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Ye Ben - Scappando di notte
Anno: 2000
Regista: Hsu Li-kong; Chi Yin;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Taiwan;
Data inserimento nel database: 16-04-2001


Ye Ben

Ye Ben

Scappando di notte

Visto all'16° festival internazionale di film con tematiche omosessuali - Torino


 



Regia:  Hsu Li-kong, Chi Yin
Sceneggiatura:  Wang Hui-ling, Wang Ming-xia
Fotografia:  Tsai Cheng-hui
Montaqgio:  Chen Po-wen
Musica:  Chris Babida

CAST

Rene Liu ....Wei Ing'er,
Lei Huang .... Hsu Shaodung,
Yin Chao-te .... Lin Chung,
Tai Li-jen .... Huang Zilei.

Produzione: Zoom Hunt Int., Central
Motion Picture Co.,
roadband Films
Durata: 123'
Anno: 2000
Nazione: Taiwan

 -

 


Un meccanismo prezioso, la struttura, al servizio di una saga lunga sessant’anni, recitata calibrando i canoni dell’Opera Kun con il racconto contemporaneo e il gusto retrò per il melodramma che collabora alla ricostruzione della memoria, affidata a sua volta ad un delizioso congegno epistolare, a cui consegnare vertiginose ellissi, spiegazioni di antefatti, dislocazioni spaziali dell’azione. Il tutto immerso in un anello che alla fine, riallacciandosi con il dialogo a distanza iniziale, rivela la reale natura impossibile, immaginaria, lirica (nel senso non a caso più teatrale) dell’alternanza delle due voci off che si rilanciano i ricordi, come in una corrispondenza, che cadenza il film – opportunamente, considerando che tutto prende inizio da uno scambio epistolare tra un giovane violoncellista cinese studente in Usa e una giovane maestra che conosciamo mentre scorrazza in bici nella Cina degli anni Trenta – ma soprattutto impone la lontananza come retaggio del rapporto tra i tre amici-amanti, due dei quali sono protagonisti, fidanzati e narratori, il terzo – l’attore, il girovago, il divo, il vero "personaggio", capace di scatenare passioni, di sconvolgere gli animi – sembra subire l’intreccio, destinato a scontare la seduzione del suo fascino misterioso, che spesso coincide con il suo impegno teatrale che condiziona la sua intera esistenza, rivelando il vero ruolo dell’attore di teatro Kun, l’adesione totale che già era insita nella assunzione del nome del personaggio interpretato anche al di fuori della scena. Infatti noi lo conosceremo sempre soltanto come Lin Chung, eroe di una struggente storia, il cui titolo coincide anche con la canzone che funge da filo conduttore degli snodi più importanti e che risulta essere un ulteriore canovaccio che scorre lungo la pellicola, creando un ulteriore schema da rispettare nella sinfonia di situazioni ricorrenti e linguaggi che costituiscono il film.



Non era facile incastonare tutti i diversi criteri narrativi senza rendere evidente soltanto l’impianto talmente arzigogolato e complesso, eppure gli autori riescono a condurre una narrazione lineare, andando a riprendere i molti fili della narrazione, senza mai perdere il bandolo: infatti la sequenza iniziale già sintetizza senza rivelare tutto, si limita a suggerire. Vediamo due epoche mescolate in modo da concentrare l’atteggiamento rimembrante con la rappresentazione (possiamo solo immaginare che il vecchio aggirantesi per New York sia lo stesso giovane che suona il violoncello): "L’opera si nasconde alla luce del sole, ma io sono capace di scoprire i suoi pezzi nascosti", dice la ragazza, intrufolandosi tra le quinte a spiare il bell’attore misterioso, da cui promana una forza calamitante, per lei annidata in quegli occhi – "la sua calma e lo sguardo che non riesco mai a incrociare" – come per Shaodung, il narratore-musicista, sta nella forza della voce: "Non è stato ciò che ho visto, ma quello che ho sentito", che blocca ogni sua percezione (e pure il tempo si sospende, o meglio scorre via per lasciare spazio a quel canto) e nel classico colpo di fulmine quella voce cattura la sua passione per sempre. "La sua voce mi penetrava e mi arrivava fino al cuore"; difatti lo vediamo arpionato in mezzo alla sala del teatro, incapace di muoversi e la ripresa si incentra sull’orecchio fissato nella posizione più consona alla percezione, quasi che davvero l’amato sconosciuto attore lo penetrasse, cosa che fisicamente non avverrà nemmeno al momento culminante in cui i due ragazzi fuggono e nella più classica iconografia, la neve avvolge l’auto rimasta senza benzina nella notte, potrebbero finalmente consumare la loro passione, ma il perbenismo impedisce che Shaodung si conceda una simile trasgressione; non si rivedranno più, nella riedizione del più tradizionale amour fou, che trova parziale riscatto al di là dell’oceano, nel triste soliloquio di un vecchio di fronte alle tombe affiancate di sua moglie e del proprio amante, amato pure da lei tacitamente fino alla dolce ammissione (immaginata?) nel soliloquio al tramonto.


C’è un compito quasi didattico che si assume il film e che non si rivela quasi mai: sottesa a tutto il film scorre la volontà di svelare parzialmente cosa sia quella componente ipnotica dell’opera – in fondo la figura di Lin Chung potrebbe essere soltanto un’allegoria del teatro Kun – legandola alla natura e alle percezioni, persino la richiesta di imparare l'arte del Kun da parte di Shaodung (che possiede un proprio bagaglio artistico di esecutore) e le lezioni con l strumento a fiato tra i due intimi amici serveono a sottolineare la grazia particolare di chi danza, canta e recita contemporaneamente. Si promana una sensibilità singolare a partire dalle piroette di Lin sul palco, che si riescono ad assaporare grazie ai rallenti che evidenziano la centralità del corpo che diventa insieme di movimenti aggraziati su un palco spoglio: la stessa quinta blu dietro alla quale assistiamo al confronto tra i due giovani, sempre rimanendo sul lato di Shaodung, quello dello spettatore, l’attore rimane dietro la cortina irraggiungibile nella sua arte: "Io non ho mai avuto amici". Ci sarà anche la splendida discesa nel baratro che coincide con l’occupazione giapponese e i lavori da facchino, un excursus a volo d’uccello affidato alle lettere che riprendono a varcare il mare, finché anche la giovane Ing’er raggiungerà Shaodung a New York: sessant’anni di vita e storia affidati alla rievocazione di pochi minuti, parole che completano il racconto, ma non competono con la "fatale" decisione (fuori campo in omaggio alla consegna di permanere nel non detto) di fuggire dalla sauna insieme; o con le rappresentazioni teatrali – magari improvvisate sulla Grande Muraglia, quando tutt’e tre felici accompagnano, giovani, le loro passioni che si intrecciano come i vari registri narrativi – o con la bolla di magone che sommerge nel momento in cui si ascolta, in terra straniera, la canzone che dice "La strada verso casa è lontana".


Ecco: "fatale" è il termine più preciso per seguire il film nella sua essenza, poi le strutture linguistiche adottate emergeranno tutte, rimeditando sui singoli tasselli incastrati nei vari livelli di racconto.