Regia: Edoardo Winspeare, Italia, 2003, 93'
Interpreti principali: Claudio D'Agostino, Stefania Casciaro
Abita un territorio "transizionale" il ragazzino protagonista
del film di Edoardo Winspeare: un regista battente bandiera magiara, inglese e salentina
(anch'egli in transito dal ceppo paterno inglese a quello materno mitteleuropeo, seppur
radicati da alcune generazioni nel profondo sud; in realtà proveniente da Depressa,
paesino difficile da rintracciare sulle carte geografiche, perfino gironzolando nei
paraggi di Tricase), impegnato nella sua terza prova, dopo Pizzicata e Sangue
vivo. Tonio si trova a vivere in una zona di passaggio tra una realtà psichica tutta
sua, seppur determinata da un fenomeno esterno accidentale, un al di là che gli ha
permesso di incontrare la "luce" irradiante, e un universo alieno,
popolato da adulti, deformati dallidolatria consumista, capaci di vedere i miracoli
laddove non esistono, inventandoli al punto tale da scomodare anche i giornalisti romani
del Tg 2, decisi ad abbandonare seggiole e spostare telecamere, pur di riprendere in
diretta "lunto dalla luce", da trasformare in protagonista del solito
scoop quotidiano. Ma questa luminosità irreale, spesso metafisica, scontrandosi con le
aurore e i tramonti di una città autentica come Taranto, qui immortalata in squarci
portuali suggestivi (viene voglia di immergersi nelle sue acque come fa il ragazzino
durante il bagno), rivela le sue cromie maggiormente fittizie, tanto che non avviene
miracolo alcuno, se non nel nitrato dargento della pellicola, che si assume la
responsabilità di congelare un sapiente gioco di sguardi, che, mettendo fine a propositi
sciagurati, lascia spazio ad altre vite immaginarie, dove sognare il miracolo e credere
alla sua virtù riparatrice può rappresentare unoccasione laica intelligente, per
evadere filmicamente da un tessuto umano desolato e squallido.
Tonio abita inoltre lo stesso territorio di Domenica, seppur illustrato in altre contrade da Wilma Labate, e anche quello
frequentato da Michele Amitrano in Io non
ho paura di Gabriele Salvatores: tre ragazzini del
sud dItalia accomunati da una volontà tenace - perché ingenua e innocente - di
liberare lumanità da quel triste fardello interno di mostri che soffocano
lesistenza, ora imprigionandola a scopo di lucro, ora condannandola a morte o a
suicidio disperato, perché altri risultano i valori da perseguire. Questi ragazzini, anfibi
tra il mondo di qui (fatto di pareti domestiche, spelonche, orfanotrofi, porzioni di
strada) e quello che sta di là (immaginato come lisola che non cè o il
paradiso), hanno la capacità di offrirci uno sguardo disincantato e al contempo giudice
delle nostre coscienze: i loro occhi testimoni non possono chiudersi di fronte agli
eventi, facendo finta di non accorgersi di nulla. Hanno visto e, proprio in virtù di
questo sguardo vigile, possono assumersi il compito di registrare cosa accade per dare un
senso nuovo e diverso al racconto attraversato.
Tonio e Michele hanno in comune anche una caduta, un incidente che li aiuta a slittare
verso lal di là, nascosto dentro le grotte dellanimo umano, dopo la quale
nulla sarà più come prima: il primo, avvolto in una luce falsamente carismatica,
imparerà ad appoggiare le mani per lenire sofferenze interiori, instaurando una sana
complicità con la ragazza che lo ha travolto in automobile, mentre lui girava spensierato
in bicicletta, o rallentando lagonia di un anziano operaio dellIlva, che
morirà per colpa dellacciaio cancerogeno, ma sopravviverà nel ricordo di chi gli
ha voluto bene in una lacrima prolettica dell'apoteosi contenuta in quell'altra lacrima
dell'epilogo; il secondo, conoscendo la malvagia cupidigia di chi è capace di sequestrare
un bambino per ricattarne i genitori, imparerà a farsi coraggio e a sfidare le regole di
un microcosmo spietato per far prevalere il senso di giustizia e di fraternità. Dobbiamo
essere grati a questi giovani dallo sguardo profondo e dai gesti riparatori, non perché
incarnano il giusto, né hanno la presunzione di sentirsi dalla parte della verità, ma
perché si fanno portatori di affetti, proprio quando questi diventano latitanti in chi è
deputato a educarli. La zona di confine tra ciò che è innato e ciò che è acquisito
infonde loro unenergia completamente nuova, che li porta a schierarsi dalla parte di
chi è debole, perdente, emarginato, o soltanto "indeterminato".
