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Io non ho paura
Anno: 2002
Regista: Gabriele Salvatores;
Autore Recensione: paola tarino
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 26-03-2003


Salvatores/Ammaniti - Io non ho paura

Film di Gabriele Salvatores

Regia: Gabriele Salvatores
Interpreti: Giuseppe Cristiano, Mattia Di Pierro, Ajtana Sanchez Gijon, 
Dino Abbrescia, Diego Abatantuono
Italia - Spagna - Inghilterra, 2003

Galeotto fu per me il libro di Niccolò Ammaniti, Io non ho paura, tradotto sullo schermo dal regista Gabriele Salvatores, non nuovo a frequentazioni letterarie da trasformare in immagini: basti pensare a Puerto Escondido tratto da Pino Cacucci o a Denti, dove la scrittura di Domenico Starnone ben si prestava a diventare cinema. Galeotto perché ho fatto l'errore di leggerlo prima di vedere la sua ultima opera cinematografica e allora il mio film mentale, ancora troppo aderente alla prosa dello scrittore e al monologo interiore che ne scandisce la struttura, ha profondamente inquinato la visione, non permettendomi di colmare il detto/non detto dalle immagini con tutte le possibili interpretazioni affidate alla libera immaginazione dello spettatore. In genere mi è facile distinguere un libro da un film, per non correre nella trappola che spinge a cercare le dipendenze, anziché gustare il sapore della differenza. Pur trattandosi di linguaggi diversi, si resta delusi di fronte a film che risultano traduzioni letterali di un libro, altrettanto dicasi quando se ne discostano troppo, relegando il testo di partenza a semplice cornice ispiratrice, che finisce con l'esistere al di là del canovaccio utilizzato per generare idee nuove. 
Il film di Salvatores ha dalla sua il pregio di non inserirsi in questi scontati repertori, perché, pur rifacendosi fedelmente all'opera scritta da Ammaniti, diventa immediatamente altro, per rivendicare la capacità del linguaggio filmico di raccontare una storia, la sua, senza sudditanza alcuna (come non bastasse lo scrittore in persona, insieme a Francesca Marciano, ha firmato la sceneggiatura, dando il proprio consenso a far circolare in forma visiva la sua narrazione).
I miei consueti presupposti non sono però bastati stavolta a non farmi sentire orfana del libro, gettandomi in una condizione di spaesamento, che ha finito con l'inficiare la mia fruizione, in genere scevra da condizionamenti di questo genere. 
"Perché, mannaggia, ho letto il libro prima di vedere il film e non viceversa?", mi sono detta indispettita. Allora ho cercato di ricostruire i fatti: avevo acquistato il testo di Ammaniti prima di sapere che Salvatores avesse intenzione di sceglierlo per il suo prossimo film. Giaceva da tempo, inutilizzato, nella libreria di casa, come tante altre opere che aspettano l'occasione giusta per essere lette. Finché un giorno lo prese in mano mio nipote, sedicenne, assicurandomi che l'avrebbe letto in poche ore, per poi rimetterlo al suo posto. In effetti lo divorò rispettando la scadenza assicurata, ma, al termine della lettura, il suo sorriso sornione mi fece capire che avrebbe desiderato portarlo via, forse per rileggerlo ancora o farlo conoscere ai suoi amici. Che fare? Mica potevo mettere fine a quel sodalizio affettivo scattato in poco tempo, solo per rivendicare una proprietà, tra l'altro affatto curata! Il nipote mi requisì il libro, dopo avermi spiegato che, pur trovandoci parentele con Il Campo di Nessuno di Daniel Picouly per via della voce narrante infantile che racconta gli eventi, ne apprezzava la dimensione emotiva, capace di testimoniare il farsi di una crescita (il passaggio dall'infanzia all'adolescenza) attraverso un cammino autonomo e originale di affrancamento dalle paure ancestrali, senza per questo giudicare l'universo adulto, pur essendo quest'ultimo moralmente deprecabile. 
Ricomprai il libro e lo lasciai, stavolta, in attesa sul comodino, perché ormai attendevo l'uscita del film di Salvatores.
"Perchè, mannaggia, ho letto il libro prima di vedere il film e non viceversa?", mi sono detta indispettita. Allora ho cercato di ricostruire i fatti: una collega, docente di lettere presso un liceo artistico, a cui mi è capitato di raccontare il fascino esercitato dal libro di Ammaniti sul mio giovane parente, ha pensato bene di rincarare la dose, spiegandomi che anche i suoi allievi, coetanei del nipote, stavano passandoselo di mano in mano con un entusiasmo, che difficilmente sapevano riscuotere altre opere da lei suggerite. La classe aveva addirittura esplicitato il desiderio di poter andare al cinema "tutti insieme appassionatamente" per proseguire l'incanto e al contempo officiare a una sorta di rito collettivo, dettato dal desiderio di poter consumare, nello stesso momento e nella medesima sala, quanto avevano apprezzato durante la lettura individuale. La proposta dei ragazzi è stata accettata dalla collega, ma non mi è dato sapere al momento se siano già andati a vedere il film, né quali possano essere state di conseguenza le loro impressioni.
Ad ogni buon conto la sindrome Ammaniti avvertita dagli studenti liceali mi ha certamente incuriosito e spinto ad aprire il libro prima di vedere il film, pur sapendo di appartenere ad un'età diversa, non per questo scevra di possibili investimenti autoproiettivi.
In effetti il libro è scorrevole e ha dalla sua il fatto di lasciarsi leggere in un paio di ore. Non parla di giovani, bensì di bambini, la cui età spazia dai cinque ai dodici anni. 
La sua forza stilistica consiste proprio nella scelta, tra l'altro non originale perché strausata in letteratura, di ricorrere a un io narrante, che in questo caso cerca di ricostruire quanto avvenuto quell'estate afosa del 1978 (l'anno del sequestro Moro) ad Acqua Traverse, un pugno di quattro case e una vecchia villa, circondate da un oceano sterminato di campi di grano, un paesaggio che la fotografia del film riesce a restituire in una vasta gamma cromatica.

