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So be it – A Wang
Anno: 2014
Regista: Kongdej Jaturanrasamee;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Thailandia;
Data inserimento nel database: 08-01-2015


“Don’t forget to come back to me.” La Thailandia è un paese molto spirituale, la ricerca della religiosità inizia fin dall’infanzia. Essere monaci risponde a un’esigenza personale profonda. A volte però in alcune zone del nord, lontane al benessere delle grandi città, i bambini sono inviati nei monasteri per studiare gratuitamente. Lo scrittore tailandese Pira Sudham inizia la carriera quando la sua povera famiglia del nord, lo manda a studiare in un monastero di Bangkok. Questi due aspetti sono ripresi nel bel documentario tailandese So be it – A Wang del regista Kongdej Jaturanrasamee. L’autore narra, in modo partecipato, la storia di due bambini i quali si ritrovano a studiare in un monastero buddista. Sono due ragazzini totalmente diversi. Master Sorawit William Caudullo ha sette anni di madre tailandese e padre americano. William si mostrò disponibile a partecipare a un reality sulla sua adesione in un monastero. Diventa famoso, i fans aprono una pagina facebook per incoraggiarlo (https://www.facebook.com/LittleMonkWilliam/timeline). Ritornato a casa, chiede ai genitori di rivedere il suo monaco mentore. Dopo l’incontro chiede ai genitori di ritornare al monastero per diventare monaco. L’altro è Bundit, un undicenne. Proviene dalla provincia Tak al nord della Thailandia. I genitori l’hanno mandato in un monastero molto grande. La loro speranza è che possa ottenere una vita migliore. Bundit appartiene a una famiglia di contadini, generosi nei confronti dei figli ma poveri. Vivere nel monastero è difficile, ci sono tante regole, da studiare mentre Bundit è un ribelle, indisciplinato, sobillatore, gli mancano gli spazi di casa, della famiglia e la foresta. Il regista alterna i due momenti di vita. Si schiera con la camera e ci racconta puntando più sulle differenze che sulle congiunzioni dei desideri dei due ragazzini. Ci racconta Kongdej Jaturanrasamee: “One is half Thai-American. Another is a descendant from a hill tribe family. The first one has many opportunities in his life, but, he always continues to seek and approaches Buddhism doctrine. The second one has no choice but must stay in temple to improve his life. The temple and religious life have become the tools for seeking the answers in the two different ways of life for the two boys.” (www.haf.org.hk/project14/So%20Be%20It.pdf) Ma sono sempre dei bambini. Si addormentano durante le lezioni, oppure scappano per andare al fiume, giocano nella sabbia. Bundit è il capo banda di altri ragazzini, i quali a volte rubano dei soldi agli altri novizi. Il regista riprende la banda in belle inquadrature nel tramonto tailandese, con i tre novizi in controluce. William invece va a trovare il monaco, con il quale convive per un po’ di tempo. Vivono insieme, parlano, mangiano. William lava il monaco anziano, condividono il cibo ricevuto durante le elemosine casa per casa. Insieme pregano. Bella la scena quando il monaco insegna a William la filosofia del camminare: “e fai dei grossi e profondi respiri, pensa di essere un elefante” e la camera riprende monaco e William procedere avanti e indietro, seri silenziosi concentrati. Bundit riesce a prendersi una vacanza e può ritornare a casa dopo qualche anno, è il contraltare della visita di William al monaco. La famiglia di Bundit è ripresa in campo medio mentre la sera insieme mangia e discutono di fantomatiche borse di studio per far studiare il figlio. Se il monaco ha uno smartphone, a casa di Bundit la madre realisticamente macella un pollo schizzando il sangue ovunque. Se Bundit piange perché non vuole tornare al monastero, William abbraccia profondamente il maestro il quale lo raccomanda di pregare né a voce troppo alta, né a voce troppo bassa. Ritornati ai monasteri, troviamo William nella sua stanza a guardare immagini del Buddha e del monastero mentre Bundit è uscito nuovamente, lo vediamo con il gruppo di amici fare il bagno nel fiume. Un film dicotomico, l’autore con pazienza ha ripreso entrambi i fili del suo pensiero. Le scene sono intervallate e inquadrate nella propria realtà. Il fulcro sono i due momenti del viaggio, perché distanti dal monastero riescono a mostrare il proprio pensiero e i propri desideri. Sono bambini, hanno bisogno di aiuto e di affetto. Il pensiero è diverso da quello dei vecchi monaci, ripresi implacabili con il massimo realismo; in primo piano le rughe sono evidenziate. In questo l’autore è accanito, scatta al primo piano e non nasconde grinze e difetti. Sono se stessi, non hanno necessità di esaltare la presenza fisica per poter ottenere la comprensione del Dharma. Il volto dell’ultimo vecchio monaco si dissolve in un albero, nella natura, in un fiume mentre dei bambini fanno il bagno in una cascata. C’è una catena spirituale in questa immagine. Monaci, natura e novizi si possono disperdere uno con l’altro.