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Zamani barayé masti asbha - Il tempo dei cavalli ubriachi
Anno: 2000
Regista: Bahman Ghobadi;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Iran; Kurdistan;
Data inserimento nel database: 22-04-2001


Zamani barayé masti asbha

Zamani barayé masti asbha

Il tempo dei cavalli ubriachi

 

E anche oggi un nuovo morto nelle carceri turche. Una ragazza si è lasciata morire di fame per protestare contro il razzismo, le condizioni inumane di detenzione, pena comminata spesso per reati di opinione o semplicemente perché appartenente all'etnia kurda...

 



 



Regia:  Bahman Ghobadi
Sceneggiatura:  Bahman Ghobadi
Fotografia:  Saed Nikzat
Montaggio:  Samad Tavazoi
Musica:  Hossein Alizadeh
Suono:  Morteza Dehnavi, Medhi Darabi
Produttore:  Bahman Ghobadi

CAST

Nezhad Ekhtiar-Dini
Amaneh Ekhtiar-Dini
Madi Ekhtiar-Dini
Ayoud Ahmadi
Jouvin Younessi
gli abitanti di Sardab e Bané

Durata: 80'
Anno: 2000
Nazione: Iran - Kurdistan

Distribuzione:Key Films



Premi: Festival di Cannes 2000: Premio Camera d'or;


Sul fotogramma scuro spicca la voce della bambina: "laggiù", dice. E noi non vediamo, ci è impedito dall'oscurità; seguiamo la descrizione della composizione della famiglia, udiamo rumori e immaginiamo, applicando categorie preconcette, che però, forzate da quella tenebra a confrontarsi con nulla, vengono lentamente messe in dubbio dall’attesa di avere conferme, proprio perché non sono suffragate da una qualsiasi immagine, che sarebbe affogata nella pletora di suggestioni scaricate ogni giorno dai media. Questa è l'idea che sintetizza l'approccio: un mondo sconosciuto, che possiamo solo immaginare e quando si apre l'otturatore, quando la luce finalmente ci permette di distinguere le immagini da associare alla voce – purtroppo malamente doppiata – scopriamo un mondo; autentico e filtrato da ogni retorica per quel bagno di buio orale attraverso cui siamo passati. La conferma di quello che ci attendiamo mescola esotismo e suo andamento quotidiano, aprendosi su un mercato tipico, ma nel quale seguiamo percorsi che tendono a ridurre il contributo esotico a favore della percezione di normalità. Si direbbe che gli itinerari dei ragazzi nello spazio circoscritto dal mercato siano pedinati nella scarsa luce invernale con l’intento di cogliere la familiarità con le occupazioni frenetiche a cui si trovano assegnati: incomprensibili per noi sono le cataste di saponette, e questa inadeguatezza di parametri occidentali fa scatenare serie di domande plausibili: a quale occupazione sono intenti i bambini? che incidenza hanno su quella società le merci esposte dal film? per quella comunità quale valore possono avere quei quaderni contrabbandati in modo così rocambolesco? possibile che bambini così piccoli siano a tal punto senza tutela di un adulto? Probabilmente il regista vuole far affiorare senza eccessive spiegazioni alcune curiosità e quindi lascia che la camera trascorra su tutte quelle faccende, conscio degli stimoli prodotti dalle situazioni selezionate: dalla ripresa dall’alto che gioca sulle tenui dominanti pastello delle saponette – inquadratura con la quale abbiamo il primo accostamento a quel mondo tramite i suoi cromatismi – all’avvolgimento delle derrate in carta da giornale, eseguito con grande concentrazione, fino ai volti dei giovanissimi a frotte rivolti verso di noi nella falsa soggettiva dei "caporali" sul cassone dei camion, che selezionano chi può essere ammesso a spaccarsi la schiena trasportando pesantissimi carichi, accomunati ai muli in una delle prime sequenze dove la macchina a mano si manifesta per accostare bambini e animali, documentando da vicino l’enorme fatica a cui sono sottoposti; uscendo così all’intensa luce della montagna kurda si termina il prologo.