"Oggi Acqua Traverse è una frazione di Lucignano. A metà degli anni Ottanta un geometra ha costruito due lunghe schiere di villette di cemento armato. Dei cubi con le finestre circolari, le ringhiere azzurre e i tondini d'acciaio che spuntano dal tetto. Poi sono arrivati una Coop e un bar tabacchi.  E una strada asfaltata a due corsie che corre dritta come una pista d'atterraggio fino a Lucignano.
Nel 1978 Acqua Traverse invece era così piccola che non era niente. Un borgo di campagna, lo chiamerebbero oggi su una rivista di viaggi.
Nessuno sapeva perché quel posto si chiamava così, neanche il vecchio Tronca. Acqua non ce n'era, se non quella che portavano con l'autocisterna ogni due settimane.
C'era la villa di Salvatore, che chiamavamo il Palazzo. Un casone costruito nell'Ottocento, lungo e grigio  con un grande portico di pietra e un cortile interno con una palma. E c'erano altre quattro case. Non per modo di dire. Quattro misere case di pietra e malta con il tetto di tegole e le finestre piccole. La nostra. Quella della famiglia del Teschio. Quella della famiglia di Remo che la divideva col vecchio Tronca. Tronca era sordo e gli era morta la moglie, e viveva in due stanze che davano sull'orto. E c'era la casa di Pietro Mura, il padre di Barbara. Angela, la moglie, di sotto aveva lo spaccio dove potevi comprare il pane, la pasta e il sapone. E potevi telefonare.
Due case da una parte, due dall'altra. E una strada, sterrata e piena di buche, al centro. Non c'era una piazza. Non c'erano vicoli. C'erano però due panchine sotto una pergola di uva fragola e una fontanella che aveva il rubinetto con la chiave per non sprecare acqua. Tutto intorno i campi di grano.
L'unica cosa che si era guadagnata quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini era un bel cartello blu con scritto in maiuscolo ACQUA TRAVERSE"
(Niccolò Ammaniti, Io non ho paura, Einaudi, Torino 2001, pp. 35 - 36).

