Accolto come un oggetto estraneo alla scorsa edizione del
Festival di Venezia, Holy smoke è film che respinge, ad un primo
impatto, la schiera di adoratori che Lezioni di piano aveva guadagnato a
Jane Campion. Una visione non superficiale, d’altra parte, restituisce tutto il
cinema della regista neozelandese allo spettatore: cui spetta in ultima analisi
decidere che fare di questi cinque lungometraggi (sei se si include il
televisivo Due amiche), l’ultimo dei quali nulla aggiunge né allo stile
né all’universo narrativo di un’autrice indissolubilmente legata - ha scritto
Eliana Elia – “a vibranti storie di donne al limite del patologico”.
C’è sempre uno sguardo femminile, infatti, al centro di
questo universo: qui si tratta dello sguardo di Ruth, giovane australiana
impelagata in un brutto trip religioso durante una vacanza in India. Nulla di
nuovo: come in Lezioni di piano, c’è un viaggio che inverte il sistema
di segni in opera; in quel film lo spostamento dall’Europa alla Nuova Zelanda
creava un’opposizione fra cultura e natura: qui, nel doppio movimento
dall’India all’Australia, si genera una tensione spirito/materia. Nel testo,
tutto ciò che è simbolo gode di una connotazione efficace che molto si affida
alla nozione di Autore: non sfuggirà ad un occhio attento la relazione tra il
dato visuale in Holy smoke e le coordinate di ripresa e fotografia nei
primi film Sweetie e Un angelo alla mia tavola, con la
propensione per angolazioni interessanti e insolite e per cromatismi intensi,
di matrice iperrealista (più ordinato che altrove, invece, il montaggio).
Bisogna dire poi che anche il tema centrale, l’incontro con
il soggetto maschile, ci è ben noto: “Gli uomini della Campion” ha scritto a
tal proposito il critico Mariolina Diana “acquistano diritto di cittadinanza
solo quando sono disposti a comprendere e accettare i desideri e gli istinti di
una donna”. Al ritorno forzato di Ruth dall’India, i familiari impongono alla
ragazza una sorta di “cura disintossicante”. C’è un uomo, un americano, che per
professione decondiziona i giovani plagiati dalle sette d’ogni genere: è PJ
Waters, interpretato da Harvey Keitel, che qui mette in discussione meno il
proprio credo artistico (da ortodosso del Metodo, si volta a mostrare la nuca
durante un intenso primo piano) che il cliché di “risolvi-problemi”
appiccicatogli da Quentin Tarantino. Amante silenzioso in Lezioni di piano,
Keitel si impadronisce dello stereotipo sgradevole del dominatore ineducato,
condizione necessaria affinché il soggetto femminile Ruth lo possa educare e
dominare.
Purtroppo, senza voler parlare di miscasting (errore
nell’attribuzione dei ruoli agli attori), Holy smoke soffre proprio
l’assenza di un’interprete femminile capace di donare a Ruth l’irruenza del
raziocinio e l’abbandono della follia: ma Kate Winslet non è Nicole Kidman, né
Holly Hunter. Questo nuoce solo in parte ad un film che all’autoreferenzialità
affianca un’evidente nostalgia per un cinema della “questione femminile”, per
l’impatto politico di un Ferreri o di un Bertolucci. A vedere questo Keitel
burlesco nelle ultime battute di Holy smoke, caracollare vestito da
donna per il deserto australiano in preda ad allucinazioni mistiche che gli
rimandano una Winslet-Kali dalle molte braccia, viene in mente una frase di
Virginia Woolf: “Detestate quest’epoca. Createne una migliore”.
In Jane Campion, fin’ora, è prevalso senza dubbio il
disprezzo.