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The Rules of Attraction
Anno: 2002
Regista: Roger Avary;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 13-11-2002


The Rules of Attraction

The Rules of Attraction

Regia di Roger Avary

sceneggiatura: Roger Avary da un romanzo di Bret Easton Ellisbr> fotografia: Robert Brinckmann
montaggio: Sharon Rutter
effetti: Ray McIntyre
musica: Tomandandy
costumi: Louise Frogley
interpreti: James van der Beek, Shannyn Sossamon, Ian Somerhalder
durata: 110'
nazionalità: Usa-Germania, 2002
produttori: Greg Shapiro per kingsgate films/Roger Avary Filmproduktion
distribuzione: Lions Gate Films, 4553 Glencoe Avenue, #200, Marina del Rey, CA 90292, Usa, tel. 1 310 3142000 e-mail [email protected]

Due aspetti saltano immediatamente all'occhio: la struttura che unisce i deliri del dorato periodo (non a caso a metà degli anni ottanta, come denuncia una tesa e bellissima colonna sonora, punteggiata di malinconici "come sentivamo", uno per tutti lo struggente Pil di "Could be wrong, I could be right") dei neo-minimalisti come Easton Ellis - che deviavano impercettibilmente l'inquietudine del minimalismo classico alla Carver, fissato sulla quotidianità di singoli gesti ripetitivi, su binari di trasgressione diffusa al punto da diventare corrispondente omologazione di sentimenti - al pantano che ne scaturiva, con i protagonisti che si ritrovano come all'inizio invariabilmente nell'epilogo, come se tutto il racconto non potesse che servire come flusso di coscienza che non porta a nessuna soluzione. Dall'altro la bellissima attenzione agli aspetti fotograficamente più espressivi: le invenzioni sono tutte necessarie alla narrazione; ad esempio l'innamoramento di Sean e Lauren è una lunga sequenza composta di infiniti carrelli attraverso il campus deserto che si dipana parallela nei due spazi verticali in cui è diviso il quadro, finché il classico campo/controcampo subisce una trasformazione cubista, che mostra i due volti che si parlano, ma sullo schermo sono entrambi rivolti verso di noi a seguito della divisione dell'inquadratura in due metà autonome e poi con una magia elettronica si sciolgono nella situazione di incontro.

Non sono gli unici momenti in cui le esigenze narrative impongono le scelte registiche: la sequenza del classico viaggio in Europa riprende i modi del diario di viaggio sciorinato in velocità, con un testo quasi rappato, impossibile da memorizzare e ipercinetica serie di impressioni di luoghi e scopate e droghe e mezzi di trasporto... Riassume i mesi di viaggio in un flusso unico che è un film a sé, con i ritmi del clip e idee e affabulazioni per un altro miliardo di film.
Ma sicuramente fin dall'inizio risulta piacevolmente spiazzante il sistema di raccordi che presentano la situazione ingarbugliata dove incontriamo i tre protagonisti: la festa "Fine del mondo", solo l'ultima di un'infinita serie, desunta dalla scansione preferita dei romanzi di Easton Ellis: la frequenza di parties. Gli autori hanno adottato la tecnica di tuffarsi a seguire uno per volta i tre, a cominciare dalla ragazza che ha deciso di perdere la verginità - situazione classica, ma in questo caso un po' particolare - e però si ritrova a farlo in modo imprevisto e con spiacevoli effetti collaterali. Ma poiché tutto nel testo sembra essere correlato a l'intero mondo (quel microcosmo è fine a se stesso e alle proprie feste di campus), non si trova di meglio che, conclusa la prima introduzione, riavvolgere il nastro e andare a ritroso a trovare il filo di un'altra matassa, riallacciatisi, ci si trova a seguire la vicenda di Paul, caricatura di gay, che consente serie di siparietti per nulla provocatori (ormai), ma comunque divertenti. L'ultimo personaggio introdotto è Sean, il vero protagonista, spacciatore sfrontato sicuro disé, mentitore e sciupafemmine, che coltiva una passione per una ragazza sconosciuta che gli scrive lettere in carta viola; non scoprirà di chi si tratta - e noi con lui - finché ci viene svelata la sequenza di loro incontri inconsapevoli per lui - e per noi, benché si indugi un attimo co nla mdp oscillante interdetta all'inizio su un personaggio che poi non compare più fino al suo suicidio -: una sequenza di fermi di fotogramma che ci richiamano alla memoria le situazioni in cui avrebbero potuto incontrarsi e per la sua distrazione ciò non è avvenuto, causando il suicidio della giovane, e anche il suo rinvenimento è intrecciato strettamente alla vicenda di Lauren, aggiungendo legami a connessioni, ingarbugliando ancora di più.


