Biuti quin Olivia. Martino Federica. 2002. Italia.
La storia è quella di un insieme
di rifiuti, umani e disumani, tra i quali e con i quali la protagonista Olivia
vive un’esistenza ridotta. Nell’immagine della borgata anniottanta romana del
Quadrato, una madre che subisce la vita, un padre zoppo e violento e Olivia,
una ragazza con evidenti problemi di scelte, compongono questo difficile nucleo
famigliare. È la storia di una realtà diversa, che forse cambia quando Olivia è
assegnata per l’ennesima volta ad una nuova scuola ed è avvicinata da una sua
compagna di classe, la cui più alta ambizione è quella di trovare una reginetta
per il suo concorso di Beauty Queen Olivia (il riferimento è all’attrice Olivia
Newton Jones di Grease). Respinta in
famiglia, sballottata tra diversi assistenti sociali e centri d’accoglienza, la
vita di questa giovane sans domicilie fixe ritrova un obiettivo nella sua fuga alla ricerca del vero padre, un
vecchio uomo che vive vicino ad un fiume.
Federica Martino è la figlia di
quel Martino Sergio del cinema italiano che ha consegnato alla storia della
televisione un treno di film trash pruriginosi, ed era quasi scontato che con
il suo primo lungometraggio prendesse subito distanza dal padre (i titoli
d’apertura e le prime inquadrature su Olivia sono tutti dettagli d’immondizia e
abbandono, forse la giusta metafora per rompere con la tradizione famigliare).
La storia, nemmeno troppo originale, è farcita da visioni e deformazioni,
dell’immagine e del pensiero dei protagonisti, in così tanta eccedenza da
stancare quasi subito. Lento tutto il primo tempo, non supportato da un buon
montaggio, sembra di assistere ad una fiction cinematografica, il che va a
scapito di un argomento così delicato e difficile come quello del degrado
umano. Bravi i due attori che interpretano i genitori di Olivia (Gino
Santercole su tutti) nel rendere immediato il lato grottesco dei loro
personaggi. Bella l’attrice principale, Carolina Felline (anche per lei
l’esordio come protagonista) con più esperienza potrebbe proporsi come volto
nuovo del nostro cinema. L’impressione generale è che molte scelte della
regista diano però il senso di fuoriposto.
La scelta di alternare ogni tanto con il bianco e nero, la digitale, o
ritoccare le fotografie come se si trattasse del volto di una donna dal trucco
pesante, rende alla fine poco credibile una portata che a pranzo s’inserirebbe
tra il primo ed il secondo.
P.S.: quando Olivia e
l’assistente sociale s’incontrano nella mensa del centro d’accoglienza, c’è una
comparsa che da dietro guarda a più riprese verso l’obiettivo della cinepresa….
questi sono errori della comparsa, dell’operatore, del montatore e della
regista….