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Il Miracolo
Anno: 2003
Regista: Edoardo Winspeare;
Autore Recensione: paola tarino
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 18-09-2003


Edoardo Winspeare - Il Miracolo

Edoardo Winspeare

Il Miracolo






 



Regia:  Edoardo Winspeare
Sceneggiatura:  Giorgia Cecere, Pierpaolo Pirone
Fotografia:  Paolo Carnera
Montaqgio:  Luca Benedetti
Musica:  Cinzia Marzo, Donatello Pisanello
Costumi:  Maria Giovanna Caselli

CAST

Interpreti: Claudio D'Agostino, Stefania Casciaro, Carlo Bruni, Anna Ferruzzo, Angelo Gamarro, Rosario Sambito

Produzione: Sidecar
Distribuzione: 01 distribuzione
Durata: 92'
Anno: 2003
Nazione: Italia

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Miracolo a... Taranto

Il secondo incontro di Claudio e Stefania
Regia: Edoardo Winspeare, Italia, 2003, 93'
Interpreti principali: Claudio D'Agostino, Stefania Casciaro

Abita un territorio "transizionale" il ragazzino protagonista del film di Edoardo Winspeare: un regista battente bandiera magiara, inglese e salentina (anch'egli in transito dal ceppo paterno inglese a quello materno mitteleuropeo, seppur radicati da alcune generazioni nel profondo sud; in realtà proveniente da Depressa, paesino difficile da rintracciare sulle carte geografiche, perfino gironzolando nei paraggi di Tricase), impegnato nella sua terza prova, dopo Pizzicata e Sangue vivo. Tonio si trova a vivere in una zona di passaggio tra una realtà psichica tutta sua, seppur determinata da un fenomeno esterno accidentale, un al di là che gli ha permesso di incontrare la  "luce" irradiante, e un universo alieno, popolato da adulti, deformati dall’idolatria consumista, capaci di vedere i miracoli laddove non esistono, inventandoli al punto tale da scomodare anche i giornalisti romani del Tg 2, decisi ad abbandonare seggiole e spostare telecamere, pur di riprendere in diretta "l’unto dalla luce", da trasformare in protagonista del solito scoop quotidiano. Ma questa luminosità irreale, spesso metafisica, scontrandosi con le aurore e i tramonti di una città autentica come Taranto, qui immortalata in squarci portuali suggestivi (viene voglia di immergersi nelle sue acque come fa il ragazzino durante il bagno), rivela le sue cromie maggiormente fittizie, tanto che non avviene miracolo alcuno, se non nel nitrato d’argento della pellicola, che si assume la responsabilità di congelare un sapiente gioco di sguardi, che, mettendo fine a propositi sciagurati, lascia spazio ad altre vite immaginarie, dove sognare il miracolo e credere alla sua virtù riparatrice può rappresentare un’occasione laica intelligente, per evadere filmicamente da un tessuto umano desolato e squallido.
Tonio abita inoltre lo stesso territorio di
Domenica, seppur illustrato in altre contrade da Wilma Labate, e anche quello frequentato da Michele Amitrano in Io non ho paura di Gabriele Salvatores: tre ragazzini del sud d’Italia accomunati da una volontà tenace - perché ingenua e innocente - di liberare l’umanità da quel triste fardello interno di mostri che soffocano l’esistenza, ora imprigionandola a scopo di lucro, ora condannandola a morte o a suicidio disperato, perché altri risultano i valori da perseguire. Questi ragazzini, anfibi tra il mondo di qui (fatto di pareti domestiche, spelonche, orfanotrofi, porzioni di strada) e quello che sta di là (immaginato come l’isola che non c’è o il paradiso), hanno la capacità di offrirci uno sguardo disincantato e al contempo giudice delle nostre coscienze: i loro occhi testimoni non possono chiudersi di fronte agli eventi, facendo finta di non accorgersi di nulla. Hanno visto e, proprio in virtù di questo sguardo vigile, possono assumersi il compito di registrare cosa accade per dare un senso nuovo e diverso al racconto attraversato.
Tonio e Michele hanno in comune anche una caduta, un incidente che li aiuta a slittare verso l’al di là, nascosto dentro le grotte dell’animo umano, dopo la quale nulla sarà più come prima: il primo, avvolto in una luce falsamente carismatica, imparerà ad appoggiare le mani per lenire sofferenze interiori, instaurando una sana complicità con la ragazza che lo ha travolto in automobile, mentre lui girava spensierato in bicicletta, o rallentando l’agonia di un anziano operaio dell’Ilva, che morirà per colpa dell’acciaio cancerogeno, ma sopravviverà nel ricordo di chi gli ha voluto bene in una lacrima prolettica dell'apoteosi contenuta in quell'altra lacrima dell'epilogo; il secondo, conoscendo la malvagia cupidigia di chi è capace di sequestrare un bambino per ricattarne i genitori, imparerà a farsi coraggio e a sfidare le regole di un microcosmo spietato per far prevalere il senso di giustizia e di fraternità. Dobbiamo essere grati a questi giovani dallo sguardo profondo e dai gesti riparatori, non perché incarnano il giusto, né hanno la presunzione di sentirsi dalla parte della verità, ma perché si fanno portatori di affetti, proprio quando questi diventano latitanti in chi è deputato a educarli. La zona di confine tra ciò che è innato e ciò che è acquisito infonde loro un’energia completamente nuova, che li porta a schierarsi dalla parte di chi è debole, perdente, emarginato, o soltanto "indeterminato".

