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Central do Brasil
Anno: 1998
Regista: Walter Salles;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Brasile;
Data inserimento nel database: 24-12-1998


Central do Brasil

Central do Brasil

Regia e Soggetto:
Walter Salles
Sceneggiatura:
Joćo Emanuel Carneiro e Marcos Bernstein
Fotografia: Walter Carvalho
Montaggio: Isabelle Rathery, Felipe Lacerda
Direttore Artistico: Cássio Amarante, Carla Caffé
Musica: Antônio Pinto, Jaques Morelembaum
Suono: Jean Claude Brisson
Costumi: Cristina Camargo
Personaggi: Fernanda Montenegro, Vinicius de Oliveira, Soia Lira
Produzione: Arthur Cohn, Martine De Clermont-Tonnerre
Formato: 35 mm.
Provenienza: Brasile
Anno: 1998


Microstorie che dischiudono universi di quotidiana brasilianità: sono emozioni e stati d'animo in cerca di una patente di esistenza, fittizia e rilasciata dagli estensori delle lettere, inviate prima di tutto a se stessi. Il fatto che quel sentimento di saudade per un amore incarcerato o di delusione per un inganno trovino una nobilitazione proveniente dalla scrittura è sufficiente: ognuno poi sa che quei loro messaggi inviati al mondo non saranno mai inoltrati al destinatario ufficiale, ma esauriscono parzialmente il loro compito già nell'azione di averle dettate ad un testimone della propria esistenza. Dora svolge questa funzione; e anche noi siamo chiamati a svolgere un servizio, per questo ognuno investe un real: è come una candela accesa ad un santo, serve per enunciare la propria esistenza attraverso la condivisione di un proprio problema. Fin dalla prima inquadratura quella umanità bisognosa di comunicare si rivolge direttamente a noi, parlando in macchina, come i tanti docufilm di moda adesso.

Purtroppo già alla terza lettera s'introduce il protagonista, doppiato malamente come se fosse Sciuscià, lui e la sua trita storia: un Alice maschio nelle città, a cui sia stata sostituita la Ruhr con la campagna verso Pernamuco. I meccanismi posti in gioco tra i due viandanti e gli espedienti adottati per precipitare nell'indigenza la coppia, e dunque infarcire la trama di situazioni "narrative", sono imbarazzanti per pochezza di fantasia, ma non sarebbe grave se la vicenda che trasporta l'insegnante e l'orfano da Rio a Villa do Jesus rimanesse sullo sfondo, lasciando spazio alla grande città senza costringersi a bozzetti per evocare la sorte dei meninos de rua o relegare a tre pregevoli microsequenze l'affresco del ventre molle della provincia carioca: il camion che fa servizio di bus sul cassone del quale s'intona una struggente canzone di devozione sincretica a partire da immagini sacre, la festa delle candele ripresa in un turbinio di luci, santeria e fuochi d'artificio per esaltare la tenebra che attanaglia le vite precarie, la trottola assurta a metafora di un mondo che si abbandona ad un destino, in cui tutto torna.

È un peccato che la struggente storia del bambino soffochi l'immagine del Brasile, che per fortuna lo sfondo su cui si proietta l'ennesima storia di cui non si sentiva il bisogno si sforza in ogni modo di porre in rilievo e sistematicamente gli autori ricacciano per fare spazio ai crismi neorealisti, che pretendono di parlare dell'individuo esemplare al quale capita un carico di sfiga concentrato attraverso il quale esporre tutti i casi estremi, invece di scegliere la coralità che fa capolino tra la valanga di storie e di destinazioni per le epistole (da Bahia al Minas Gerais).

La costruzione fa in modo che rimangano impresse le sequenze più legate al pretesto narrativo: quindi Irene e Dora che archiviano le lettere, immemori del significato affettivo, dell'importanza che possono ricoprire, giudici del destino altrui, come dimostra il finale: questo film fa retrocedere su un secondo piano l'analfabetismo da cui prende le mosse, traendo ragione d'essere, privilegiando l'intreccio: soltanto al termine si realizza che di tutti i personaggi incrociati nel road movie solo Dora e Irene sanno leggere e scrivere al punto che Dora legge per conto dei destinatari le missive scritte da lei stessa per conto del mittente, rivestendo una figura sacrale, quasi una vestale dello scritto: infatti tutti si profondono in ringraziamenti.

L'investimento della madre è ripreso con inquadrature classiche (dettaglio trottola, sguardi incrociati, brevi concitati frammenti, soggettiva moritura, urto, urlo), ma la scelta dei tempi nel montaggio regala una scintilla di interesse in più, pilotando l'attenzione sulla magistrale chiusura dedicata al fazzoletto raccolto da Dora, proletticamente di un'altra scena molto intensa a cavallo tra animismo e spiritualità: una pietas che racchiude in sé il Brasile ("Con Deus seu o meu destino", si legge sul camion di César) Anche per il tema religioso però, come tutti i temi sfiorati nel film si avverte quanto gli autori siano attirati dall'urgenza di realizzare un affresco della passione e quanto le supreme esigenze dell'affabulazione popolare impediscano di andare oltre alle gustose premesse delle foto davanti a Padre Prospero o ai quadri di una processione, dove si preferisce seguire l'angoscia di Dora, preoccupata per la scomparsa di Giosué (Viaggio in Italia?), piuttosto che immergersi nel buio degli antri ricolmi di agiografiche immaginette e macumbas.

Forse il costante rinvio tra momenti intimi e cattura del mondo esterno alla vicenda: il regista dimostra notevoli doti di sintesi, quando rivela le intenzioni, seguendo gli sguardi all'interno della stazione di sera; quegli stessi sguardi che producono le quotidiane storie di miseria, morte, sfruttamento. Le esecuzioni, una violenza mantenuta fuori campo, ma incombente dietro quei giochi di sguardi ripetuti ad esempio nella casa del presunto padre di Giosué. Come quegli sguardi, molti itinerari si snodano nel film, incrociandosi senza confondersi: un pregio della sceneggiatura, perché tutto scorre come un fiume in una stessa direzione; giunti all'epilogo tutti i bandoli della matassa vengono dipanati da perfetto canovaccio classico: la ricerca del bambino, il road movie, le trottole, il fazzoletto e ... la storia del padre di Dora ("macchinista, ubriacone: una merda"), che evolve trovando finalmente una composizione dopo le costanti rivelazioni sulla figura paterna e completando la catarsi; la narrazione ripropone il repertorio dei meccanismi classici a partire dalla preparazione dei caratteri e dal motivo scatenante che aleggia per l'intero film troppo retoricamente: "A tutto c'è un limite", pronunciato da Irene; i dettagli, curatissimi, sono in realtà dei canoni rispettati, nascondendo la retorica con l brasilianità, che riesce a rendere accettabile persino la tirata sul rifiuto delle foto come ricordo delle persone, intransigenza temperata nell'ultima evocazione del padre.