Mephisto. Istvan Szabò. 1981. UNGERIA-RFT.
Attori:
Klaus Maria Brandauer, Ildikó Bánsági, Krystyna Janda, Karyn Boyd
Durata:
138
Germania. L’attore teatrale Hendrik Hofgen è inquieto.
Partecipare ancora alla scena provinciale di Amburgo sminuisce le sue grandi
qualità. Si sposa con la bionda ed aristocratica Barbara, spesso di opinioni
diverse dalle sue, ed è amante della ballerina Juliette Martens, una ragazza di
colore. Ad Amburgo si fa conoscere oltre che per il suo talento e la sua
proverbiale professionalità (“Ci vogliono i professionisti per fare il
teatro rivoluzionario così come per fare la rivoluzione!”), anche per le
sue sperimentazioni avanguardistiche di matrice francese o bolscevica. I suoi
orientamenti comunisti lo spingono, infatti, ad allontanare un attore che ha
aderito al nazionalsocialismo e per il quale Hendrik sembra non avere alcuna
simpatia. Un giorno è invitato a Berlino a partecipare ad uno spettacolo e per
lui si aprono le porte del riconoscimento alla sua bravura. Nella capitale però,
dove è già tangibile l’aria nazionalsocialista, lo convincono ad abbandonare i
suoi punti di riferimento per cercarne altri nella tradizione tedesca e mettere
in piedi il vero teatro di stato (sangue e terra). Dopo aver indossato i panni
di tutti i più importanti personaggi del teatro, è con il ruolo di Mephisto in Faust
che arriva la sua definitiva consacrazione. Il clima della capitale continua
però a farsi più pesante ed alcuni attori decidono di partire per gli Stati
Uniti prima che sia troppo tardi. Egli nel frattempo fa arrivare a Berlino
anche la sua amante di colore. Il giorno che i nazionalsocialisti vincono le
elezioni (“E così un imbianchino austriaco è diventato cancelliere…”)
sua moglie, che da sempre si era mostrata distaccata dalle vicende politiche
del paese, decide di prendere una posizione precisa ed abbandona la Germania
per rifugiarsi in Francia. Anche i suoi vecchi compagni cercano di convincerlo
a prendere una decisione in modo che il teatro possa aiutare gli indecisi a
resistere, ma egli si rifiuta. A Budapest per una rappresentazione, gli è
offerta la possibilità di non fare ritorno in patria ma, convinto da una
lettera che parla di mettere da parte il suo vecchio ruolo rivoluzionario, fa
ritorno nella capitale liberando il suo Mephisto di tutte le possibili
interpretazioni comuniste. È la svolta della sua carriera, che lo condurrà a
diventare il maggiore rappresentante dell’arte nazionale, spinto dalla
personale volontà di successo e dalla voglia di un generale che vede in lui il
possibile scopritore di simboli nazionalsocialisti. Il suo teatro diventa
espressione della propaganda nazionale, della quale egli si serve per
raggiungere e consolidare il proprio successo e del quale la nazione germanica
sfrutta tutte le sue capacità trasformiste. Ben presto Mephisto subentrerà
all’attore e che a sua volta si trasformerà in delatore (contro l’attore
nazionalsocialista che ha deciso di abbandonare il partito) ottuso (continuerà
a non prendere posizione nel nome del suo ruolo di attore, esterno alle vicende
politiche del paese) ed ambiguo (riconoscendo che è costretto a recitare anche
nella vita).
Szabò adatta al grande schermo il
romanzo di Klaus Mann, ispirato a un personaggio realmente esistito, l’attore e
regista Gustaf Gründgens (1899-1963), cognato dell'autore. Critica alla vita del teatro ed alle sue
implicazioni con la realtà ed il potere (nel finale di carriera è proprio
l’Amleto uno degli ultimi spettacoli che rappresenta); ambiguità della maschera
(i due volti di Mephisto e Hendrik) e ricostruzione storica sono i punti di
forza del lavoro del regista ungherese, ma è l’interpretazione di Klaus Maria
Brandauer, sontuosa ed ineccepibile, a venir fuori come il diavolo
dall’inferno: il suo Hendrik è proprio come lo vede Juliette, isterico e con
occhi imbroglioni e glaciali. Chiavi di lettura al servizio del potere politico
(le diverse interpretazioni dei soggetti teatrali) sfruttate dallo stesso
regista che alla fine sostituisce Mephisto con il Faust, confondendo lo stesso
Hendrik (“Essere o non essere…”). L’uso dei primi piani (le parole della
lettera che lo convincono a tornare in patria hanno il volto di una bionda e
giovane ragazza ariana) è una costante delle inquadrature (come non farlo con
questo Brandauer), i monologhi di Hendrik fanno invece parte della scuola del
teatro. Finale metafisico, con Hendrik che in un anfiteatro vuoto, illuminato
da luci di scena che gli disturbano la vista, si domanda “Cosa vogliono da
me? Io sono solo un attore…”. Camaleontico, il film vinse l’Oscar per il
miglior film straniero ed a Cannes per la migliore sceneggiatura (del regista e
di Peter Dobai), con l’unico difetto di essere completamente esplicito.
Bucci Mario
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