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L’orribile segreto del dr. Hichcock.
Anno: 1962
Regista: Riccardo Freda;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 24-11-2004


La grande guerra

L’orribile segreto del dr. Hichcock. Robert Hampton (Riccardo Freda). 1962. ITALIA.

Attori: Barbara Steele, Robert Flemyng, Montgomery Glenn, Theresa Fitzgerald.

Durata: 88’

 

 

Londra. 1885. L’eminente dottor Hichcock, medico prestigioso, ha scoperto un prodotto in grado di salvare alcune vittime grazie al fatto che questo rallenta il battito cardiaco portando i pazienti in stato di quasi morte. Purtroppo il medico lo usa sulla moglie la quale invece muore. L’anno dopo il medico fa ritorno nella sua vecchia dimora, con una nuova moglie, Cynthya, la quale però non riesce a adattarsi alla nuova casa perché seminata di quadri che ritraggono l’ex moglie e perché viva di oscuri rumori e presenze. Alla giovane moglie, infatti, aumenta l’angoscia man mano che trascorrono i giorni e la presenza di un fantasma in casa sembra condurla sull’orlo della pazzia. In realtà la donna, con l’aiuto di un giovane collega del marito, scopre che ad essere pazzo è proprio lui, il dottor Hichcock, suo marito, affascinato dalla morte, necrofilo, e che dopo aver sepolta viva la sua ex moglie (segregata nei meandri del palazzo) stava cercando di fare la stessa cosa con lei.

Uno dei primissimi horror made in Italy, contraddistinto da un insano e morboso fascino per la morte. Riccardo Freda (che per questa pellicola utilizzò lo pseudonimo di Robert Hampton) mette in scena un omaggio morboso e ambiguo ad uno dei maestri del genere, il regista inglese Alfred Hitchcock, a partire proprio dal titolo, e seguendo quasi passo per passo le fila tirate dal regista in Rebecca – La prima moglie (1940) che era stato il primo film (e primo grande successo) del regista a Hollywood. Sebbene le tracce dunque parlino chiaramente di Alfred Hitchcock come origine ispirativa, non può essere escluso però anche un altro grande maestro del genere, Roger Corman, che spesso, come accade per il film di Freda, si ispirò ai racconti macabri del tardo ottocento e che avevano caratterizzato gran parte delle sue prime produzioni. Tema del doppio (vita e morte) terrore del quotidiano e famigliare (rapporto tra moglie e marito) e fuoco purificatore (il finale con la casa in fiamme) non sono che solo alcuni dei punti che tutte queste pellicole hanno in comune. L’aspetto necrofilo invece è l’elemento originale che contraddistingue questa pellicola dalle altre: coraggioso e di rottura, il tentativo del dottore di possedere il cadavere di una donna appena deceduta ha l’effetto di disturbare, pur mantenendo alta la tensione del film. A questo proposito il regista ha commentato: la teoria del film è semplice, chiunque può sposare un uomo che in realtà è un pazzo, un esaltato, no? [i]. In più, il personaggio del dottore è disturbante non solo perché marito, ma soprattutto perché medico e perché rappresenta non più solo colui che salva la vita, ma soprattutto colui che dalla morte è affascinato in maniera davvero morbosa. Ineccepibile nello stile utilizzato, ampio, scorrevole e qualificato (da notare, infatti, l’uso di carrelli e dolly, nonché la citazione dreyeriana della donna nella bara, presa da Il vampiro del 1931), il film ha l’ulteriore merito di essere stato scritto in una settima e realizzato in dodici giorni in una villa pariolina a Roma. Peccato per la figura della governante che viene aspirata e fatta sparire in un buco della sceneggiatura. Singolare è invece il fatto che la pellicola fu parecchio bistrattata dalla critica italiana ed invece elogiata come il più importante film fantastico del dopoguerra da quella francese [ii]. Sullo stesso tema, la necrofilia, si seppe ripetere molti anni più in là, e con impulsi ed effetti più raccapriccianti, il regista Aristide Massaccesi, in arte Joe D’Amato, che realizzò il suo capolavoro personale con il truculento Buio omega (1979). La figura della moglie invecchiata e reclusa nei meandri della casa, che si aggira per i corridoi con un abito bianco (a volte colore della morte) ricorda invece forse troppo la vecchia che appare in The others (2001) di Alejandro Amenabar. Citazione del regista spagnolo o involontaria coincidenza?

           

 

 

Bucci Mario

        [email protected]



[i] Rivista del cinema di genere Amarcord. n° 8-9. Igor Molino Editore.

[ii] Sonia Bianchini su Alfonso Canziani. Cinema di tutto il mondo. Mondadori