La vicenda toccante prende le mosse dal panorama di
Taranto, vista attraverso lo sguardo annoiato del ragazzino che si diverte a lanciare
sputi dal suo balcone, mentre il fumo in aria, facendosi spazio tra le nuvole, denuncia la
presenza non solo dell'inquinamento tipico dei grandi agglomerati, costruiti in fretta e
furia durante il miracolo economico, ma soprattutto delle ciminiere dell'Ilva, che
spompano i polmoni e avvelenano lo stomaco di chi è costretto a frequentarle. Poi la
macchina da presa si sposta a mostrare un altro volto della città, quello occupato dal
mare e dal porto: una luce, stavolta solare, rinfranca lo sguardo, che si ossigena,
perdendosi in una gamma di colori mediterranei.
Tonio abita un appartamento confortevole di una zona residenziale e la sua famiglia non
rappresenta certo il solito stereotipo dei poveri del sud d'Italia, bensì il campione
della media borghesia che potremmo trovare in qualsiasi altra città del mondo
occidentale.
Che si tratti del Salento, lo si
scopre soltanto attraverso la battuta del ragazzino che, abbandonati i giochi salivari, si
mette ad inseguire il padre, che sta uscendo in macchina dal garage, redarguendolo con:
"L'hai scesa la bicicletta?". Di fronte al diniego paterno, egli risponde
tristemente con un'altra negazione, rifiutandosi di aprirgli il cancello. Con uno
stratagemma Tonio riesce comunque a far "scendere" la bicicletta da solo, la
inforca e si mette a correre incurante del traffico, fino a raggiungere una strada meno
battuta, che forse lo porterà verso il mare. Una sterzata improvvisa e un rumore di
ferraglie anticipano la sequenza dell'incidente: una geniale prolessi sonora mai risolta
in una palese ripresa dell'urto, trasformandola in una ellissi visiva riempita dal fragore
di lamiere, che lascerà in seguito il posto al ritmo, prima lento e poi man mano andante
con moto, della taranta. È questo un commento "pizzicato" in mezzo
alla colonna visiva in grado di restituire non solo l'aria musicale più nota del Salento,
bensì la dimensione emotiva dei personaggi, che si fanno prendere per mano dapprima dalle
note e solo in seguito dalle loro azioni.
"Il ritmo della pizzica infatti è soprattutto vincolo comunitario, cordone
ombelicale che porta direttamente alle proprie radici, alla trance terapeutica. Dietro la
storia un suono, dietro un suono una vita da vivere e il giusto ritmo per curarla e
scacciarne le peggiori influenze con il canto" (così scrive Luca Perini a proposito
del film Sangue vivo, in Colori e canti in tranche, «il manifesto», 31
maggio 2000).
L'uso che fa Winspeare della taranta (presente anche nelle sue opere precedenti, le cui
onde sonore sono prodotte sempre dall'Officina Zoè - in greco zoé significa
"esistenza" -, che hanno avviato un vero e proprio movimento-revival della
tradizione mediterranea) è davvero speciale, tanto che si è portati ad ascoltarla come
fosse un personaggio a sé, una sorta di io narrante dalle sonorità impalpabili e al
contempo impetuose, ritmate da un crescendo convulso, struggente, ripetitivo. Quando il
regista decide di adoperarla non è mai "musica fuori scena", perché fa parte
integrante della composizione dell'inquadratura, che finisce per essere anch'essa
"tarantolata", ossia posseduta da uno strano spirito, come la luce vista da
Tonio dopo l'incidente: una luminescenza shining che si irradia nello spazio e lo
contamina, avvolgendolo in un'atmosfera da trance, come fa la taranta con il tempo.
