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White Material
Anno: 2009
Regista: Claire Denis;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 08-09-2009


E’ un film molto bello quello di Claire Denis.

L’ambientazione è quella di un paese africano, uno dei tanti, dove si sta combattendo una lotta fra i soldati che rappresentano un potere politico ed economico ed i ribelli che con la motivazione di combatterli sono portatori di altri interessi non meno nefasti e pericolosi.

Siamo in un fattoria di caffè di proprietà di una donna francese bianca a cui era stata lasciata da gestire da un altro bianco che l’aveva fondata.

Ovviamente questa fattoria si basa sul lavoro dei tanti neri, poveri e miserabili che vivono nella città vicina.

Nel film non si cerca il facile motivo del colonialismo, della cattiveria dei bianchi, dello sfruttamento del lavoro dei neri, dei forti poteri legati all’occidente che manovrano i fili una volta dei soldati e l’altra dei ribelli.

Non ci interessano queste motivazioni, questo non vuol dire che non ci sono, infatti si sentono e si vedono bene, ciò che colpisce in White Material è ciò che la bravissima Isabelle Huppert si porta dentro di se.

E’ una donna sola, circondata da un ex marito che tenta di vendere la proprietà senza consultarla, un figlio debosciato che sta impazzendo in un paese dove è nato, ma che non gli appartiene e di cui gli abitanti non ne riconosco la sua appartenenza.

E’ la tragica lezione che abbiamo nell’emigrazione. L’emigrato non sarà mai membro totale della comunità in cui si è trasferito, perché il suo marchio rimane sempre impresso.

D’altronde non può più tornare neppure nel suo paese di origine perché anche lì è un estraneo che non fa più parte di quel mondo.

Siamo di fronte ad un apolide che vorrebbe andarsene ma non può tornare da dove è partito.

E’ qui che la Huppert parte per descrivere la sua psicologia, quella di una donna che non ha passato perchè risca di essere spazzato via dalla guerra e non ha neppure più futuro.

La sua Africa, quella che effettivamente lei sente come il suo paese, non la riconosce come membro di quella società e tornare in Francia è impossibile perché sarebbe una donna persa e fallita.

E’ costretta a rimanere, mettendo a rischio la sua famiglia.

Cerca di far comprendere che lei fa parte dell’Africa, da qui gli insulti violenti contro i bianchi, come se lei non ne facesse parte. Non si va più da nessuna parte. Il mondo si sta ferendo da solo.

Esempio tipico nel fallimento dei bianchi è nel figlio della Hupper, un debosciato, incapace di fare nulla, solo di dormire, il messaggio che il ragazzo simboleggia è proprio la decadenza del mondo occidentale e bianco sia nei confronti dell’Africa e nei confronti di se stessa.

La sua pazzia è il simbolo della nostra società totalmente impazzita e forse senza futuro.

Neppure la popolazione nera sembra che stia molto bene, però, violenza, povertà, corruzione non lasciano molti spazi per poter vedere dei cambiamenti nel breve periodo.

Non c’è altro da fare che porre fino a tutto ed è ciò che la Huppert farà nel finale profetico.


Un bellissimo film psicologico sulla vita, su ciò che il nostro comportamento può provocare, sulla necessità di avere un paese ed una casa su cui basare la nostra vita.

Il ritmo dell’azione accompagna sempre il pensiero della Huppert, non facendolo mai cadere su un minimalismo formale.

Non c’è nulla di formale infatti, ma tante inquadrature che cercano di farci entrare sia dentro il carattere dei personaggi sia dentro il ritmo che non è veloce ma preciso e puntuale.

Non c’è che da aggiungere che il white material ha un valore che sta scendendo rapidamente.