Dettagli, campi e controcampi

La vicenda toccante prende le mosse dal panorama di Taranto, vista attraverso lo sguardo annoiato del ragazzino che si diverte a lanciare sputi dal suo balcone, mentre il fumo in aria, facendosi spazio tra le nuvole, denuncia la presenza non solo dell'inquinamento tipico dei grandi agglomerati, costruiti in fretta e furia durante il miracolo economico, ma soprattutto delle ciminiere dell'Ilva, che spompano i polmoni e avvelenano lo stomaco di chi è costretto a frequentarle. Poi la macchina da presa si sposta a mostrare un altro volto della città, quello occupato dal mare e dal porto: una luce, stavolta solare, rinfranca lo sguardo, che si ossigena, perdendosi in una gamma di colori mediterranei.
Tonio abita un appartamento confortevole di una zona residenziale e la sua famiglia non rappresenta certo il solito stereotipo dei poveri del sud d'Italia, bensì il campione della media borghesia che potremmo trovare in qualsiasi altra città del mondo occidentale.
Che si tratti del Salento, lo si scopre soltanto attraverso la battuta del ragazzino che, abbandonati i giochi salivari, si mette ad inseguire il padre, che sta uscendo in macchina dal garage, redarguendolo con: "L'hai scesa la bicicletta?". Di fronte al diniego paterno, egli risponde tristemente con un'altra negazione, rifiutandosi di aprirgli il cancello. Con uno stratagemma Tonio riesce comunque a far "scendere" la bicicletta da solo, la inforca e si mette a correre incurante del traffico, fino a raggiungere una strada meno battuta, che forse lo porterà verso il mare. Una sterzata improvvisa e un rumore di ferraglie anticipano la sequenza dell'incidente: una geniale prolessi sonora mai risolta in una palese ripresa dell'urto, trasformandola in una ellissi visiva riempita dal fragore di lamiere, che lascerà in seguito il posto al ritmo, prima lento e poi man mano andante con moto, della taranta. È questo un commento "pizzicato" in mezzo alla colonna visiva in grado di restituire non solo l'aria musicale più nota del Salento, bensì la dimensione emotiva dei personaggi, che si fanno prendere per mano dapprima dalle note e solo in seguito dalle loro azioni.
"Il ritmo della pizzica infatti è soprattutto vincolo comunitario, cordone ombelicale che porta direttamente alle proprie radici, alla trance terapeutica. Dietro la storia un suono, dietro un suono una vita da vivere e il giusto ritmo per curarla e scacciarne le peggiori influenze con il canto" (così scrive Luca Perini a proposito del film Sangue vivo, in Colori e canti in tranche, «il manifesto», 31 maggio 2000).
L'uso che fa Winspeare della taranta (presente anche nelle sue opere precedenti, le cui onde sonore sono prodotte sempre dall'Officina Zoè - in greco zoé significa "esistenza" -, che hanno avviato un vero e proprio movimento-revival della tradizione mediterranea) è davvero speciale, tanto che si è portati ad ascoltarla come fosse un personaggio a sé, una sorta di io narrante dalle sonorità impalpabili e al contempo impetuose, ritmate da un crescendo convulso, struggente, ripetitivo. Quando il regista decide di adoperarla non è mai "musica fuori scena", perché fa parte integrante della composizione dell'inquadratura, che finisce per essere anch'essa "tarantolata", ossia posseduta da uno strano spirito, come la luce vista da Tonio dopo l'incidente: una luminescenza shining che si irradia nello spazio e lo contamina, avvolgendolo in un'atmosfera da trance, come fa la taranta con il tempo.
L'ascolto della colonna sonora vale da solo la spesa del biglietto: la sua eco rimane impigliata nell'intervallo tra un fotogramma e l'altro, soprattutto nella sequenza della processione o in quella conclusiva, dove trionfa la sua dimensione di oscuro sottofondo di un battito terapeutico. Ma anche dal punto di vista della regia Winspeare ci sa fare, specialmente nell'uso dei dettagli e in certi campi e controcampi alternati, dove riprese oggettive trapassano (senza dissolvenza alcuna, ma con sovrapposizioni) in false soggettive dei personaggi. Ad esempio nella sequenza dell'incidente si vede la bici che affronta la curva e un'automobile che avanza in senso contrario, la macchina da presa, opportunamente impallata da un muro che nasconde "pietosamente" la scena raccapricciante, cambia subito posizione, scendendo quasi ad altezza zen, per mostrare dapprima il veicolo a due ruote in primo piano per poi andare a scoprire il ragazzino steso esanime sull'asfalto, mentre in lontananza si intravede la sagoma della vettura: un punto di vista esterno accompagnato dall'anticipazione sonora, a cui fa seguito dapprima il dettaglio della bocca, poi quello delle dita sporche di sangue e infine quello degli occhi di Tonio, per lasciare immediatamente il posto alla fessura di una palpebra, aperta solo a metà, attraverso la quale il bambino - e noi attraverso il suo sguardo - guarda sia la luce che l'ha investito, sia la sua investitrice, che nel frattempo si china su di lui, per controllare se sia ancora vivo, percepita come attraverso una patina che divide i due mondi.