L'ascolto della colonna sonora vale da solo la spesa del biglietto: la sua eco rimane
impigliata nell'intervallo tra un fotogramma e l'altro, soprattutto nella sequenza della
processione o in quella conclusiva, dove trionfa la sua dimensione di oscuro sottofondo di
un battito terapeutico. Ma anche dal punto di vista della regia Winspeare ci sa fare,
specialmente nell'uso dei dettagli e in certi campi e controcampi alternati, dove riprese
oggettive trapassano (senza dissolvenza alcuna, ma con sovrapposizioni) in false
soggettive dei personaggi. Ad esempio nella sequenza dell'incidente si vede la bici che
affronta la curva e un'automobile che avanza in senso contrario, la macchina da presa,
opportunamente impallata da un muro che nasconde "pietosamente" la scena
raccapricciante, cambia subito posizione, scendendo quasi ad altezza zen, per mostrare
dapprima il veicolo a due ruote in primo piano per poi andare a scoprire il ragazzino
steso esanime sull'asfalto, mentre in lontananza si intravede la sagoma della vettura: un
punto di vista esterno accompagnato dall'anticipazione sonora, a cui fa seguito dapprima
il dettaglio della bocca, poi quello delle dita sporche di sangue e infine quello degli
occhi di Tonio, per lasciare immediatamente il posto alla fessura di una palpebra, aperta
solo a metà, attraverso la quale il bambino - e noi attraverso il suo sguardo - guarda
sia la luce che l'ha investito, sia la sua investitrice, che nel frattempo si china su di
lui, per controllare se sia ancora vivo, percepita come attraverso una patina che divide i
due mondi.
Sopravvissuto all'incidente, il ragazzo è
posseduto dalla luce: ha picchiato la testa nell'urto, ma si
direbbe sia stato in realtà pizzicato dalla taranta, che raccoglie terra e umori, cadenze
di un'inquietudine transgenerazionale che ancora oggi coinvolge le energie grecaniche, non
solo quelle della Puglia tarantata. La trance cinematografica lo conduce a seguire il
destino della giovane Cinzia che lo "morde", investendolo, e poi lo abbandona,
costringendolo a una degenza ospedaliera, dove la presenza della sofferenza e della morte
rappresentano una sfida per la sua "fantasia malata", come asserisce la madre
che si convince che, dopo l'incidente, il figlio abbia contratto virtù terapeutiche particolari, al punto da pensare
di avere in casa una specie di santo, degno allievo di Padre Pio, da vendere come fenomeno
alla stampa e alla televisione.
Da quel momento in poi gli adulti iniziano seriamente
a credere ai suoi poteri (ad eccezione del prete, che gli consiglia di divertirsi e di
svagarsi giocando all'oratorio, e del padre che rimane scettico, non perché esente da
superstizioni popolari, ma in quanto impegnato a sbarcare il lunario con altri
intrallazzi, altrettanto incresciosi, comunque alla fine capisce l'antifona e provvede a
riparargli la bicicletta rovinata), persino un compagno credulone si lascia irretire da
questa possessione e spera ardentemente che l'unto dalla luce possa miracolare l'anziano
nonno, malato terminale, ucciso da una vita di lavoro dedicata all'acciaio. Il ragazzo non
possiede carismi straordinari: l'anziano "crede di campare", però si tratta di
una vitalità passeggera destata dall'interessamento del giovane nei suoi confronti, che,
involontariamente, l'aiuta ad affrontare la morte con una dignità rinnovata; il peso
sullo stomaco sembra sparire per alcuni giorni, grazie all'imposizione di mani giovani che
infondono un'energia primordiale, in realtà la malattia galoppa inarrestabile - come il
male di vivere che si aggira, pericoloso e onnipotente come la tarantola - a sancire la
fine di un sortilegio, a cui aveva iniziato a credere persino lo stesso Tonio, miracolato
e degno di un ex-voto, a sua volta portatore di via di fuga salvifiche.
Allora la pellicola comincia a pulsare con un ritmo
inconsueto, che non è dato solo dal montaggio, perché possiede in sè la capacità di
affondare in stratificazioni sempre più profonde; il miracolo filmico consiste nel
mettere sulla stessa strada e sulla medesima banchina del porto due anime incomprese e
pertanto considerate fuori dal normale: l'una, incarnata da Cinzia, scorbutica pirata
della strada, ma poi rea confessa di fronte al ragazzino, che deve comunque imparare a non
fidarsi di lei, in quanto giovane irrequieta, indurita dalla vita, anche perché
abbandonata da una madre troppo egoista per occuparsi di altri da sè; l'altra
innocentemente assunta a giocare il ruolo di dispensatrice di proprietà taumaturgiche
inesistenti. Metaforicamente morsicati dalla tarantola, i due protagonisti finiscono con
l'annusare il benefico veleno che contemporaneamente alberga nei loro cuori, che verranno
sottoposti a una sorta di rito di liberazione conclusiva, facendo nuovamente esplodere la
vocazione terapeutica della musica, Correndo in mezzo a una processione di incappucciati
bianco vestiti, durante una consueta celebrazione religiosa, mostrata in collisione con
una civiltà intrisa di tribalismo contadino, Tonio arriva in tempo per sottrarre
dall'attrazione del suicidio la ragazza affranta, che, dopo aver distrutto gli arredi
dell'alloggio al ritmo della taranta, a sua volta si distende in un pianto liberatorio.