Dal buio alla luce

Il libro e il film raccontano una storia ambientata nel Sud italiano (le riprese sono state effettuate a Rionero, non distante da Melfi, in quelle masserie adagiate tra Puglia e Basilicata): un bambino del Nord è stato rapito e un altro bambino, che invece è del luogo, scopre l'orribile nascondiglio, in cui lo tengono prigioniero i suoi rapitori. 
A narrare la vicenda  è Michele Amitrano, un bambino di nove anni, ma anche l'adulto che, ventidue anni dopo, scampato ai fatti vissuti quell'estate, si trova a ricordarli, mosso non tanto dal senno di poi, ma dall'innocente ingenuità e dalla freschezza umorale che solo un giovane (anche di spirito) può provare.
La rammemorazione intrapresa dall'adulto finisce infatti con il mescolarsi e con il confondersi con la voce di quel suo io bambino, impegnato in un monologo interiore, che nel film sta nascosto dietro le immagini e la musica, diventa racconto e struttura narrativa, per lasciare allo spettatore la possibilità di immaginare i suoi pensieri e soprattutto le sue emozioni, paure comprese. 
Per restituire questa visione soggettiva e infantile il regista ricorre infatti a un espediente tecnico, quello di girare con la macchina da presa all'altezza degli occhi di un bambino alto un metro e trenta. Inoltre sceglie di iniziare il film dalla parte buia, scrivendo con un gessetto i titoli di testa sulla parete scura della cavità, dove sta rinchiuso Filippo, il bambino del Nord rapito da tutti gli adulti che abitano ad Acqua Traverse. Dalla tana umida, ripugnante e malsana, la macchina da presa si sposta per inquadrare l'apertura che conduce all'esterno, alla luce del sole, al corvo che sorvola le messi, quasi ad anticipare la possibilità di sottrarsi alla prigionia, per diventare nuovamente liberi... di vivere l'infanzia, correre, giocare, sognare, provare emozioni. Solo più tardi ci offrirà uno sguardo del medesimo buco da un punto di vista rovesciato, quando Michele si affaccerà a guardare cosa si nasconde sotto il pannello ondulato, come se dovesse sbirciare dietro una porta chiusa per scoprire qualcosa che cambierà la sua vita, aiutandolo a crescere e a maturare.  
Il libro privilegia invece il lato solare, iniziando con la corsa dei ragazzini, impegnati in una gara per raggiungere la sommità di una collina, che
"sembrava un panettone. Un enorme panettone posato da un gigante sulla pianura. Si sollevava di fronte a noi a un paio di chilometri. Dorata e immensa. Il grano la ricopriva come una pelliccia. Non c'era un albero, una punta, un'imperfezione che ne rovinava il profilo. Il cielo, intorno, era liquido e sporco. Le altre colline, dietro, sembravano nani in confronto a quella cupola enorme" (op. cit., pag. 16). Allo scrittore interessa descrivere il gruppo dei ragazzini alla luce del giorno, per affidare al buio l'emergere delle paure, degli incubi sognati ad occhi aperti, usando come copertura soltanto un lenzuolo, perché si fa fatica ad addormentarsi per via dell'afa e dell'umidità che rende inospitale il letto o per colpa degli adulti che, pur dovendo tramare in segreto il prosieguo delle loro torbide azioni, finiscono con il litigare pesantemente tra loro nel cuore della notte.
"Quella maledetta estate del 1978 è rimasta famosa come una delle più calde del secolo. Il calore entrava nelle pietre, sbriciolava la terra, bruciava le piante e uccideva le bestie, infuocava le case. Quando prendevi i pomodori nell'orto, erano senza succo e le zucchine piccole e dure. Il sole ti levava il respiro, la forza, la voglia di giocare, tutto. E la notte si schiattava uguale" (op. cit., pag. 6).

Uno, due, tre... stella

Nonostante questo i bambini di Acqua Traverse si ritrovano ogni mattina a pedalare su quello stradone assolato, per inventarsi il modo di trascorrere le vacanze estive, divertendosi; a maggior ragione quando i loro giochi trasgrediscono i divieti degli adulti o si trasformano in sfide competitive, per saggiare il coraggio di ciascuno e al contempo dettare penitenze umilianti, allo scopo di rivendicare il bisogno di comandare e sottomettere gli altri. 

Il Teschio guarda in su e Michele in giù

Il gruppo, composto da quattro maschi (Antonio, detto "il Teschio", Salvatore, Remo e Michele) e due femmine (Barbara e Maria, la sorellina di Michele), decide un giorno di scalare di corsa una collina: "Dritti, su per la collina. Niente curve. È vietato stare uno dietro l'altro. È vietato fermarsi. Chi arriva ultimo paga penitenza", per issare sulla sua sommità una povera gallina impalata a mo' di banderuola.

