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Le Pornographe
Anno: 2001
Regista: Bertrand Bonello;
Autore Recensione: Luca Gennari
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 10-10-2001


LE PORNOGRAPHE

Bertrand Bonello

 

"Mio padre era medico e anche per me quello che faceva era osceno" (il pornografo Jean Pierre Léaud).

Il padre spirituale di Léaud, un padre che egli non ha potuto conoscere ma di cui deve avergli parlato molte volte il fratello maggiore François Truffaut, era solito affermare con tenace determinazione che nel cinema due sono le cose che è osceno filmare: il sesso e la morte. Quest’uomo era André Bazin, e a lui dobbiamo la nascita del cinema moderno e della Nouvelle Vague (di cui Léaud resta il simbolo, incarnazione vivente di un cinema libero e selvaggio, dolce e rigoroso). Bazin morirà il giorno prima dell’inizio delle riprese del primo film di Truffaut, I quattrocento colpi, in cui il giovanissimo Léaud interpreta per la prima volta il ruolo di Antoine Doinel, il personaggio che vediamo crescere e invecchiare lungo tutta la filmografia di Truffaut e che traccia il percorso di un’intera generazione. Da allora Léaud non ha mai smesso di fare cinema, ma dopo la morte di Truffaut e la fine del cinema della Nouvelle Vague il suo volto ha finito col confondersi con quello del cinema stesso: le rughe sul volto, qualche capello bianco, la sagoma appesantita ci ricordano che "viviamo in un mondo senza gioia ed è anche colpa nostra", come si legge nel manifesto redatto dai giovani che dividono l’appartamento con il figlio di Jacques Laurent, il regista pornografico interpretato da Léaud.

Laurent, che nel maggio del 68 inizia la sua avventura di regista di porno per spirito libertario, è ora costretto a riprendere l’attività interrotta da alcuni anni per bisogno di soldi, ma deve fare i conti con le esigenze concrete e volgari del produttore, con la fine della sua storia d’amore (la prima moglie si è suicidata gettandosi dalla finestra), con il ritorno di un figlio che lo aveva abbandonato dopo aver appreso qual era il suo mestiere e col quale fatica a ricostruire un rapporto.

La presenza di Léaud è una presenza necessariamente ingombrante: nel servirsene non si può non tener conto della memoria intertestuale ed extratestuale di cui tale presenza è gravida. Non è un caso del resto che l’attore venga utilizzato dal cinema contemporaneo (metacinema?) nel ruolo metatestuale del cineasta, del regista, del metteur en scène (basti pensare al ruolo del regista impegnato nella realizzazione di un remake da Feuillade, in Irma Vep dell’ex critico dei Cahiers Olivier Assayas). Attore-segno, icona, citazione vivente... in un film ipermanierato in cui Bonello dissemina una serie di citazioni, allusioni, referenze al cinema di Godard, Truffaut, Bresson, Garrel, Bergman e in cui Léaud resuscita con prepotenza il fantasma del cinema moderno.

Un film sul cinema dunque. Bellissima la prima parte in cui Bonello riflette sull’estetica del porno e sulle leggi della rappresentazione e della messa in scena: Laurent cerca la spontaneità dell’illuminazione e della recitazione, non sopporta lo smalto nelle unghie, non ama la musica d’accompagnamento, predilige le inquadrature fisse, parla a lungo con gli attori prima di girare e resta silenzioso durante le riprese. Cerca un momento di verità, bellezza e poesia nella penetrazione e nel coito, gira scene d’amore in cui chiede alla protagonista di ingoiare lo sperma, confessa di essere turbato dalle scene di fellatio in cui nella medesima inquadratura si vedono un organo sessuale e un volto. Ma le sue idee sembrano essere poco commerciali per il cinema hard contemporaneo: sono passati i tempi in cui filmare (anche) il sesso era un atto politico e in cui i giovani usavano la camera con la stessa libertà con cui gli scrittori usavano la stylo, in cui i set erano aperti a tutti e si girava con gli amici per il piacere di farlo. Sono passati i tempi in cui la messa in scena era il mezzo di espressione di una visione del mondo e si discuteva sul significato morale di una carrello.

Ed è uno sfasamento generazionale quello che Bonello rappresenta. Il rapporto padre-figlio diviene ben presto centrale: la lotta di Léaud contro il cinéma de papa deve ora fare i conti con la lotta afasica e velleitaria e senza cuore di giovani che non riescono neppure ad identificare un nemico, e con il rifiuto moralistico di un figlio che ha la serietà del rivoluzionario ma che viene messo in crisi dall’incontro col padre che aveva ripudiato. Il giovane abbandonerà ben presto la rivoluzione per il volto di Monica, incorniciato da primi piani alla Bergman: la citazione ancora una volta è esplicita, e la memoria dei cinéphiles corre subito a quel film Monica e il desiderio che per il giovane Godard e per i giovani turchi dei Cahiers rappresentava l’irruzione del sesso e lo scandalo del cinema moderno, e di cui il piccolo Doinel-Léaud rubava una foto ne I quattrocento colpi. Una ricongiunzione padre-figlio possibile soltanto nella fuga impossibile di una memoria cinefila?

Il cerchio infine si chiude: l’oscenità di cui parlava Bazin, il padre del cinema moderno, non sta nella rappresentazione del sesso quanto piuttosto nel modo di guardare. Non abbiamo più dubbi quando Léaud, alla fine del film, sbatte in faccia alla giornalista che più volte lo ha cercato per intervistarlo, l’indecenza e l’oscenità delle sue domande, del suo voler spiare la vita d’altri, l’oscenità di chi fa cinema per soldi, di chi riduce il sesso a un esercizio meccanico di morte, di chi vive una vita senza gioia fantasticando sulle ragazze facili che popolano i set dei film porno.