Allora il miracolo sta racchiuso in una lacrima e non nei fiumi di acque benedette delle
madonnine acquistate a Lourdes!?
La chiave di accesso dell'intero film risiede nella
cultura salentina e nei riti da essa convogliati nella pizzica: esiste la pizzica di
cuore, tra uomo e donna, la pizzica-scherma, tra due uomini che mimano un duello mortale
con i coltelli, e la pizzica tarantata, che riproduce le movenze dell'amore e della morte.
In questo caso l'amore avrà la meglio sulla fine precoce dell'esistenza. Sarà questo
merito di San Cataldo (come esibisce ironicamente la scritta dei titoli di coda del film,
in realtà dedicato al padre del regista)?
Da unintervista al regista tratta dal
quotidiano «il manifesto» (settembre 2003 - LX Biennale di Venezia):
«"Credo di aver contribuito con gli altri a fare un film non bruttissimo, ma non
nego di essere stato molto insicuro in questi giorni". Edoardo Winspeare tira un
sospiro di sollievo. Il pubblico dei critici ha accolto sostanzialmente bene il suo Miracolo
e questo è un primo scoglio superato. "Avevo paura soprattutto di cadere in qualche
cliché, e per questo il film lo abbiamo molto asciugato rispetto alla prima
sceneggiatura. Inizialmente era un film molto più tenero, e anche laspetto del
miracolo era trattato in modo più ampio. Per esempio gli effetti speciali dovevano essere
sei, e invece ne è rimasto uno solo, e la scelta della fotografia è andata nella stessa
direzione". Una necessità di sottrarre dettata da rischio di eccessi sentimentali e
non solo. "Se volete è un film contro il miracolismo alla Padre Pio dice
in difesa di una idea laica di miracolo realizzato attraverso lamore. Io
credo che quando cè un amore autentico, una vicinanza affettiva, è anche possibile
che si sprigioni una energia capace di cambiare le cose. Forse per questo chi ha lavorato
con me dice che sono un cristiano credulone". Lidea era quella di realizzare un
film duplice. "Volevo che fosse un film dautore, ma anche un film popolare e
questo credo di essere riuscito a realizzarlo". Ma per Winspeare contava anche il
luogo. "La cosa che volevo fare era un film su Taranto, la storia è venuta dopo.
Taranto è per me una città molto bella e molto ferita, la conosco bene, come tutta la
Puglia e volevo girare lì". Mostrando però una Taranto a due facce.
"Non volevo mostrare il solito sud povero o malavitoso. Ho mostrato la borghesia, la
stratificazione sociale di una città banalmente occidentale, e in questo senso la storia
avrebbe potuto essere una qualsiasi, anche a New York". Però Taranto è un valore
aggiunto dice Winspeare e in effetti un posto importante ce lha la
processione pasquale. "Io amo le processioni, le ho messe in tutti i miei film, e in
quella di Taranto mi colpisce il silenzio, la dignità. Però a Taranto anche i
punkabbestia stanno lì con la mano sulla statua della Madonna e aspettano che il miracolo
arrivi, mentre io volevo mostrare unaltra cosa.
Non a caso il ragazzo risale controcorrente la processione, va in unaltra direzione,
e in questo modo riesce a salvare la ragazza". E non solo. "Il bambino in fondo
è anche quello che salva il padre, col suo agire lo fa pensare e alla fine anche lui, che
inizialmente sembra irrecuperabile capisce cosa sta facendo". Dunque lazione
contro lattesa? "Sì, Taranto vive di attesa, per esempio attende che le
acciaierie chiudano perché i tarantini sanno che provocano il cancro, ma
contemporaneamente sanno anche che le acciaierie son ciò che dà loro da mangiare. E di
fronte a questo aspettano una sorta di miracolo". Che invece può venire solo se si
fa qualcosa. Anche con la musica. "Se nel mio cinema la musica è importante
dice Winspeare è anche per questo, perché nella taranta cè una vitalità
che contrasta con la passività"».
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