Ammirevole esilità della trama. Minimale. Non è quasi credibile che un lungometraggio possa reggersi sulla neve soffice che mantiene sempre sovresposta la luce gelida riflessa dalle montagne, immaginate nella nebbia metaforica di Lavagne di Samira Makhmalbaf, dove Ghobadi era attore e il "male di vivere bambino" si volgeva in tragedia. Tant’è vero che diventa ancora più miracoloso che i fondamenti della narrazione in questo film kurdo non indulgano ad alcuna forma di metafisica e persino il lirismo sia ridotto all’estrema semplicità dei volti: ci sono le mine, ma fuori campo e ridotte a racconto ("molti di noi sono morti in questo modo"), ci sono le imboscate, però i bambini non si accasciano al suolo esanimi in risposta ad uno sparo, ci sono i confini e tuttavia il filo spinato si scavalca. Semplicemente si tenta di sopravvivere con tenacia e senza alternative.

Eppure gli autori sfiorano trappole che al confronto gli scoscesi pendii affrontati dai "cavalli" (in realtà meno nobili asini, muli, bardotti) sono autostrade: il cumulo di sfiga dei fratellini resi orfani da una mina – e straziante è il trasporto funebre del padre riverso sul mulo, presentificazione dell’angoscia premonitrice della ragazza narratrice ("Anche mio padre è là ora", aveva sussurrato, completando "e sono preoccupata") – poteva diventare fastidioso accanimento; la denuncia del lavoro pesantissimo in mano ad un autore italiano avrebbe reso odioso il ragazzino vessato a furia di pietismo e insistenza e i primi piani non avrebbero avuto questa naturalezza, bensì sarebbero stati caricati di infinite vacue analisi da indovinare attraverso visi stucchevoli e imbambolati, mediate dalla retorica di sceneggiatori alla Starnone; invece il grande mestiere del documentarista aiuta Ghobadi a non insistere mai, a staccare la macchina da presa al momento giusto: non pressa i soggetti oltre il sostenibile e utilizza la sensibilità al paesaggio per evitare di venire assorbito dalle pure espressioni dei bambini, alle quali la cinepresa non può non affezionarsi, tanta è la genuina intensità che ne scaturisce.


E per l’altro aspetto, quello domestico, caldo al punto che anche la dominante cromatica, la quale all’esterno si uniforma al terso azzurro del cielo, in casa fa prevalere i toni del giallo e del rosso; il regista conosce a tal punto il soggetto delle sue riprese che riesce a selezionare un taglio dell’inquadratura in grado di documentare sia l’intimità dei fratelli, sia le occasioni pubbliche, differenziando soltanto l’angolazione verticale degli interni: dall’alto, quasi volendo avvicinarsi di soppiatto, inquadra i due ragazzini, quando ad esempio il fratello chiede scusa alla "studiosa" della famiglia, promettendo un quaderno, oggetto di desiderio spasmodico, da procurarsi oltre confine; accovacciata invece anche la cinepresa nelle situazioni "pubbliche" all’interno delle case, quadri d’insieme quasi con valenze antropologiche. Eccezionali nelle loro interpretazioni i bambini e luminosi negli sguardi almeno quanto i cieli tersi o i controluce lividi che annunciano neve e fungono da sfondo per file di ragazzini che si dipanano sui crinali, vengono schierati dal potere (quello militare di controllo o quello altrettanto rude dei datori di lavoro), si applicano alle occupazioni quotidiane sui tetti e tra gli arbusti di una natura bellissima e terribile.


