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Cantando dietro i paraventi
Anno: 2003
Regista: Ermanno Olmi;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 09-11-2003


Maledizione della prima luna - Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl - Recensione - NearDark - Critica e recensioni

Ermanno Olmi

Cantando Dietro
I Paraventi

Pacifismo estetizzante o superamento dei conflitti nell'abbraccio con il potere? Perdono e concertazione
«Il primato del confronto tra le forze deve essere del pensiero»
«Ognuno è quel che è, noi siamo quel che siamo e ciascuno faccia quel che deve»






 



Regia:  Ermanno Olmi
Sceneggiatura:  Ermanno Olmi (da un poema di Yuentsze Yunglun, La piratessa Ching
Fotografia:  Fabio Olmi
Montaqgio:  Paolo Cottignola
Scenografia:  Luigi Marchione
Musica:  Han Yong
Costumi:  Francesca Sartori

CAST

Interpreti: Bud Spencer, Jun Ichikawa, Sally Ming Zeo Ni, Camillo Grassi, Makoto Kobayashi, Yang Li, Guang Wen Li



Produzione: Cinemaundici, Raicinema, Lakeshore, Pierre Grise
Distribuzione: Mikado
Durata: 100'
Anno: 2003
Nazione: Italia, GB, Francia

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Spirito d'Oriente

Estetizzante, una festa per gli occhi di un amante dello spettacolo, come non apprezzare le forme statuarie esibite in una sontuosa nudità sul palco che fa della pirateria una storia al femminile, liberando le donne dal consueto ruolo di merce razziata e stuprata, esibita in raffinati pizzi e merletti, come la caricatura che ne fa Gore Verbinski in La maledizione della prima luna; persino nel momento in cui l'imbonitore del teatrino ne enumera promesse di piaceri e peccaminose immagini, la donna spicca come indipendente figura che si autodetermina e comanda, anche attraverso il suo corpo, ritratto in pose gradevoli senza diventare sfruttamento sessuale. Un uso improprio degli oggetti, che trovano spazio in un luogo - il teatro, ripensato con maestria, adattandolo al cinema e non viceversa - che li espropria della loro destinazione non solo d'uso, ma anche formale, per conferire uno spessore mentale, dove le gabbiette, gli strumenti musicali, i cuscini e gli addobbi sono rappresentazione di immagini mentali collettive, imprecise, anzi frutto dell'ignoranza dell'occidente, ma condivise: l'Idea di Oriente.


Visto da Occidente

L'Idea occidentale di ricostruzione dell'ides di oriente, a partire da noi. E quindi anche qui inserimenti di spezzoni in bianco e nero che ci confortano perché precipitati nel nostro patrimonio culturale a dimostrare un trend del periodo e anche che siamo di fronte a un percorso politico almeno quanto quello dei film che abbiamo raggruppato nell'editoriale. I livelli di semantizzazione del film di Olmi sono molteplici, proprio per confonderli: le fantasie di un giovane dubbioso e capitato in una fumeria, dove immagina uno spettacolo teatrale, che dice di mettere in scena il mondo dei pirati sotto un punto di vista particolare, da cafè chantant, ma poi si affida a un narratore che è coinvolto nella storia, vicino eppure così teatrale in virtù di quel grammelot di lingue, che rimanda ai romanzi di Michele Mari (La stiva el'abisso)... Tutto affascinante, tutto intravisto dietro a paraventi (per lo più giapponesi) che sottolineano la consapevolezza di essere in grado di cogliere solo una minima parte di quella cultura, ma allora perché uscire dal generico, dall'indefinito per inserire un riferimento forte ai soldati di terracotta, senza paraventi né filtri occidentali? In questo si svela la parte nascosta dell'approccio alla materia: finché rimaniamo nel generico sta bene che i riferimenti all'oriente siano approssimativi, falsi (di nuovo spunta la falsità che sottende l'operazione di manutenzione della memoria e che di nuovo propone il nodo wellesiano mai sciolto), perché apparato cinematografico, reso veridico dalla sua appartenenza a quell'ambito spettacolare; ma quando si introducono pezzi autentici di storia, il richiamo comincia a stridere, per la forte valenza simbolica di quegli oggetti, che appunto sono già caricati di significati: una patina impossibile da rimuovere e che lo spettacolo non può introiettare spostandone la destinazione d'uso.


