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Wojaczek
Anno: 1999
Regista: Lech Maiewski;
Autore Recensione: Ofelia Nunzi
Provenienza: Polonia;
Data inserimento nel database: 22-05-2000


Wojaczek - Corato

Wojaczek (POLONIA) - Il più nazionalista dei film in concorso, in bianco e nero, ciclico, come la vita di un uomo che ha un inizio ed una fine, nello stesso punto. Il settimo film del regista Lech Majewski, partito per New York nel 1981 dove ha conosciuto Basquiat e in lui ha visto delle somiglianze con la storia del poeta Wojaczek. Dopo la morte dell’artista americano Majewski ne scrisse la sceneggiatura poi diventata film per la regia di Julian Schnabel. Quando uscì nelle sale il regista non vi si riconobbe, evidentemente per i compromessi di produzione al quale il testo originale era stato sottoposto e così a Varsavia ritrovò una storia e un Basquiat polacco (o forse era Basquiat un Wojaczek americano). In poco tempo il suo progetto su Wojaczek ha preso forma: pochissimi soldi, dodici giorni di riprese, protagonista non professionista Krzysztof Siwczyk perfettamente fotografato in bianco e nero. La telecamera, nelle prime battute, ha lo stesso effetto di un parto, che presenta il poeta sfondare una vetrina di un ristorante, completamente ubriaco. È la storia vera di un polacco accompagnato dalla sua donna e dal suo miglior amico Wiktor, l’altrettanto bravo Andrzej Mastalerz. È uno spaccato, è un fuori dal tempo, è un rifiuto della paura di morire, di tutte le paure, del confronto, del dogmatismo religioso. Wojaczek è autolesionista, distruttore, alcolizzato, figura che affascina quanto affascinava quella del più gran dandy della storia, Oscar Wilde, è rispettato, è un giovane poeta, è un suicida all’età di 26 anni. Le strade della città sono presentate da un cagnolino nero, una sorta di Cicerone polacco, che corre per i borghi e mostra, mostra la decadenza di una società abbandonata. Prodotti ungheresi e cecoslovacchi nei supermercati, tanta vodka e tanta brutta musica dalle belle parole. Il montaggio è cattivo, freddo come i colpi di sordo metallo che scandiscono i cambi di tempo o d’inquadratura; la testardaggine del poeta invece, che prima di morire sbatte i fogli sul tavolo per riordinare le sue poesie, ha il suono di un uomo incontrato alla stazione dallo stesso Wojaczek, che batte la testa sul muro. Poesie bellissime e di difficile interpretazione e traduzione sono i dialoghi più lunghi del poeta, che vola dalle finestre degli appartamenti preso dalla voglia di uscire prima, senza passare dalla porta, dalle scale. Surreale bianco e nero, che dopo la morte di Wojaczek, rimane tale, torna indietro da dove e venuto, un vicolo buio di una fredda città decadente, da dove è possibile scorgere la sola R di restaurant, simbolicamente la R di Rafal (il nome del poeta). Donne grasse, personaggi fuori dal tempo, poeti e musicisti improvvisati, è questo lo scenario vuoto della vita di un poeta di difficile comprensione. Al regista la vita di Wojaczek è passata sotto gli occhi quando era ancora un liceale, quando i giornali scrissero che il poeta era morto togliendosi la vita e fra i banchi cominciarono a circolare le prime copie delle sue poesie. Si diceva di lui semplicemente che sfondasse vetri mentre adesso è il caldo il ricordo di un ragazzo che non aveva mai paura, né per la Stasi né per il regime di quegli anni (‘60/’70), né di morire.