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Beijin Bike's - Le biciclette di Pechino
Anno: 2001
Regista: Wang Xiaoshuai;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Cina;
Data inserimento nel database: 09-12-2001


Beijin Bike's - Wang Xiaoshuai

Beijin Bike's

di Wang Xiaoshuai

fotografia: Liu Jie

musica: Wang Feng

Cina, 2001


Il codice linguistico si propone corretto per ogni situazione, camuffato sapientemente nel racconto, ottenendo un'opera unitaria attraverso l'eclettismo tecnico dei fuoricampo che completano le azioni più esagitate alternate a primi piani a tutto schermo.

Dissolvenze raffinate in un controluce patinato che incrociano riprese fisse sullo scambio della bici contesa riassumono l'intero film, ma si aggiungono a rallenti sulla città, vera protagonista, spesso in teleobiettivo esaminata con spirito entomologico in ogni suo anfratto, sfruttando ogni occasione per fare di ciascun personaggio un bassorilievo e una volta che se ne ha un tuttotondo si fa interagire con il resto della storia; false soggettive ci immergono in un mondo di cortiletti, angusti ripostigli, tetti-rifugio, utilizzate in modo evidente per farci partecipi di una scoperta a noi già nota (la riappropriazione della bici), ma che riviviamo dal punto di vista del giovane che l'aveva ricettata e "sentiamo" la scomparsa, mentre il furto subito da Guei (il pony che viene dalla campagna) era stato sapientemente ripreso viceversa in un campo lungo che panoramica su uno spiazzo a esaltare la solitudine e l'angoscia del ragazzo che vediamo aggirarsi e indoviniamo attonito di fronte alla sparizione della sua preziosa bici (introducendo un particolare ricorrente, quello della indifferenza delle persone attorno);

ma soprattutto la pellicola è costituita da volti, fin dall'inizio con il repertorio del colloquio per l'assunzione, e da subito si ha l'impressione che una chiave di lettura – una delle tante – provenga dalla presenza di due schiere: i campagnoli che si riversano con le loro espressioni imperturbabili (eppure sbalorditi lo sono – e il film si incarica di documentare tutti i loro imbarazzi per un universo sconosciuto – e finiscono con essere identificabili per la loro inadeguatezza a quel mondo a cui si abituano come tutti gli immigrati, mantenendo dentro di loro una mentalità diversa e anche, per fortuna, una dimensione diversa espressa da un'espressione un po' trasognata: "Quelli che vengono dalla campagna sembrano usciti da una favola") nella capitale e le divise dei cittadini che vanno a scuola; ma non è la sola divisione netta che si coglie dal film e che il regista conferma, sollecitato da una domanda del pubblico.

L'altra linea che separa i compartimenti stagni della società divide gli adulti dagli adolescenti: il padre di Jian è consapevole di non avere dialogo, ma anche perché le possibilità si equivalgono al proletariato, ma l'ambizione scatenata dall'apertura liberista crea condizioni di tensione, dovendo privilegiare una spesa piuttosto che un'altra e di nuovo sottesa, ma molto evidente, scaturisce la polemica che non può passare inosservata alle autorità – non è un caso che il film sia censurato in patria e che come spesso accade batta una bandiera europea –, ma un'altra immagine della galleria di situazioni che fissa come un'istantanea l'indifferenza del mondo adulto è quella che contrappone la concitazione dell'inseguimento finale nei vicoletti da parte della banda del futuro padrone senza scrupoli ai danni dei due comproprietari della bici al serafico rapimento che racchiude il crocchio di anziani che, seduti in terra in un angolo più volte battuto dalle bici nella corsa sfrenata, imperturbabili non intervengono a sedare la rissa.

Ma altri volti costellano il film: facce timide che si nascondono anche nella inquadratura sbilenca, tagliata dalla bici sempre in primo piano, o l'espressione della ragazza bellissima, ammirata dai due giovani immigrati, che appare distante, scostante, inarrivabile e invece si scoprirà essere anche lei spaesata e sradicata cameriera, un simbolo di quanto non si sia consapevoli dei diritti di cui si dovrebbe godere, emblematica dell'insicurezza all'inseguimento di un modello – la padrona di cui indossa di nascosto i vestiti – che di nuovo offre la cifra del livello di occidentalizzazione ormai subito, specchio della totale assenza di garanzie nell'individualizzazione dei rapporti di sudditanza sul lavoro e il motivo per cui, senza ricalcare supinamente il neorealismo italiano, venga prodotta un'edizione cinese con connotati originali, ma derivante da situazioni simili all'immediato dopoguerra italiano, che comporta l'annullamento dell'identità estranea all'urbanizzazione che non può accettare bifolchi e quindi il primo attentato alla dignità dei ragazzi proviene dalla doccia, dal taglio dei capelli e dalla divisa, imposti all'assunzione, perché "Il vostro aspetto è l'immagine della nostra ditta"; lo schiavo non ha altro che la sua cocciutaggine per difendere la propria identità e la dignità e il suo urlo nella notte abbracciato alla bici è lancinante e prorompe proprio da questo sussulto di rifiuto del sistema del branco che forte del numero impone una logica prepotente e irrazionale, adeguando il mondo ai propri interessi (o a quelli di uno di loro, non vi ricorda nulla del dibattito sulle rogatorie e sulla riforma della giustizia?), è il primo piano che si contrappone a quelli che schiacciavano in plongée Guei, mentre riservavano l'inquadratura simmetrica alle ragazzine linde nelle loro divise, riprese dal basso, giudicanti su chi sia il perdente e chi il cavallo su cui puntare ("Le ragazze di città sono così", taglia corto il parente di Guei, che lo ospita e che è una fonte di semplificazioni quasi proverbiali, utili per fornire una visione del mondo che si presenta come un rebus da decifrare e dunque è opportuno adottare semplificazioni per avvicinarlo alla propria esperienza: "L'importante è che non ti guardino come un campagnolo").


