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Taafe Fanga
Anno: 1997
Regista: Adama Drabo;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Mali;
Data inserimento nel database: 12-04-1998


Taafe Fanga

Taafe Fanga

Regia: Adama Drabo
Sceneggiatura:Adama Drabo
Fotografia: Lionel Cousin
Montaggio: Rose Evans-Decraene
Suono: Pierre Gauthier
Musica: Harouna Barry
Interpreti: Fanta Bérété, Ramata Drabo, Ibrahim S.Koïta
Hélène Diarra, Ténéman Sanogo, Michel Sangaré, Sidiki Diabaté, Baco Dagnon
Formato: 35 mm.
Durata: 100´
Provenienza: Mali
Produzione: Taare Films, Cnpc, Zdf, Projet Eine Welt
Distribuzione: Atria, 16, Bd Jules Ferry, 75011 Paris
Tel.: 33143571732


Senza diventare predicatorio, risulta didascalico e questo spiega il suo successo al Festival di Milano: gli ex colonizzatori apprezzano quando vedono gli Altri in atteggiamento discente. In realtÀ si tratta della rielaborazione moderna di un mito dell´epoca Dogon, antico e dunque dimostrazione che un bisogno di emancipazione femminile fu sentito autonomamente dalle donne dell´Africa Orientale ben prima di venire colonizzate dai francesi.

E alla loro tv capita di venire spenta nella prima azione del film senza alcun rimpianto da parte dei telespettatori: un esordio incantevole, che fa giustizia dell´uso delle gambe delle donne in ambito televisivo. Piuttosto il film preferisce diffondere la seduzione muliebre sulle note prodotte dal misterioso strumento suonato dal cantastorie, ma esse trapelano direttamente dalla leggenda come un aroma che si materializzi, come infatti avviene nel momento in cui si avvia davvero la storia dopo i preliminari e si confondono i piani della rappresentazione con l´apparizione tra gli astanti della bella emanazione mitica, in vesti tradizionali e quindi immediatamente ascrivibile allo spazio/tempo narrato, eppure in grado di intervenire nelle situazioni diegetiche attuali, piegando con la forza l´intervento fallocrate di un intollerante; un preludio al significato militante femminista dell´intero film, che predica l´equilibrio tra le competenze e i poteri dei generi attraverso la narrazione di un episodio che agli occhi occidentali può ricordare la Lisistrata dell´antica Grecia, ma nulla è abbastanza distante dalle rivendicazioni delle donne malinesi e soprattutto dallo spessore narrativo del materiale presentato dal film. L´intento del regista viene esplicitato dal griot; egli, spento il futile spettacolo di coreografia televisive sciorinate ad una folta platea annoiata, vi si sostituisce, invitando i convenuti a "visitare il passato per preparare il futuro"; e subito, con pochi movimenti, la disposizione circolare si accomoda all´evocazione di un "popolo famoso per la sua concezione dell´universo".
Lo stesso moto di adattamento al fremito che percorre gli ascoltatori quando si apprestano a pregustare il racconto si propone verso l´epilogo del film, quando i ragazzi hanno ormai superato tutte le divisioni tra i sessi: riacquisendo i loro vestiti, hanno ripreso le loro identità, ma con maggiore consapevolezza del ruolo dell´Altro, mentre agli adulti non è ancora chiaro. Non è ancora stata trovata la maschera yalberga, impropriamente calzata per dare il via al ribaltamento dei ruoli, che si ammanta a tratti di una valenza più dichiaratamente politica, come se si volesse dimostrare quanto il gesto rivoluzionario compiuto dalle donne possa essere un´avventata scelta dettata dal capriccio; e visto il carattere didascalico appare pericoloso un discorso così evidentemente moderato, ma poi rimeditando sulla centralità del mito si comprende la venatura mitigatrice dei contrasti. Yandi, la giovane appartenente alla razza Tellem (cacciati in epoca ancora più antica e ridotti a vagare per la savana) e legittima proprietaria della maschera, la sta cercando nel granaio della bambina, a cui la sceneggiatura ha affidato il compito di fungere da transfert con il pubblico, tanto che spesso attraverso di lei si assiste agli eventi. In quel mentre il padre inizia un racconto e scopre la bellissima ragazza nel granaio: all´incontro i bambini assistono come se si trattasse dell´inizio del racconto promesso dall´uomo, difatti sono disposti a semicerchio e il padre appare come su un palcoscenico, mentre per noi c´è un livello di narrazione in più.
Ma i rivoli narrativi sono moltissimi. Ci rendiamo conto a questo punto che coesistono in un solo testo infinite epopee affiancate al motivo iniziale femminista, che inanella la storia del popolo della savana, su cui si aggiunge l´appendice narrata da Yandi, con il suo furto della maschera al padre, e il disvelamento della interpretazione dei miti iniziali di nani e demoni (inventati dagli esiliati per salvaguadare i loro spazi), ma non solo: la ragazza dischiude un altro universo composto di nuovi riti, legati a complesse mitologie, la fiaba dei bambini che giocano con le stelle (diventando giochi d'artificio in sovrimpressione) e le ripongono quando sono stanchi è poi un tenero momento di pura immaginazione fantastica, il lungo corteo di profeti-capi del passato che si propongono rapidamente nella riunione notturna rievocano infinite altre storie. Una cultura infinita e strabocchevole di racconti a cui fa piacere poter affidare la sete di epos.