Dunque anche in questo film si trova il rimando all'immaginario filmico che sostiene l'epico immaginario di Olmi - come il nostro -, il quale riesce a fondere una labile storia con il mito personale; confusione di elementi rubricati sotto cineserie e bric a brac di oggetti e immagini poetiche; qui e là eventi realmente accaduti come una delle tante deportazioni di massa della storia cinese (bellissima la lunga fila di profughi lungo le pendici delle montagne ha qualcosa del vecchio Herzog) e riferimenti a eventi significativi della storia, che hanno fatto da spartiacque tra un sistema di equilibri e un altro da inventare: in Il mestiere della armi il momento clou è il 1526, un modo diverso di combattere e di intendere la politica, qui è il 1797, Campoformio, Napoleone, un rapporto diverso con il potere... e di nuovo con le armi: quei cannoni enormi, spropositati a dare l'unità di misura delle forze in campo replicano le colubrine del precedente rinascimentale. Di nuovo si parla di un luogo e un tempo per trovare tracce dell'attualità, come non vedere Berlusconi dietro quella tirata sul potere al servizio di se stessi tipico di certi farabutti, non certo degni di esercitarlo con quella autorevolezza a tratti divina invece propria dell'imperatore? Però proprio per questo il discorso si fa pericoloso e nel finale diventa allarmante con quegli angeli-aquiloni che portano la lieta novella in un modo troppo accattivante per non venire accettato di primo acchito, ma i prodromi di questo messaggio sussiegoso nei confronti del potere, o per lo meno non antagonista, è annunciato dalla frase pronunciata due volte (che vorrebbe echeggiare la saggeza cinese, ma che già trova in Makhmalbaf una risposta recitata dalla sua tradizione parsi). La frase su cui Olmi insiste pericolosamente abbraccia un'unicità presunta della verità: "La verità è in ogni specchio d'acqua, ma la verità è una sola"

La struttura ripropone l'incastro narrativo del film precedente. Pietro Aretino viene sostituito da Bud Spencer: anche nel suo caso si finge una testimonianza oculare e gli viene conferita un'aura anche maggiore, derivante dalla tradizione di racconti della filibusta, che entra in quanto narrazione nel film, mentre ad esempio in quello interpretato da Depp l'autore rimane inespresso se non nell'ironia del personaggio, lasciando spazio agli eventi, che qui invece trovano plus valore dal fatto di essere narrati; insomma i fatti sono innanzitutto racconto tramandato e questo spessore diventa affabulazione suggestiva, un omaggio alla capacità di rappresentazione magica del teatro. Tanto che la nave non è solo duplicata sul palco, ma con un prodigio diventa giunca autentica che galleggia davvero e va all'arrembaggio (una sola volta, perché il film è pacifista), pur rimanendo comunque "idea di nave" ancorata al palcoscenico.
Come intendere altrimenti quelle riprese del narratore a fianco della sua eroina sul cassero dietro al cannoncino ripreso dal basso, se non un reticolo di quinta scenica?

Tuttavia non solo il narratore è inserito come stereotipo capace di porgere il punto di vista frapponendosi tra la materia grezza della storia e lo spettatore, ma anche quest'ultimo si trova rappresentato sullo schermo: il modello richiesto è quello dello studente smarrito, probabilmente indeciso sul giudizio da dare sulle imprese sanguinarie e soprattutto sulla sfida al potere. Questi è relegato dietro il paravento e di lì recepirà l'intera epopea. Passivamente: uno studente a lezione.