Sopravvissuto all'incidente, il ragazzo è posseduto dalla luce: ha picchiato la testa nell'urto, ma si direbbe sia stato in realtà pizzicato dalla taranta, che raccoglie terra e umori, cadenze di un'inquietudine transgenerazionale che ancora oggi coinvolge le energie grecaniche, non solo quelle della Puglia tarantata. La trance cinematografica lo conduce a seguire il destino della giovane Cinzia che lo "morde", investendolo, e poi lo abbandona, costringendolo a una degenza ospedaliera, dove la presenza della sofferenza e della morte rappresentano una sfida per la sua "fantasia malata", come asserisce la madre che si convince che, dopo l'incidente, il figlio abbia contratto
virtù terapeutiche particolari, al punto da pensare di avere in casa una specie di santo, degno allievo di Padre Pio, da vendere come fenomeno alla stampa e alla televisione.

Fuori dal miracolo: il mondo dei grandi

Da quel momento in poi gli adulti iniziano seriamente a credere ai suoi poteri (ad eccezione del prete, che gli consiglia di divertirsi e di svagarsi giocando all'oratorio, e del padre che rimane scettico, non perché esente da superstizioni popolari, ma in quanto impegnato a sbarcare il lunario con altri intrallazzi, altrettanto incresciosi, comunque alla fine capisce l'antifona e provvede a riparargli la bicicletta rovinata), persino un compagno credulone si lascia irretire da questa possessione e spera ardentemente che l'unto dalla luce possa miracolare l'anziano nonno, malato terminale, ucciso da una vita di lavoro dedicata all'acciaio. Il ragazzo non possiede carismi straordinari: l'anziano "crede di campare", però si tratta di una vitalità passeggera destata dall'interessamento del giovane nei suoi confronti, che, involontariamente, l'aiuta ad affrontare la morte con una dignità rinnovata; il peso sullo stomaco sembra sparire per alcuni giorni, grazie all'imposizione di mani giovani che infondono un'energia primordiale, in realtà la malattia galoppa inarrestabile - come il male di vivere che si aggira, pericoloso e onnipotente come la tarantola - a sancire la fine di un sortilegio, a cui aveva iniziato a credere persino lo stesso Tonio, miracolato e degno di un ex-voto, a sua volta portatore di via di fuga salvifiche.

Credo che campo

Allora la pellicola comincia a pulsare con un ritmo inconsueto, che non è dato solo dal montaggio, perché possiede in sè la capacità di affondare in stratificazioni sempre più profonde; il miracolo filmico consiste nel mettere sulla stessa strada e sulla medesima banchina del porto due anime incomprese e pertanto considerate fuori dal normale: l'una, incarnata da Cinzia, scorbutica pirata della strada, ma poi rea confessa di fronte al ragazzino, che deve comunque imparare a non fidarsi di lei, in quanto giovane irrequieta, indurita dalla vita, anche perché abbandonata da una madre troppo egoista per occuparsi di altri da sè; l'altra innocentemente assunta a giocare il ruolo di dispensatrice di proprietà taumaturgiche inesistenti. Metaforicamente morsicati dalla tarantola, i due protagonisti finiscono con l'annusare il benefico veleno che contemporaneamente alberga nei loro cuori, che verranno sottoposti a una sorta di rito di liberazione conclusiva, facendo nuovamente esplodere la vocazione terapeutica della musica, Correndo in mezzo a una processione di incappucciati bianco vestiti, durante una consueta celebrazione religiosa, mostrata in collisione con una civiltà intrisa di tribalismo contadino, Tonio arriva in tempo per sottrarre dall'attrazione del suicidio la ragazza affranta, che, dopo aver distrutto gli arredi dell'alloggio al ritmo della taranta, a sua volta si distende in un pianto liberatorio. Allora il miracolo sta racchiuso in una lacrima e non nei fiumi di acque benedette delle madonnine acquistate a Lourdes!?