La collina espugnata

 Michele arriva ultimo, perché impegnato ad aiutare la sorellina che si è infortunata durante la gara: il capo della banda, il Teschio, che è anche il più grande ("Gli piaceva comandare e se non obbedivi diventava cattivo", ma non si può dire altrettanto per il ragazzino che interpreta questo ruolo nel film), decide dapprima di sottoporre Barbara alla vile penitenza maschilista di abbassare le mutandine in pubblico per mostrare il suo sesso, in seguito, accolte le proteste di Michele che asserisce di essere arrivato ultimo, approva la sua autocondanna e lo spinge a entrare in un casolare abbandonato e diroccato, per salire al piano di sopra, raggiungere l'uscita da una finestra, aggrapparsi al ramo di un albero e cadere finalmente giù. La generosità del bambino e la sua sensibilità nei confronti dei più deboli, tiranneggiati dai prepotenti di turno, anticipano il suo comportamento futuro nei confronti del bambino rapito e al contempo aiutano a tratteggiare il suo istintivo atteggiamento altruistico.
Nel film Michele, dopo essersi spaventato a morte per l'incontro con il bambino zombie scoperto nel buco, trova il coraggio di tornare indietro, per recuperare gli occhiali dimenticati dalla sorella nel cortile del casolare diroccato: vorrebbe scappare e dimenticare la scena a cui ha appena assistito, eppure ce la mette tutta per vincere la sua paura: il dettaglio degli occhiali, che campeggiano tra la paglia, fungono qui da "pars pro toto", come le famose lenti inquadrate da Ejzenstejn nella Corazzata Potëmkin, a testimoniare la sua volontà di affrancarsi da un'infanzia popolata di mostri, per correre determinato verso un destino di crescita, lontano da quel microcosmo malsano, attraverso un semplice gesto di coraggio, quale il riportare alla sorella un oggetto di cui ha bisogno per poter vedere in maniera nitida, senza nebbie, l'universo che la circonda. Nel libro la scena non è mai stata scritta e questa marcatura originale, voluta dal regista, legittima una volta di più il suo diverso interesse nei confronti di una stessa storia.

Il dettaglio degli occhiali

Michele si sottomette alle regole del gioco e, durante il compimento della sua penitenza, deve farsi più volte coraggio, trattenere il respiro, affidarsi alle sue conoscenze (anche librarie) per muoversi lungo un pavimento danneggiato,  strisciando come una lucertola o rimanendo in equilibrio su un asse di legno. Alla fine riesce a raggiungere la finestra che dà sul cortile, ma il ramo, a cui si aggrappa, cede. Cadendo, per fortuna su un materasso morbido, il bambino avverte un rumore basso e cupo: sotto le foglie, i rametti e la terra, un ondulato verde, una tettoia di plastica trasparente, che gli ha salvato la vita, piegandosi per assorbire la caduta, nasconde in realtà un buco.
"Ero cascato sopra un buco.
Era buio. Ma più spostavo la lastra e più rischiarava. Le pareti erano fatte di terra, scavate a colpi di vanga. Le radici della quercia erano state tagliate.
Sono riuscito a spingerla ancora un po'. Il buco era largo un paio di metri e profondo due metri, due metri e mezzo.
Era vuoto.
No, c'era qualcosa.
Un mucchio di stracci appallottolati?
No...
Un animale? Un cane? No...
Cos'era?
Era senza peli...
bianco...
Una gamba!
Ho fatto un salto indietro e per poco non sono inciampato.
Una gamba?
Ho preso fiato e mi sono affacciato un istante. 
Era una gamba.
Ho sentito le orecchie bollenti, la testa e le braccia che mi pesavano.
Stavo per svenire.
Mi sono seduto, ho chiuso gli occhi, ho poggiato la fronte su una mano, ho respirato. Avevo la tentazione di scappare, di correre dagli altri. Ma non potevo. Dovevo prima guardare un'altra volta.
Mi sono avvicinato e ho sporto la testa.
Era la gamba di un bambino. E un gomito spuntava dagli stracci.

