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American Beauty
Anno: 1999
Regista: Sam Mendes;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 30-11-2004


La grande guerra

American beauty.  Sam Mendes. 1999. USA.

Attori: Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Wes Bentley, Mena Suvari, Chris Cooper, Peter Gallagher

Durata: 122’

 

 

Lester ha 42 anni e tra meno di un anno sarà già morto. È sposato con Carolyn, con la quale una volta era felice, ed ha una figlia, Jane, arrabbiata come la maggior parte dei giovani. Entrambe vedono Lester come un colossale perdente, e la cosa in parte è vera, poiché Lester non è felice. Ad un balletto di ragazze pon pon, Lester mette gli occhi su Angela, un’amica di Jane. Ad un ricevimento conosce Ricky, un cameriere che frequenta la stessa scuola di sua figlia, e che si è trasferito con la famiglia proprio vicino a casa loro. Con il ragazzo si fuma uno spinello, poi torna a casa. Dopo una serie di liti con la moglie, torna proprio da Ricky e diventa abituale fumatore di marijuana mentre Carolyn va a letto con Buddy Kane, il miglior venditore di appartamenti. Ormai prossimo all’esaurimento famigliare, Lester lascia il suo lavoro e si fa assumere in un fast food. Tra Jane e Ricky intanto nasce del tenero. La relazione di Carolyn con Buddy Kane termina. Il padre di Ricky, ex marine, spiando suo figlio con Lester, s’immagina che sia diventato omosessuale e lo picchia, costringendolo alla fuga. Ricky però passa prima a prendere Jane per scappare con lei. Lester invece, rimasto solo in casa con Angela, prova a portarsela a letto, ma quando si accorge che lei è ancora vergine, rinuncia. Rimasto solo, viene sparato alla nuca dal padre di Ricky.

È un esordio con il botto quello del britannico Sam Mendes, regista di teatro passato dietro la m.d.p., una delle più chiacchierate partecipazioni di fine millennio allo stantio panorama del cinema americano. Dotato di un’estetica superlativa il film affronta crudelmente la fine di una serie di rapporti ed illusioni e questo contrasto tra patinato e sconcio, sebbene abbia una sua funzione nella realizzazione della pellicola, per certi versi indispone per intangibilità effettiva. American beauty distrae, provoca, sublima una serie di perversioni, o di sogni nascosti sarebbe meglio chiamarli, ai quali il mondo degli adulti sembra appartenere (ma anche quello dei ragazzi, come Angela per esempio) e dal quale presto vengono risucchiati. Tutto ha una natura doppia ed ambigua, che non risparmia nemmeno Ricky, che nonostante appaia anche lui come una vittima, in realtà è un voyeur, soffre cioè come tutti di una mancanza effettiva di amore. Ricky guarda con lo zoom della sua videocamera negli altri appartamenti, spia la vita degli altri e sogna la ragazza della porta accanto, ma ha bisogno di essere distante dalle cose per apprezzarle. Sono tutti combattuti da una doppia natura, dunque, l’ambiguità dell’apparenza che incontra quella della sostanza: vorrebbero ucciderete tutti Lester, o togliersi la vita, e l’unico a farlo è un marine razzista e omofobico che in nome del machismo militare vendica una possibile omosessualità del figlio. È la vittoria del pensiero conservatore sul colpo di coda di un cambiamento (quello messo in atto da Lester). Un disavanzo d’amore che conduce alla morte. La maggior parte dei protagonisti proietta immagini di successo ma vive una profonda insoddisfazione sentimentale ed emotiva, che si risolve in un atteggiamento masturbatorio post edonistico. L’America assume il carattere di un discorso pieno di incomprensioni e contraddizioni, ricco di tristezze e solitudini, isterismi famigliari dove abbondano come serpi le vitalità assopite. Ma non è solo l’America il bersaglio del regista, è anche la famiglia, il nucleo centrale della sua critica, portata sullo schermo già ad un passo dal fallimento matrimoniale. L’unione non fa la forza e la fuga è ad un passo dalla morte: o l’anticipa o gli corre incontro. Girato con una forte capacità di tenuta degli attori (nessuno fuori luogo o fuori parte), dotato di una bellezza estetica invidiabile, forzato su alcune impressioni (immagine + interpretazione + commento protagonista) il film cresce su se stesso evitando la struttura circolare perfetta alla quale sembra alludere con le immagini che anticipano i titoli, ma ottenendo comunque un discorso completo, chiuso. Il personaggio di successo Buddy Kane forse fa riferimento a Citizen Kane (1941) di Orson Wells? Un po’ ruffiano, American beauty lo è, ma è così ben impacchettato da riuscire a nascondere questo suo irritante lato del carattere. La pellicola, per l’appunto, ottenne ben cinque premi Oscar: miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura originale, miglior interpretazione maschile per Kevin Spacey, e ovviamente miglior fotografia a Conrad Hall. Tornando alla sua estetica (ridondante), il film può essere paragonato a Magnolia (2000) di Paul Thomas Anderson, assolutamente diverso per contenuti ma molto simile per la luminosità dei colori, ed in Italia a due lavori, L’ultimo bacio (2000) di Gabriele Muccino e Santa Maradona (2001) di Marco Ponti. Ho accennato solo alla fotografia, perché altrimenti i quattro film cozzerebbero ovviamente fra loro. Spero di essermi evitato un linciaggio. La sua struttura (inizio & fine + voce fuori campo) è stata oggetto di parodia in Chiedimi se sono felice (2000) del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. American beauty dunque è un film di successo (best seller) che si lascia vedere, che attrae e rapisce, ma che non va mai preso troppo sul serio, perché non ci riesce da solo.

 

 

Bucci Mario

[email protected]