Ma la caratteristica più bella è che ad un’analisi dell’uso dell’immagine non risulta un documentario, nemmeno quando insiste a evidenziare la presenza di un invisibile confine, che si materializza alla fine e viene simbolicamente (l’unica metafora adottata) oltrepassato clandestinamente. A tal punto relega all’inizio la componente forzatamente documentaristica – dando le coordinate (l’origine heri del regista, le modalità di ripresa) e affidandola alla voce della ragazza che funge da io narrante, puntellando i singoli episodi minimali con le sue notazioni, le sue paure – che i dati sui fratellini, i luoghi, tutto ciò che è informazione passa su uno schermo scuro e viene registrato lungo i titoli. Le immagini non vanno contaminate con documenti, esse sono il film, dunque ribadisce il carattere di fiction che assumono le inquadrature, senza tuttavia negare che una larga componente di quanto è documentato da esse è realtà. Un documentario però è un’altra cosa e allora la fiction si avvale di un obiettivo, che è la storia, equivalente al bisogno di documentare la morte della vecchia in Il vento ci porterà via di Kiarostami ("È vero che un film senza storia non ha molto successo presso il pubblico, ma bisogna anche sapere che una storia deve fornire indizi e alcune caselle vuote. Queste ultime, come nelle parole crociate, devono essere completate dallo spettatore. Chi guarda, come un detective privato in un intrigo poliziesco, dovrà trovare l’intreccio", Abbas Kiarostami a proposito proprio delle critiche a Il vento ci porterà via), a cui Ghobadi ha partecipato: curare Madi, il fratello maggiore – handicappato e ridotto a freak degno di Tod Browning – tenero in ogni sua espressione, senza apparire oggetto di compassione pelosa, è il progetto del racconto: come la vecchia non morirà nel plot di Kiarostami, anche Madi non verrà adottato per venir guarito, ma allo stesso modo il paesaggio (la zona in entrambi i casi è il Kurdistan iraniano) s’impone come protagonista principale della storia che in ambedue i film narra solo e semplicemente il fluire della quotidianità. In questo Zamani barayé masti asbha però è soltanto molto più dura la realtà e senza infingimenti ci viene subito rivelato quanto lo sia attraverso il canto dei ragazzi trasportati da un carico all’altro ("La vita mi fa invecchiare, facendomi viaggiare"), da un lato all’altro dell’immaginaria linea di confine, evidenziata nell’episodio della locanda in territorio irakeno, in tutto uguale all’altro versante per lingua e atmosfera, indigenza e merci, ma dove al dinaro si sostituisce il toman, che sono entrambi elementi estranei, poiché simboli alieni alla cultura kurda, tanto che il ragazzino "iracheno" non vorrà soldi in cambio del quaderno – che assurge in questo modo a oggetto simbolo, capace di legare ogni singolo tassello del film – ed elargirà a Eyub, il fratellino "iraniano" sulle cui spalle ricade la responsabilità della numerosa famiglia, anche consigli utili per districarsi nella giungla di caporali sfruttatori. Questo è un altro episodio ripreso con camera a mano, alla quale dunque viene affidato il compito di illustrare le espressioni più genuine: di lavoro durissimo, con quelle lunghe teorie di uomini e muli nella neve, domestiche (i compiti, il tè, il solitario confronto di Madi con il poster cinematografico di un culturista) e di solidarietà.


Stupefacente è la simbiosi con il "cavallo": la fatica pesa in modo equivalente sugli umani come sui quadrupedi, mai adibiti a cavalcatura, tutti sono bestie da soma e tutti sono ubriachi di lavoro; anche gli asini per sopportare il freddo vengono ubriacati – almeno una bottiglia di acquavite a testa per ogni viaggio – al punto da diventare ingovernabili nel momento del pericolo, quando un’imboscata getta nella confusione la carovana di contrabbandieri. È il momento di maggior pathos: Eyud è preso dal panico, è palpabile la sua disperata angoscia nel momento in cui è più evidente la sua solitudine nell’affrontare le avversità, momento ancora più cinematografico in quanto è ormai venuta meno la narrazione in voice over della sorella mandata oltre confine a sposarsi, episodio che accentua la solitudine del ragazzo. L’asino ubriaco e imbarazzato dal carico, gli spari delle guardie e il dirupo scosceso, il resto della carovana sparpagliato e in rotta ala ricerca di scampo dalle pallottole: le riprese sono ancora più concitate e fanno uso di molti dettagli sugli sforzi degli uomini e degli animali, le inquadrature brevi e movimentate aumentano a dismisura il senso di smarrimento, le sue urla rotte dal pianto e dalla paura sono richieste di aiuto lancinanti.


Strazianti quanto l’addio a distanza alla sorella-narratrice, il cui matrimonio combinato dallo zio (ennesima umiliazione per Eyud, schiaffeggiato per essersi ribellato) subirà un intoppo, andata in sposa anche lei oltre confine: come ogni merce è stata contrabbandata e pure Madi è stato oggetto di scambio, infatti non segue la sorella, perché la neo-suocera non vuole uno storpio a cui badare, che viene dunque barattato con un mulo, quello stesso da riportare in Iraq per venire venduto. Un’altalena tra i due versanti che non fa altro che annullare le differenze tra un lato e l’altro del confine, dove la fatica di vivere è uguale da qualsiasi punto si guardi.