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Beloved
Anno: 1998
Regista: Jonathan Demme;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 01-04-2000


Beloved

Beloved

di Jonathan Demme, USA, 1998, 171´

10° Festival Cinema Africano

Milano 24/30 marzo 2000
regia di .......................... Jonathan Demme
soggetto di  ...................... dal romanzo di Toni Morrison
sceneggiatura di.............. Akousa Busia, Richard La Gravenese, Adam Brooks
fotografia di  .................... Tak Fujimoto
interpretato da .............. Thandie Newton, Oprah Winfrey, Danny Glover, Kimberly Elise
prodotto da ....................... Edward Saxon, J.Demme, Gary Goetzman, O.Winfrey, Kate Forte
distribuito da .................... Touchstone Pictures

Un'epopea nera tratta da Toni Morrison, costellata di corpi d'ebano segnati dall'America, marchiati dall'Amerika; un romanzone del profondo sud fatto però di volti attoniti, sofferenti, naturalmente (s)catenati e criminalmente (in)catenati di nuovo, perché le catene sono nelle loro menti, che a loro volta trattengono quelle immagini orribili che affiorano talvolta, imponendosi attraverso emergenze di (in)coscienza, al punto che s'incarnano i fantasmi di un vicino passato (1865, quando il presente diegetico è fissato nell'Ohio del 1873) collocato in una "Sweet House" del Kentucky, dove il nome denuncia tutta l'ipocrisia wasp; figure di un'indicibile, mitica sofferenza, documentata con minuzia di particolari. Neri, anzi nigger, con un retaggio di fughe che hanno scatenato linciaggi e persecuzioni, stupri beluini. Ma sopra tutto questo impianto di derivazione bianca, addirittura confederato nell'atmosfera e per la struttura del racconto, c'è un'evidente attenzione ai riferimenti iconografici: uno dei pregi dell'operazione è proprio il ribaltamento della centralità di tanti film sul profondo sud che si trovano ad impattare su una comunità nera; il culmine si coglie nella festa di carnevale per soli neri a Cincinnati. A latere del tentativo di ricostruire un Roots sbilanciato sulla componente femminile, dilaniando qualsiasi relazione con testi che potrebbero inficiare lo struggimento e l'atroce violenza che trasuda dalle pareti della casa all'interno della quale avvengono tutte le scene che opprimono l'animo e lanciano i flash surreali., perciò non scivola mai nel melenso Purple Color, mantenendosi però nel solco del racconto tradizionale delle prime timide affrancature dalla schiavitù affiancandole al bisogno di cadenzare il racconto con le pause tipiche della mitopoiesi americana, la produzione e gli autori bianchi non hanno potuto comprimere lo spirito della negritudine che fuoriesce da ogni ruga della predicatrice, la quale a otto anni dalla morte (crepacuore, s'indovina) è ancora riferimento per la comunità, non riescono a comprendere a pieno il Mumbo Jumbo, ma non può esimersi dal mostrare con inquadrature oblique e virate sul rosso la casa infestata da spiriti con cui si "deve" convivere (il passato che nelle parole di Oprah Winfrey non deve intaccare i figli: una Shoa per la quale nessuno ha ancora chiesto scusa all'Africa).

Un voodoo con radici ben profonde nell'animo dilaniato dalle persecuzioni subite, che hanno inciso enormemente sulla protagonista fino a portarla al gesto che è centrale, e indoviniamo prima che ci venga svelato nella lenta ricostruzione dell'epos, ma che ci colpisce ugualmente nel disvelamento catartico del finale: graduale, studiatissimo per gonfiare la tensione affidata al ritaglio (e all’estremo dettaglio dell’analfabetismo), che contiene la memoria inconfutabile e solo a quel punto ci viene snocciolata la sequenza dell’infanticidio, collocata a metà tra la fotografia surreale degli incubi sciorinati lungo tutto il film.

Nonostante le modalità classicamente bianche dell'intercalare affiorano felici isole di blues. Non soltanto le note costantemente presenti nella banda sonora (altro film da leggere anche a occhi chiusi, lasciandosi cullare da una ballata lunga tre ore, dove anche le cantilene per bambini sono in the mood), o l’accenno ai momenti "dark", intesi come oscuri e paurosi, dai quali far affiorare parte delle sensazioni trasmesse dalla musica blues (che forse trae invece le sue componenti calde dal bisogno di rassicurazione insito in quei retaggi paurosi del periodo più buio delle persecuzioni), ma anche quello che dà il ritmo a tutto l'intercalare lentissimo – mai noioso – del montaggio, risalendo fino a quelle due sequenze incentrate su Baby Suggs, la vecchia predicatrice, basate sulle due esortazioni: "Love your body", in omaggio a tutte le trame suppurate sulla schiena di cicatrici incise da frustate inferte all'incinta Sethe, che si porta sul dorso un albero di ciliegio selvatico (bellissima immagine di forza, ribellione, indicibili sofferenze e cocciuta determinazione) e ai piedi enfiati dal troppo camminare; "Love your heart" è l'estrema intonazione che la bellissima vecchia lascia in eredità all'intera comunità ("Let men come" messianico invito, che come in un sabba liturgico e molto pio spinge a lasciare che gli adulti vengano a lei) riunita in circolo in un bosco inondato di una luce ocra, preludio ad un breve periodo di libertà soffocato nel sangue , illuminato da sfumature diffuse dal ricordo di infinite stampe d'epoca; l'effetto pànico di quel ballo circolare consente ai neri di riappropriarsi di se stessi, liberi. Something Wild non è scomparso, solo si è trasformato in una bellissima figura che irrompe nella mestizia di una casa segnata non solo dalle turpitudini dei bianchi, ma pure dei neri, che sicuramente possono capire, eppure non possono perdonare il gesto distruttivo, benché l'omicidio sia stato compiuto come negazione del sopruso degli schiavisti, venuti a rivendicare il possesso dei giovani figli di Sethe, per strapparli alla madre, che in uno slancio di lucida follia si ribella nell'unico modo terribile consentitole. Però il passato ritorna e può essere solo uno scherzo di una mente suggestionata, oppure davvero la giovane molto strana, che emerge dal fiume – da dove era nata in una sequenza memorabile di parto acquatico sul grande fiume che vediamo solcato da Steam-boat degno di Old Man River, stranamente non inserito da Van Peebles nel suo elenco di spezzoni di negritudine vilipesa dalla supremazia bianca – carica di insetti e ricordi strani, è revenant perché quel passato continui a tornare: "Tell me" è il suo intercalare, bisognosa di storie, racconti conosciuti che danno struttura alle insinuazioni della memoria nel presente. Inserti attribuiti ad un narratore sempre diverso attraverso i quali si ricostruisce l'antefatto. La genialità sta nell'averli costruiti come frammenti di sensazioni, visioni, incubi che si staccano per la loro incompiutezza dal resto del film lineare, andando a costituire il lato "selvaggio".