Sintomatico che si possa immaginare un plot così desichiano proprio in un frangente politico simile a quello del neorealismo: curioso come il liberismo produca immediatamente il totem "possesso" e come al contempo l'oggetto del desiderio in questo caso sia conteso da bisogni diversi che sorprendentemente si equiparano: la necessità forte del lavoro come pony express non ha preminenza sul bisogno di svago amoroso – e non solo, visto il forte legame con il clan, che ha espressioni anche mafiose, ma non è visto come elemento negativo, e si muove rigorosamente in bici – arrivando a un accordo tutto cinese che immagina l'utilizzo a turno del mezzo, fino all'epilogo catartico, che non sancisce l'amicizia tra i due mondi, quello del giovane studente e quello del lavoratore immigrato, sfruttato e sottopagato – un capitolo molto ben stigmatizzato nell'esordio per mettere subito in chiaro in che condizioni si lavora in Cina, il paternalismo e il capestro dei contratti che prevedono il riscatto del mezzo lasciando quasi tutto il salario.

Tutto passa attraverso la violenza, scoppi di rabbia e momenti di programmato odio, risse epiche degne di Molnar, ma sempre disarmati (a parte i mattoni), fino al liberatorio gesto di ribellione e di autoaffermazione di Guei che ha compiuto la sua formazione e finalmente all'irrazionale odio abbattutosi sulla sua bici interviene in modo risolutivo e con una preparazione precisa in climax da parte del regista, che ha una invidiabile capacità, un mestiere raro nella costruzione delle emozioni attraverso la scelta del cliché adottato per la singola situazione: per qualsiasi estimatore di western è scontato che il pregevole doppio inseguimento montato con bravura in alternata, con frequenti incroci, si concluda in quel modo, ma la sequenza che lo vede rialzarsi macilento, recuperare le forze e poi staccare e mostrare l'aguzzino che si accanisce sulla sua bici da davanti che lo impalla, fa scattare l'applauso a scena aperta per la scelta di non subire più. Eppure di contro a quella esplosione di violenza ci sono i vecchietti che entrano nell'inquadratura (ecco: il mondo esterno alla vicenda si fa largo dai lati del limite dello schermo, occupa la nostra porzione di fetta di Cina visibile, addensandosi dal fuori campo e animando il plot con la vita reale, una sezione aurea di animazione stradale, con gag probabilmente ricostruite – l'improbabile frigo che scivola giù dal risciò, pesantissimo, come la fatica di vivere e trasportare da un luogo all'altro tutte quelle derrate) facendo tai chi e il piano di confronto della bravura individuale è data dal surplass in bici, dalle figure in controluce che impennano il mezzo, quindi la staticità contro la repentina accelerazione dei confronti sanguinosi, le botte e gli inseguimenti.

Beijing, Pechino in ogni sua sfumatura sembra tratta da un racconto di Gaoxingjian (in particolare "L'incidente", compreso in Una canna da pesca per mio nonno; Rizzoli, Milano 2001) con quella miriade di ciclisti e risciò che trasportano di tutto, siparietti anche divertenti di fronte ai drammi individuali: le parti dedicate all'ambiente, lungi dall'arrecare un respiro al racconto, tendono a inserirlo in una realtà poliedrica (dai grattacieli alle catapecchie, dall'universo da ballatoio alle infinite stratificazioni di miseria e sottooccupazione, mediando meglio quel tanto di naïf che si coglie nello sguardo troppo ingenuo del ragazzo fino al momento, centrale, in cui viene derubato; la scommessa sul successo di pubblico è fatta sul grado di comicità – mai sgangherata – introdotto, ad esempio l'incidente (rigorosamente fuori campo come ogni episodio di vera violenza, non ultimo la mattonata ai danni del rivale sferrata dal geloso e furioso Jian) con il camion di farina si risolve nella bella inquadratura di Guei infarinato dalla testa ai piedi, chiaro debito alle slapsticks, come altri momenti mescolano echi del tanto cinema consumato dagli occhi di Wang Xiaoshuai.