E anche questo aspetto narrativo viene sviscerato: infatti in alcuni momenti il regista gira e monta sia gli eventi come si presume si siano svolti in una presunta storia che segue un flusso principale, sia quelli che (come in Lola rennt) avrebbero potuto verificarsi a partire da quella situazione. In ogni modo: solo enunciati, mostrati in successione, oppure - ed è il caso più estremo - di nuovo dividendo lo schermo e facendo scorrere da un lato il momento come presumibilmente si va svolgendo (cioè con un nulla di fatto tra Paul e Sean) e sul lato sinistro viene rappresentata la sequenza che Paul avrebbe sognato, con un'appassionato abbraccio omoerotico.

Il tutto immerso in un'atmosfera di feroce ironia e anche auto-ironia (nelle prime sequenze, l'interlocutore di Lauren, che lei elegge a suo sverginatore, in realtà farà svolgere il servizio a un giocatore di football, mentre lui riprende la scena, badando solo al risultato: presenta se stesso come collaboratore di Tarantino, dunque il curriculum di Avary)
E l'ironia disputa con l'aleatorietà il maggior condizionamento della pellicola, enunciato nello strepitoso inizio - che comunque regge in quanto a ritmo e sorpresa lungo tutto il film - con la ricorrente immagine delle palle di biliardo disposte sul tavolo, come i personaggi. Una metafora un po'risaputa, ma acettabile se si pensa all'infinità di proposte innovative e soluzioni espressive, come l'insistenza sulle labbra di una bionda dozzinale (nel senso che sono tutte uguali e fatte in serie a dozzine), per operare una scelta tra ripiegare su una masturbazione telematica, giocare a carte o scoparsela. Assistiamo alla scelta su quelle labbra a tutto schermo, ma molti sono i casi in cui s'innescano situazioni ridicole, il cui triste sarcasmo scaturisce dall'esasperazione fantastica della realtà da campus, al punto che non si riesce più a discriminare la destrutturazione del romanzo da quella operata dal testo originario su quella realtà.
Esistono anche contraddizioni, probabilmente volute, per non congelare in un periodo preciso il racconto: ad esempio il manifesto zapatista non poteva esistere a metà degli anni ottanta, eppure si amalgama all'ambiente perché è fuori dal tempo, come in generale l'intervento più strutturale della sceneggiatura è proprio sul tempo, scoordinato, rallentato o velocizzato, tradito ribaltando la successione di taluni eventi. Dunque lo spaesamento più ricercato è proprio quello sul flusso temporale, mentre l'unità spaziale è preservata dall'apparente invalicabile limite del campus. Fanno eccezione situazioni isolate in veri e propri siparietti che appesantiscono il film, cercando il registro farsesco (le due apparizioni dello spacciatore latinos, l'incontro di Paul con la madre e la performance del cugino al bar, provocazione in un ambiente alto borghese irrisolta): forse sarebbe stato meglio accorciare il prodotto, rinunciare ai siparietti isolati e accentuare la claustrofobia.

Interessante anche l'apparato citazionista, che culmina in una sequenza di Der Student von Prag che scorre su uno schermo di una stanza del campus, confuso con riferimenti a ER, con lo spassoso medico che diagnostica, serio, la morte di un ragazzo di cui non sente il battito cardiaco, eppure si muove: degno del demenziale primo Landis, ma anche il libro delle malattie veneree come deterrente per le tentazioni trova radicamento nelle infinite e onnivore frequentazioni di Avary, da cui sicuramente si potrebbero ricavare le matrici per le infinite battute che costellano il testo (ad esempio: "Scopare senza farla venire sarebbe come fare domande in una lettera") e che contribuiscono ad avvicinarlo all'originale di Easton Ellis, che procedeva a massime sconclusionate come queste. È un testo così ipersemantizzato che in ogni più piccolo anfratto si annidano segni e strizzatine d'occhio, che vanno in ogni direzione: dal citazionismo alla negazione per opposti di quanto appena enunciato, o più spesso invece ripetizione stratificata su più livelli e bande di un singolo concetto in una sinestesia assordante. Ad esempio, mentre la ragazza si taglia le vene nella vasca emerge il pezzo filologicamente corretto come collocazione epocale "I can't live", mentre durante la citata sveglia del sabato dell'incontro tra Sean e Lauren l'intera sequenza dura come la canzone di Donovan (Colour, ricordate? "Yellow is the colour of my true love's hair, In the morning, when we rise..."). Ecco: è come se tutto fosse inserito sui fili della memoria, ma intrecciati di sapori, avvenimenti, musica e scopate in modo indissolubile, ma alla rinfusa e senza soluzione di continuità, come il film, prodotto allo stesso modo, in un flusso costante di coscienza della mdp lasciata libera di scorrazzare per il campus, appuntando ogni tanto la sua attenzione su un fermo di fotogramma o una zoomata o il messaggio suuna lavagna di un'aula deserta. Questo è l'aspetto più filologico della traduzione da Easton Ellis, quello che tradisce meno il testo di partenza.
Ovviamente non poteva che concludersi ad anello laddove era iniziato, ma con la partenza di Sean sulla moto, come un cavaliere solitario (però la sequenza dell'asfalto è debitrice di Lynch, Lost Highway). Ultima sorpresa di un film spesso spiazzante sono i titoli finali, che come per l'intero plot scorrono al contrario.