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Mies Vailla Menneisyyttä - L'uomo senza passato
Anno: 2002
Regista: Aki Kaurismäki;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Finlandia;
Data inserimento nel database: 26-12-2002


Kaurismäki - L'uomo senza passato

L'amnesia come fuga dal sistema...

... perdita di identità...
... e nuovo cominciamento sulle rovine.

È sicuramente una soluzione: essere sempre altrove, lontani da dove il mondo prefabbricato di sfruttamento, denaro, potere, convenzioni va a cercare l'individuo per ingabbiarlo. All'uomo invisibile il gioco riesce meglio, perché non solo i suoi non-luoghi sono al di là dei margini del cinema - e della realtà - integrata, dando vita a spazi assolutamente unici nella loro poesia cinematografica, ma anche il suo passato, anche sulla linea del tempo, lui è da un'altra parte rispetto agli archivi, inesistente nei casellari, non rintracciabile l'identità. La sottrazione si traduce anche in azzeramento dei riferimenti per via proprio di sottrazione di elementi a cui siamo abituati, lasciando residui di modernità postindustriale per completare l'opera di rifiuto della stessa. Pure il lessico, l'uso della lingua ha bisogno di un periodo di rieducazione per inventare dialoghi surreali (appartenenti a una realtà da interpretare: «Ma allora puoi parlare», «Sì, solo che mi veniva niente da dire» è uno dei primi scambi di battute), una rieducazione che viene estesa agli spettatori: c'è una sequenza quasi in un unico piano che attacca sulla fisarmonica di un personaggio inverosimile per complessione fisica - un addome deformato dall'alcol su cui appoggia, inglobato, lo strumento; l'attenzione dell'obiettivo si sposta sulle note del ciccione ai panni stesi al vento come in una meditazione di Dreyer: infatti compare la donna a rigovernare; da lì i ragazzi con cui l'ospite («trovato sulla spiaggia come un rifiuto del mare», uno status che lo affianca agli eroi epici, i naufraghi di tante avventure di quella protomodernità ora così degradata, ma senza collocarlo in un'aura speciale, anzi spingendo molto sul pedale della quotidianità) si intrattiene a giocare a carte prelude ad altri quadretti di vita familiare semplice da cui ripartire; una doccia improbabile e il conteggio accettato per buono in una matematica parallela di numeri reali («8 per 8 uguale 61», «Ma no: 72»). Le mani sono da operaio in un mondo di lumpenproletariat, che è sempre più lontano dalle regole di un sistema in declino.
Basti a questo proposito l'episodio della banca, che trae dalla stralunata atmosfera comune a tutti gli ambienti frequentati un maggior tasso di causticità: tutte le convenzioni sono smontate in un ambiente da imminente disastro. È lo stesso cliente della banca a svaligiarla, e l'istituto è sull'orlo del fallimento - chiude l'indomani -, il direttore suicida dopo 38 anni di fedeltà, cacciato senza liquidazione: sono le basi del "credito" di questo sistema socio-bancario a non essere più credibili e a venire minati dal basso dall'indifferenza di tutti i protagonisti. ciascuno ritagliato in un suo mondo che gli consente di descrivere attraverso poche battute capaci di interagire con gli altri più efficacemente del mondo a cui siamo abituati.

E la chiave in questo senso è consegnata dall'avvocato dell'esercito della salvezza: solo lui può interloquire con lo sbirro, abitante di un pianeta sconosciuto al nostro eroe, frequentatore della luna - notoriamente poco incline all'ordine fin dai tempi di Orlando e Astolfo - mentre il nostro saldatore non capisce i cavilli e, privo com'è di identità risulta immediatamente sospetto. Ciò che rimane della sua vita passata sono singoli relitti, oggetti che possono mantenere un valore intatto nella nuova città del sole: la maschera da saldatore gli consente di trovare un appiglio. Un lavoro artigianale, tangibile, fatto senza farsi coinvolgere eccessivamente, ma con la consapevolezza del saper fare, inviso al neoliberismo e ai suoi sistemi che non hanno validità nell'universo di questo film; la musica: permane una tipologia uguale fin da quella trasmessa dalla radiolina durante il pestaggio iniziale, proseguendo con quella emessa dal juke box riattato nella baracca, finendo con quella suonata dal gruppo da lui scoperto.

La musica pone un'altra questione interessante al centro dell'analisi di una pellicola costellata di brani, orchestrine, radioline, juke box: blues, rock. La collocazione in un periodo storico; questa incerta datazione consente due illazioni: una suffragata dal corpus del regista fa pensare che collochi nei tardi anni cinquanta il momento individuato come riferimento ultimo da cui ripartire per cambiare percorso, permettendo a ciò che è venuto dopo di essere presente solo come emersione di coscienza che sopraffa l'anacronismo che era già caratteristica di Juha, con il quale ci sono molteplici punti di contatto: dalla sigaretta assaporata con voluttà, ai riferimenti filmici, l'importanza dei primi piani. Questo ricominciamento dovrebbe consentire di evitare il degrado e l'incancrenirsi di rapporti fondati su valori immorali dell'epoca postindustriale, introducendo così alla seconda illazione, e cioè l'individuazione nei primi anni ottanta del momento della deriva sulla china insensibile del dio-mercato, di cui non rimangono che le vestigia diroccate, che il nostro eroe riadatta. Per questo forse assistiamo al grado zero della soddisfazione derivante da operazioni semplicissime come la raccolta delle patate o la cottura dei piselli in scatola, la totale imperturbabilità di fronte alle vicissitudini da affrontare conferma che la nuova dimensione scaturita dal risorgere come uomo mummia dal segnale piatto del battito cardiaco è accettata come unica scappatoia possibile a quell'esistenza rifiutata. Come ci viene confermata dal poco convinto viaggio verso la sua vecchia casa. Qui gli oggetti assumono una forma più familiare, perdendo quel fascino di modernariato postmoderno, senza il coté modaiolo del termine, che trasmettono la sua baracca o quella dei suoi salvatori. Anche la grafica dei manifesti evidentemente citazionista dei colori e dei caratteri adottati negli anni cinquanta, gettando un ponte verso i film di quel periodo conferiscono un'aura riconoscibile come affondata in quegli anni, pur introducendo spesso elementi più moderni che fanno saltare i riferimenti, esagerando lo spaesamento, cifra costante della relazione con il mondo da parte della maggioranza dei personaggi.