Lacrime miracolose

La chiave di accesso dell'intero film risiede nella cultura salentina e nei riti da essa convogliati nella pizzica: esiste la pizzica di cuore, tra uomo e donna, la pizzica-scherma, tra due uomini che mimano un duello mortale con i coltelli, e la pizzica tarantata, che riproduce le movenze dell'amore e della morte. In questo caso l'amore avrà la meglio sulla fine precoce dell'esistenza. Sarà questo merito di San Cataldo (come esibisce ironicamente la scritta dei titoli di coda del film, in realtà dedicato al padre del regista)?

Da un’intervista al regista tratta dal quotidiano «il manifesto» (settembre 2003 - LX  Biennale di Venezia):
«"Credo di aver contribuito con gli altri a fare un film non bruttissimo, ma non nego di essere stato molto insicuro in questi giorni". Edoardo Winspeare tira un sospiro di sollievo. Il pubblico dei critici ha accolto sostanzialmente bene il suo Miracolo e questo è un primo scoglio superato. "Avevo paura soprattutto di cadere in qualche cliché, e per questo il film lo abbiamo molto asciugato rispetto alla prima sceneggiatura. Inizialmente era un film molto più tenero, e anche l’aspetto del miracolo era trattato in modo più ampio. Per esempio gli effetti speciali dovevano essere sei, e invece ne è rimasto uno solo, e la scelta della fotografia è andata nella stessa direzione". Una necessità di sottrarre dettata da rischio di eccessi sentimentali e non solo. "Se volete è un film contro il miracolismo alla Padre Pio – dice – in difesa di una idea laica di miracolo realizzato attraverso l’amore. Io credo che quando c’è un amore autentico, una vicinanza affettiva, è anche possibile che si sprigioni una energia capace di cambiare le cose. Forse per questo chi ha lavorato con me dice che sono un cristiano credulone". L’idea era quella di realizzare un film duplice. "Volevo che fosse un film d’autore, ma anche un film popolare e questo credo di essere riuscito a realizzarlo". Ma per Winspeare contava anche il luogo. "La cosa che volevo fare era un film su Taranto, la storia è venuta dopo. Taranto è per me una città molto bella e molto ferita, la conosco bene, come tutta la Puglia e volevo girare lì". Mostrando però una Taranto a due facce.
"Non volevo mostrare il solito sud povero o malavitoso. Ho mostrato la borghesia, la stratificazione sociale di una città banalmente occidentale, e in questo senso la storia avrebbe potuto essere una qualsiasi, anche a New York". Però Taranto è un valore aggiunto – dice Winspeare – e in effetti un posto importante ce l’ha la processione pasquale. "Io amo le processioni, le ho messe in tutti i miei film, e in quella di Taranto mi colpisce il silenzio, la dignità. Però a Taranto anche i punkabbestia stanno lì con la mano sulla statua della Madonna e aspettano che il miracolo arrivi, mentre io volevo mostrare un’altra cosa.
Non a caso il ragazzo risale controcorrente la processione, va in un’altra direzione, e in questo modo riesce a salvare la ragazza". E non solo. "Il bambino in fondo è anche quello che salva il padre, col suo agire lo fa pensare e alla fine anche lui, che inizialmente sembra irrecuperabile capisce cosa sta facendo". Dunque l’azione contro l’attesa? "Sì, Taranto vive di attesa, per esempio attende che le acciaierie chiudano perché i tarantini sanno che provocano il cancro, ma contemporaneamente sanno anche che le acciaierie son ciò che dà loro da mangiare. E di fronte a questo aspettano una sorta di miracolo". Che invece può venire solo se si fa qualcosa. Anche con la musica. "Se nel mio cinema la musica è importante – dice Winspeare – è anche per questo, perché nella taranta c’è una vitalità che contrasta con la passività"».

Saluti da Taranto