In fondo a quel buco c'era un bambino. Era steso su un fianco. Aveva la testa nascosta tra le gambe. Non si muoveva.
Era morto". (op. cit., pp. 32 - 33)

La curiosità del bambino sarà l'aiuto più grande per superare la paura: dentro la buca c'è infatti un bambino della sua stessa età, spaventato, incatenato, affamato, assetato, quasi cieco, con la faccia pallida e spettrale. Ma immediatamente dopo scatta l'attenzione per il diverso, suo coetaneo, conficcato dai grandi in quell'antro buio. All'inizio pensa addirittura sia morto, perché non si muove e non risponde ai suoi disperati tentativi di stuzzicarne le membra, magre e sottili. La stessa sensazione di appartenere ormai al regno dei morti verrà confermata da Filippo, che non riesce a darsi altre spiegazioni del suo essere finito in quel buco (grida isterico: "Io sono morto, sono morti tutti, anche i miei genitori, perché non vengono a prendermi") e scambia Michele per un angelo custode. 
La forza muscolare e sana del ragazzino, abituato a vivere in campagna e a correre in bici, contrasta con la carne bianca e il colorito diafano del prigioniero.
I due bambini iniziano a comunicare tra loro: dapprima non si capiscono perché, pur parlando la medesima lingua, provengono da ambienti differenti e da famiglie di diversa estrazione sociale. Il libro rimarca in divesi episodi l'abisso culturale e socio-economico che sembra apparentemente dividere la coppia, che finisce con l'instaurare in realtà un legame alla pari, di amicizia solidale e pericolosa complicità: Michele va a trovare più volte il suo nuovo amico per proteggerlo, gli porta pane da mangiare e acqua da bere, cerca di parlargli, lo fa uscire all'aperto, agevolando la sua voglia di aprire finalmente gli occhi, incrostati dalla sporcizia, per riprendere a vivere, a ridere, a rotolarsi nel grano; Filippo, dal canto suo, aiuterà Michele a crescere, a vincere la sua paura, a trasgredire ai giuramenti fatti al padre, inoltre gli permetterà di allargare i suoi orizzonti di riferimento, per comprendere storie (simpatica quella degli orsetti lavatori), notizie e comportamenti, ben lontani dal microcosmo finora frequentato a Acqua Traverse. Salvando Filippo e sostituendosi a lui, Michele decide da che parte stare e al contempo stabilisce il suo destino: mettere fine all'infanzia e andarsene da quel paese, che sta comunque cambiando e degenerando. Prolettica risulta infatti la scena dell'arrivo delle mietitrebbia, che, da sopra la collina scendono simili a mostruosi carriarmati, spezzando le pianticelle di grano: dopo il loro passaggio nulla sarà più come prima, il grano giallo-giallo, dove aveva sempre corso a raffica, non nasconderà più alcun segreto.
Entrambi saranno finalmente liberi: il rapito e il figlio del rapitore si danno la mano nell'inquadratura finale del film (il gesto non è descritto nel libro) a sancire la superiorità del loro legame, capace di oltrepassare la violenza perpetrata dagli adulti, perché solo conoscendo le cose che spaventano la violenza non ha più ragione di esistere. Un sodalizio speciale e magico continuerà a unire i loro destini, nel bene e nel male. 

Il tocco del soldato 

Salvatores ha sempre amato inquadrare adulti in fuga (specie nei suoi primi film intimisti-generazionali), impegnati in costanti on the road alla ricerca di se stessi e di ragioni per le quali lottare: stavolta l'universo dei grandi, tutti gli abitanti adulti di Acqua Traverse, più l'uomo che arriva dal Nord a capitanare la maldestra e incapace banda dei rapitori (il milanese Sergio, interpretato da Diego Abatantuono, rappresenta il maggiore tradimento al libro), sembra decisamente immobile, si dà poco da fare di giorno, per restarsene incollato ogni sera davanti alla televisione a seguire le notizie trasmesse dal TG di Emilio Fede. 
In realtà sono gli adulti a sentirsi braccati e ad avere paura, anziché i bambini, ma non si concede loro alcuna forma di riscatto (da se stessi e dal sequestro orchestrato), né di liberazione, per rimediare a una vita mafiosa e balorda. Non vengono però giudicati: agiscono per ignoranza o semplicemente per obbedienza all'uomo venuto dal Nord.
"Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri", gli ripete più volte il padre. 
Nonostante questi insegnamenti, sarà proprio il padre a impugnare l'arma che ferirà ad una gamba il figlio, perché così ha decretato il "tocco del soldato": a lui è toccato in sorte di scegliere l'unico fiammifero senza la capocchia e allora non potrà sottrarsi alla missione mortale, come faceva l'esercito durante la guerra. Per fortuna il figlio ha imparato, a spese proprie, a disobbedire e a crescere.
Anche la madre è una figura assente: appare spesso arrabbiata, pronta a dare da mangiare e a proteggere il figlio (usando il proprio corpo come uno scudo), quando viene picchiato da uno della banda che l'ha scoperto nel buco in compagnia del rapito, ma non c'è dialogo.
Sembrano abitare universi diversi, come
è rimarcato anche dal taglio di questa inquadratura: da una parte si vede il bambino che le dà le spalle, mentre si rivolge a noi con gli occhi bassi e lo sguardo triste, dall'altra tra le lenzuola stese fa capolino la madre, un palo in mezzo li divide, a cui si aggrappa con tenacia la mano del ragazzino.