La resurrezione è un passaggio innanzitutto cinematografico, come lo sono i luoghi retorici del "pelatusarmeija" o la soggettiva che fa coincidere il nostro sguardo con quello dell'eroe destinato a scomparire, stramazzando nel cesso: con lui ci liberiamo del nostro sguardo per affrontare il nuovo mondo, fatto di trovarobato, individui ai margini, che installano un impianto elettrico gratuitamente (unica forma di pagamento: «Rivoltami, se mi vedi a faccia in giù»), trasognati reietti, bambini presi di peso da film per l'infanzia, infarciti di buoni sentimenti ai primordi della televisione, una memoria fatta di sensazioni sedimentate nel nostro immaginario, che costituiscono una sorta di memoria di riserva a cui aggrapparsi: con questo si completa il paradosso di un uomo senza passato attorniato da prodotti, styling, situazioni connotate con evidenza come trovarobato. Risollevarsi in quel modo testimonia non solo della morte come passaggio inevitabile da una condizione a un'altra, ma anche di usarla come lenta presa di coscienza, che consente di rimeditare al di fuori dei condizionamenti del mondo razionale, un po' come per le avventure di Dead Man di Jarmush, solo che alla fine non c'è la presa di coscienza della propria morte, ma una nuova dimensione di vita.

Sorprendente, per chi conosce il cinema del regista finnico, un finale di speranza, dove la punizione fuori campo del terzetto di teppisti sancisce una solidarietà nuova, tra barboni, alcolisti, emarginati e proprio per questo probabilmente custodi della speranza, che invece non può provenire dal nuovo compagno della moglie, che non ha capito la situazione e propone una scazzottata risolutiva per il possesso della donna, che al saldatore, innamorato della solita icona di Kaurismaki (per l'occasione avvolta nella uniforme dell'esercito della salvezza, intenta a disporre stracci per evitare spifferi dalla porta in una dimensione casalinga struggente per solitudine e sospiri amorosi inconfessati), che stavolta si lascia andare ad un bacio sensuale, ripreso anche questo in una citazione cinematografica che si trasforma in un'inquadratura insolita alle spalle dei due in plastico abbraccio sul divano della baracca.

Rapporto con il cibo, ovvero «il mio metabolismo non ti deve interessare». C'è una sorta di adesione allo slow food, pur trattandosi di sbobbe, manicaretti da scatolame e carne bruciata: è l'atteggiamento nei confronti delle vivande che ha qualcosa di ascetico. Consumano i pasti in silenzio monastico, ognuno rapito - ma senza misticismo - dall'operazione che sta svolgendo, chiuso in un suo mondo che in quel momento comprende il cibo distribuito dalla carità o proviene da una frugale spesa. Eppure il consumo del pasto si svolge con una tale attenzione da far pensare che si tratti di un percorso di crescita filosofica. In realtà è una tappa della rielaborazione del rapporto con il mondo, una forma strana di fenomenologia che coinvolge sfere metafisiche, tutte subordinate a bisogni fisici, soddisfatti con approcci ascetici, o comunque con una particolare attenzione che elimina ogni meccanicismo, qualunque automatismo, qualsiasi azione eseguita per abitudine; invece in questa nuova condizione di rieducazione di un risorto a nuova vita si rimedita su tutte le azioni.

Ma fondamentale è l'aspetto comico, che non è solo ironia, perché non allude, se non frequentando passate inquadrature cinematografiche, non si limita al sarcasmo (persino nel tratteggiare la figura di Attila, il poliziotto avido ma con caratteristiche umane superiori a qualsiasi sbirro, non è distacco sardonico, anzi la comicità fa il percorso inverso e proviene da un iperavvicinamento al soggetto, fino a che la comicità scaturisce da talmente vicino che sembra sgorgare dallo sguardo dello stesso individuo che subisce il destino comico. Anche quando si autocita nei camerini di prova degli abiti, che sembrano rievocare la sequenza del rivoltolamento negli abiti in Nuvole in viaggio.

Mies Vailla Menneisyyttä
Finlandia, 2002, 97 min.
regia: Aki Kaurismäki; sceneggiatura: Aki Kaurismäki; fotografia: Timo Salminen; scenografia: Markku Pätilä; Costumi: Outi Harjupatana; musica: Oliver Kube; suono: Jouko Lumme, Tero Malmberg; montaggio: Timo Linnasalo. Cast: Markku Peltola, Kati Outinen, Annikki Tähti, Juhani Niemelä, Kaija Pakarinen, Sakari Kuosmanen, Tähti. Produzione: Aki Kaurismäki con Sputnik Oy in co-produzione con Yle/Tv1, Pandora, Zdf Arte, Arte, Canal+; distribuzione BiM.