina da presa che passa dall’occhio della morta (è lei l’unica che fino a quel momento ha visto l’assassino in viso) al tavolino dove sono i soldi, per finire sulla finestra che si affaccia verso la casa dove il figlio scopre la madre sporca di sangue. Il critico Enrico Ghezzi ha paragonato l’urlo di Janet Leigh al più famoso quadro di Munch, definendo quello della donna come il più terrificante della storia del cinema [i]. Davvero inquietante è però il monologo interiore finale, con la macchina da presa che passa dalla figura totale del molto bravo Anthony Perkins, al suo primo piano, folle allucinato (effetto ottenuto soprattutto con la spoglia parete sulla quale si stacca il corpo di Norman), e che nel passaggio all’auto che viene estratta dalla palude, lascia intravedere (ma è davvero sottile) lo scheletro della madre sul volto del figlio. Terrificante è anche l’omicidio del detective, consumato in un’unica immagine dall’altro (velocissima). Per ottenere l’effetto della caduta dalle scale di Martin Balsam, il regista mise l’attore su una sedia e lo fece agitare come se stesse cadendo, mentre alle sue spalle era proiettata l’immagine delle scale. D’effetto, ovviamente, la sorpresa finale, l’avvicinamento di Lila al corpo immobile della madre, ed il lento voltarsi della sua sagoma che mostra (in primo piano) una memoria imbalsamata. Davvero efficaci le musiche di Bernard Hermann, compositore fedele al regista d’origini britanniche, ma anche le scenografie gotiche realizzate da Joseph Hurley, Robert Clatworthy e George Milo, che convinsero il regista ad utilizzare il bianco e nero, scelta imposta anche alla Paramount, la casa che produsse il film. A tal proposito è sicuramente apprezzabile la volontà del regista di non utilizzare il colore per non fare in modo che l’effetto rosso del sangue esaltasse l’efferatezza materiale degli omicidi, e che con la scelta del bianco e nero ottenne invece un’esaltazione psicologica di questi. E non fu solo questa la regola infranta dal regista, perché mettendo in scena il delitto dopo quasi quaranta minuti di storia, egli non fece altro che rompere anche le regole della narrazione del genere, ottenendo un prolungato effetto d’aspettativa che soddisfò appieno tutti gli spettatori. Per abbreviare i tempi di realizzazione, il regista si affidò ad una troupe televisiva, e da ciò deriva il taglio del film, anticipatore in un certo senso di una larga tendenza consolidatasi con il tempo (John L. Russell era un operatore navigato della Universal, e a questo si deve anche la scelta cromatica del film, che scava fra i neri e fa emergere pochi bianchi, anche se davvero luminosi). È considerato, proprio per tutti questi motivi, il film più riuscito, da un punto di vista stilistico, del regista, una sorta di cinema puro, privo di veri significati e messaggi (anche se come si è detto egli non rinuncia ai suoi temi preferiti) ma carico di suspence e pathos cinematografico. Ha rivitalizzato il genere, lo ha trasformato, lo ha reso moderno, e ne è diventato il capostipite. Anche se apparentemente di poco conto, l’uso degli animali impagliati contribuisce ad aumentare il senso d’inquietudine del luogo chiuso nel quale capita Marion, trucco che spesso verrà utilizzato nel cinema di genere, e che è ben evidente ad esempio ne L’alba dei moti viventi (1968) di Gorge A. Romero. Il regista come al solito compare per pochi secondi in questo lavoro all’esterno dell’ufficio dove lavora Marion. Psyco, che fu anche il più gran successo commerciale del regista (costato 800.000 dollari ne incassò 13 milioni), ottenne anche quattro nominations agli Oscar: miglior regia, migliore fotografia (di John L. Russell), miglior attrice a Janet Leigh e migliore scenografia. Tale fu il successo di questa pellicola che ottenne diversi seguiti: Psycho 2 (1983) di Richard Franklin, Psycho 3 (1986) di Anthony Perkins, Psycho 4 (1990) di Mick Garris (tutti interpretati da Anthony Perkins) ed infine un remake più recente, Psycho (1998) di Gus Van Sant.

  

 

Bucci Mario

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[i] Enrico Ghezzi. Paura e desiderio. Bompiani. pg. 558