Come dicevo all'inizio la mia fruizione, seppur condizionata dal vivido ricordo del libro che ha ispirato il regista, mi ha permesso di apprezzare la splendida fotografia e soprattutto la naturale interpretazione dei ragazzini (tutti attori non professionisti, scelti tra quelli del posto). Monologo interiore a parte, mancanza di tensione in certe scene, maggiore spazio dato al rapito, aggiornamento del repertorio dei giocattoli, presenza dell'Intrepido (dove ci stava Tiramolla), grave assenza di Tex Willer e soprattutto del suo amico indiano Tiger Jack..., ma i colori del grano e del cielo ci sono tutti, come le canzoni di Mina ("Se telefonando, Parole, parole, parole ...").

Il taglio dell'inquadratura

"Mi hanno attratto i contrasti di questa storia che ha caratteri archetipi e non ha niente a che vedere col solito bozzettismo paesano. Mi pare ci sia dentro la tragedia greca, il Conrad di Cuore di tenebra, il tema di sé e del proprio doppio. Voglio farne un film epico, dove i piccoli protagonisti siano eroi grandi come John Wayne quando va a cavallo" (dichiarazione rilasciata da Gabriele Salvatores durante le riprese).


Paola Tarino

Da tutto ciò sorge il dubbio che a Salvatores non interessasse affatto sviscerare la paura, che dei ragazzini volesse privilegiare l'aspetto meno spettacolare, ma più vicino alla sua filmografia: la ricerca del momento in cui tutto cambia e non potrà più essere come prima. L'attimo della crescita, che non è solo quella del protagonista, ma anche lo smantellamento del mondo congelato in quelle quattro case riprese spesso in grandangolo (eclatante a questo proposito il gioco "uno due tre stella") proprio perché in quel modo si crea una distanza con la condizione rappresentata - e forse proprio a questo servono le inserzioni delle canzoni, così aderenti al testo letterario e così lontane nella memoria di ognuno di noi.
Quell'attimo della crescita trova un preludio nella prova di penitenza, durante la quale si trova a "provare" gli stessi gesti dell'epilogo; e cos'è infatti una prova se non una preparazione alla crescita: l'asse come il davanzale da cui si deve calare per salvare l'amico, l'albero da cui scende...
C'è poi la divisione tra ragazzini e adulti, che trascorre lungo tutto il film, parallela alla paura; una divisione che nel film appare in certi momenti, ma essendo il protagonista destinato a crescere, salvando però il mondo degli adulti, traspare un intento di limitare le sottolineature di differenze a vantaggio delle incomprensioni; perciò si può espungere anche in questo caso la paura, preferendo la curiosità, che sostituisce il doversi far coraggio e il bisogno di inventarsi un alter ego supereroe a cui appellarsi: non è un caso che l'inquadratura emblematica del film sia da dentro il buco verso il cielo che si staglia alle spalle del bambino proteso a guardare ... il mondo degli adulti proiettato nel buio della caverna, fino a quel momento soltanto sbirciato da fessure, invece lì si spalanca e impaurisce (quindi al limite la paura che trascorre dal libro al film si trasforma: da quella tipicamente infantile a quella di crescere) e non è casuale che sia il recupero degli occhiali a preludere allo sguardo sul buco nero, non si possono perdere le lenti utili per comprendere il passaggio epocale: a Salvatores quello interessa, a livello individuale, come nel caso dei suoi eroi in fuga della trilogia o come i soldati di Mediterraneo, quello stesso passaggio di cui parla De Lillo in Underworld: il regista lo colloca alla fine degli anni settanta e lo sancisce con le mietitrebbia enormi e aliene che spazzano via la poesia e la libertà rappresentata dalle bici, il mezzo di trasporto di quell'age d'or (come le bionde messi) irrimediabilmente perduto, come in ogni film di Salvatores, dove sempre si perde l'innocenza.

adriano boano