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The game
Anno: 1997
Regista: David Fincher;
Autore Recensione: Marcello Testi
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 20-03-1998


The Game è il più recente film di David Fincher; è un film strano, spiazzante, sempre in bilico tra la riuscita e la caduta, quasi mai sublime, mai giù di tono, mai noioso, mai esaltante, senza per questo risultare mediocre. Cercherò di spiegarmi questo p

Regia: David Fincher; Fotografia: Harris Savides; Montaggio: Jim Haygood; Musica: Howard Shore; Costumi: Michael Kaplan; Cast: Michael Douglas (Nicholas Van Orton), Sean Penn (Conrad), Deborah Unger (Christine), James Rebhorn (Jim Feingold), Anna Katerina (Elizabeth), Peter Donat (Samuel Sutherland), Carroll Baker (Ilsa), Armin Mueller-Stahl (Anson Baer); Produttori: John D. Brancato, Cean Chaffin, Michael Ferris, Steve Golin, Jonathan Mosto; Produzione: A&B Producoes, Lda. / PolyGram Filmed Entertainment / Propaganda Films; Durata: 128', USA 1997

The Game è il più recente film di David Fincher; è un film strano, spiazzante, sempre in bilico tra la riuscita e la caduta, quasi mai sublime, mai giù di tono, mai noioso, mai esaltante, senza per questo risultare mediocre. Cercherò di spiegarmi questo paradosso.

Il tema svolto è abbastanza comune, di questi tempi: il nomade psichico, l'uomo errante (va sottolineato come questo carattere sia prettamente maschile); questo già presuppone una certa dose di freddezza e di distacco dallo spettatore, il concedergli assai poco in termini di azione e far circolare il racconto più vicino alla testa che alle gambe. Ci è riuscito Lynch e ha prodotto con largo anticipo il primo capolavoro del ventunesimo secolo; ci ha provato Wenders e ha saputo tirar fuori almeno una frasetta sulla paranoia, poi ha divagato; Fincher ha preso questa paranoia e con essa ha composto un affresco, vagamente manierista (e quindi creativo), fortemente derivativo.

Ha sviscerato una città (San Francisco, teatro di un altro vibrante film, Heat di Michael Mann) e l'ha fatta pulsare, farcita di pericolo e di inquietante quotidianità. Ha smascherato con operazione d'altri tempi questa quotidianità, mostrandone l'affettazione innaturale e mettendo in scena il paradosso di una rappresentazione del mondo che diventa grande come il mondo stesso.

Fincher ha preso il via da presupposti vicini al "falso documentarismo" à la Cameron, lo ha reso credibile proprio mentre lo distruggeva con il montaggio (impossibile per il cineamatore, collassando Bazin e Godard) e ci ha montato sopra il più classico e desueto dei depistaggi Hitchcockiani ("McGuffin"), producendo un sorprendente falso finale. Ha doppiato e demolito l'immagine parafascista di Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia. Ha inclinato la sua visionarietà sui saliscendi di Frisco, l'ha piegata, sacrificandone la parte più esplosiva (fuoriuscita prevalentemente nel terzo Alien e nei titoli di testa di Seven) e producendo luce fredda che si riflette a contrario nei colori seppia e sangue di Seven.

Il risultato necessita di un grosso sforzo da parte del pubblico e non è incomprensibile una reazione di scherno, il prezzo da pagare per la freddezza di un'opera caparbiamente critica. Non si tratta di un'accusa di inadeguatezza intellettuale, quanto della possibilità che non si voglia seguire un discorso di questo tipo; a chi ha compiuto questa scelta, consigliamo però di continuare a tener d'occhio questo sempre più abile "mestierante" hollywoodiano nelle prossime avventure produttive.