Il lavoro di Olmi a ogni livello è volto a eliminare distinzioni forti, divisioni, distinguo, insomma cancella ogni possibilità di conflitto: svanisce la divisione cinema/teatro; quella tra narratore e attore; quella tra potere e ribellione; quella tra castigo e perdono, risolta da un credente in modo pacifista prima ancora che religioso. La forma dunque al servizio del contenuto che si riduce al messaggio volto a smussare ogni contrasto, sottrarre terreno alle contrapposizioni persino in ambito bellico, eliminare le opposizioni: infatti ogni modo di procedere per coppie oppositive (tanto care ai filosofi francesi) vengono meno e ci si affida a risoluzioni prese al chiaro di una lanterna (rossa, ovviamente), o rileggendo il messaggio sull'aquilone che lascia esterefatti per la suggestione - anche se ha poco a che fare con la fantasia degli aquiloni cinesi. Colombe afflosciate sulla chiglia, latori di un estremo messaggio di pace, albatros malati stesi nel buio di una cabina a decantare la proposta di un nuovo accordo. Che però è una capitolazione, è un'accettazione della strapotenza del potere e del suo diritto a imporsi; certo smussato dalla bellezza (gli aquiloni) e dalla benevolenza (il perdono, opzione scelta sul castigo).

A questo assunto fa seguito tutto il resto: tutte le fascinazioni, le musiche che si mescolano, le culture, tutto coabita pacificamente. Dai taxi inglesi al seppuku giapponese: a sancire una non appartenenza a categorie, nazionalismi, tradizioni standardizzate in modo che nel calderone della narrazione per eccellenza - quella dei pirati - trovano spazio silenzi, bonaccia, parodia, che serve a eliminare il possibile giudizio messo alla berlina come criterio, come atteggiamento mentale, qualunque processo dopo quella messa in scena che è sberleffo nella più pura tradizione del teatro di strada (seppure ripreso sul palcoscenico) non ha più legittimazione, è davvero sancire la distanza dalle possibili lotte, perché gli universi non si compenetrano: il potere giudiziario agisce secondo criteri non riconosciuti dai pirati e dalla mise en abîme del giudizio in avanti non ci sarebbe alcun modo di comporre la questione: una risata potrebbe davvero seppellire le istituzioni oggetto di lazzi del popolo.


Rimane un potere superiore, l'imperatore di fronte al quale si recede da qualsiasi lotta, resistenza e ci si confonde in un unico afflato. Cooptazione e annullamento all'interno del grande abbraccio misticheggiante.


Olmi trascorre dalla agonia di un mondo superato e reso obsoleto da una cancrena interna che lo consuma, alla battaglia che non c'è, che è negata, disinnescata in extremis - una speranza fantascientifica finché esisteranno Bush, Blair, Sharon e i loro fantocci, come Berlusconi e Aznar - ma che condiziona un nuovo passaggio epocale anche e forse ancora di più per l'aver evitato il divampare del conflitto.
Negare il principio oppositivo conduce a una pace universale assicurata da un centro bonario e terribile per capacità di potenza, una nuova edizione del paternalismo, che trova i suoi punti di forza nell'immobilità maestosa e nel silenzio assordante: la parata di navi immobili alla fonda sono preparate dall'immobilità solenne datata millenni dai soldati di terracotta di Qing e su quelli si uniformano le scansioni dei tempi, i ritmi teatrali e dei movimenti, persino gli ordini per la manovra (alcuni surreali, come il comando relativo al bompresso, un albero non previsto su quelle giunche) trovano una modulazione meno concitata, le pause narrative che lasciano scrutare i mille oggetti che ingombrano lo schermo sia nella cabina della nave, sia nell'immaginario (e mai esibito se non nella stilizzazione teatrale, perché "inimmaginabile") palazzo imperiale: tutto è regolato su quella posata severità dei soldati.

Una scelta questa funzionale a conferire suggestione al racconto, ma anche improntata alla sospensione graduale degli eventi, in quella bonaccia irreale che deriva da infinite situazioni letterarie, pronte a dare libero sfogo alle soluzioni più pirotecniche, dove lo scontro tanto a lungo preparato risulta più spettacolare proprio per il fatto che è scardinato alla fine. Si sottrae l'esplosione bellica, ma non per imploderla, bensì per deviarla su binari sorprendenti e altrettanto dirompenti.


Insomma un'opera realizzata con un mestiere ammirevole e con una capacità narrativa invidiabile; certo al servizio di un messaggio ambiguo: condivisibile nel suo pacifismo, da rifiutare nella soluzione estrema di adesione al potere perché è il migliore possibile quando mostra la sua faccia bonaria e salvifica, un atteggiamento mistico e paternalista ammantato di grande visionarietà e afflati di libertà schiettamente popolare, sempre che la sua volontà non ponga in discussione quella superiore, divina e imperiale.