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Malena
Anno: 2000
Regista: Giuseppe Tornatore;
Autore Recensione: Luca Bandirali
Provenienza: Italia/ USA;
Data inserimento nel database: 08-11-2000


Malena - recensione

Il movimento regolare di Monica Bellucci in una passeggiata siciliana detta i tempi dell’ultimo film di Giuseppe Tornatore, Malèna; ed è già un movimento cinematografico, che si offre allo spettatore con l’ovvietà dei più lirici luoghi comuni frequentati dal regista di Nuovo Cinema Paradiso: come il Truffaut della celebre battuta sulle gambe delle donne (“sono i compassi che misurano il mondo”) che qui si mette in scena, un passo dopo l’altro. Se La leggenda del pianista sull’oceano segnava il punto d’implosione di un linguaggio ipertrofico, sovraccarico di immagini leziose e di cattiva letteratura, Malèna vorrebbe aprire la fase interlocutoria di un regista cresciuto all’ombra del cinema come Arte, del quale si è autoproclamato erede ed interprete (guardando ieri a Fellini, oggi a Germi). E’ un cinema egocentrico (ed euro-centrico) che confeziona prodotti in stile internazionale, concordati con l’investitore Miramax (distributore di La vita è bella negli USA); e sono sufficienti pochi elementi narrativi e stilistici per collocare il prodotto Malèna nella categoria dei film su commissione, realizzati per compiacere un pubblico che ha mostrato di gradire un certo tipo di immaginario: la suggestione del genere storico, l’Italia della seconda guerra mondiale con il suo folclore (quello popolare e quello fascista), la funzione salvifica degli Americani. Dall’universo del Pianista emerge ancora una volta un racconto di formazione condotto da un punto di vista assoluto, quello di un ragazzino di tredici anni, Renato: irretito dal fascino, dall’incanto della bellezza femminile (che per lui s’incarna tutta in Malèna-Bellucci), Renato registra la parabola di questa creatura indecifrabile, orgogliosa e fragile, indomita e vinta dalle avversità. Circondata dal “machismo” come unica manifestazione del carattere virile (esemplare – e per questo inutilmente didascalica, e artificiosa – la scena in cui al bar del paese una quantità di uomini si contende l’accensione della sua sigaretta), ella sperimenta pure la condizione di isolamento cui la costringono le donne come forza conservatrice, come gruppo sociale che custodisce le regole e le convenzioni. In un mondo così disegnato, a Malèna resta solo da camminare; e lo spettatore non può che seguirla con gli occhi di Renato, in un’identificazione che lo precipita in uno spazio angusto e insieme vastissimo.

 

Le linee di forza che organizzano la visione del film sono di ordine duplice; da una parte riguardano il punto di vista, dall’altra l’aspetto metatestuale, ossia il dichiararsi del film come testo interagito da autore e spettatore.

Al punto di vista del ragazzino sono associate delle immagini soggettive, prodotte dallo sguardo del personaggio; in questa categoria di sguardi rientrano le soggettive “analitiche”, nelle quali vediamo all’opera un punto di vista reale, che registra gli oggetti e i fatti (si hanno, per esempio, quando Renato spia Malèna da una fessura del tetto); ci sono poi le semi-soggettive, in cui la ripresa comprende dettagli, primi piani, movimenti di macchina, che non riflettono direttamente lo sguardo di Renato ma sono comunque “dipendenti” da quello; infine abbiamo le soggettive “interiori”, immagini mentali che risultano da sogni o da desideri (queste si hanno quando Renato si proietta al fianco di Malèna, o la vede improvvisamente nuda anche quando è vestita). Nei primi due tipi di soggettiva converge evidentemente tutta la strategia narrativa e insieme la potenzialità espressiva del film: la sua capacità di gestire minuziosamente i movimenti all’interno del quadro, di dirigerli, di crearli a partire da un’intenzione creativa; queste immagini fanno capire che la folla intorno a Malèna è lì in funzione della macchina da presa. Come spesso accade a Tornatore (i cui vezzi stilistici nel <Pianista> sfioravano la mania), questo apparato formale si traduce in un freddo e manierato omaggio alla bella fotografia, o alla bella pittura: la composizione dell’ultima inquadratura, con i gruppi ben ordinati di schiena alla macchina da presa che procedono verso il destino (già scritto dalla voce narrante), è quanto di più rigidamente fotografico il regista siciliano ci abbia finora mostrato, e in generale si nota una predilezione per la “veduta”, specialmente nelle location marocchine (il film è stato girato parzialmente in Marocco per una serie di vicissitudini della produzione in Italia). Sono invece le immagini interiori ad aprire nel testo quella crepa nella quale il regista finisce per franare miseramente con tutto il suo repertorio poetico; queste “soggettive al quadrato” del ragazzino che sogna Malèna in forma cinematografica (di volta in volta lei e lui sono i protagonisti di Tarzan, Ombre rosse, Jane Eyre) introducono un livello ulteriore di finzione che proprio non riesce a trovare posto su uno schermo già gremito di immagini autoreferenziali. La loro debolezza, giova sottolinearlo, è meno nello sconfinamento nel grottesco e nel greve che nell’assoluta gratuità e arbitrarietà con cui si danno allo spettatore. Non serve che a ricucire il senso concorrano le metafore ossessive dello sguardo (inquadrature dell’occhio, della finestra, del buco della serratura, dello specchio): il senso è perduto, e ci si ritrova con una cocciuta legittimazione dell’enunciato raggiunta mediante un sistema di corrispondenze fra regista come Autore ed Enunciatore, personaggio-bambino come medium, e spettatore come Enunciatario. Le analogie scoperte fra il dispositivo cinematografico e il personaggio di Renato si possono elencare a partire dalla prossimità fra l’occhio del ragazzino e l’occhio della macchina da presa; fra il suo carattere dinamico ed esuberante e il sistema dei movimenti di macchina (l’arrampicata sull’albero equivale a un dolly; la corsa in bicicletta ad un carrello); fra gli episodi di onanismo (che hanno ancora il potere di scandalizzare i commentatori di Famiglia cristiana!) e la naturale disposizione del cinema di Tornatore all’autoerotismo. 

A darci una misura definitiva dello stato delle cose è una sequenza rivelatrice, quella in cui Renato viene condotto dal padre al bordello perché sia iniziato al sesso: ignorando per un attimo gli elementi più superficiali della connotazione (luce rossa, percezione distorta, montaggio frammentato), e prestando attenzione al movimento avvolgente dei corpi intorno al soggetto che li guarda e li sceglie, si capisce come il regista-bambino si senta attualmente accerchiato dalle seduzioni facili del linguaggio (quegli artifici che lo hanno quasi ipnotizzato nel Pianista, per intenderci), e intenda fronteggiarle attraverso una scelta affettiva, viscerale. Nel film, Renato guarda (e sceglie) la prostituta che non partecipa al turpe balletto, che è poi la più somigliante a Malèna; così Tornatore fugge dalle sollecitazioni che il tracollo formale del Pianista gli metteva di fronte, trovando riparo nel ripiegamento eclettico-nostalgico, il solo atteggiamento che sa opporre al cinema di oggi.