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What Women Want
Anno: 2000
Regista: N.Meyer;
Autore Recensione: adriano
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 13-03-2001


What Women Want

What Women Want

Il mondo anglosassone è pervaso da un ripiegamento sul passato senza precedenti; va cercando in episodi o maniere del passato di ricostruire un tessuto connettivo capace di amalgamare il gusto: e allora western invadono il piccolo schermo bbc, ogni giorno ci sono film di retorica bellica risalenti alla seconda guerra mondiale e nei disco-pub il 90% della musica risale a venti o trent’anni fa.
What women want è il risultato della stessa ricerca di marketing documentata dal film di cui è pretesto: può piacere a una folta rappresentanza di pubblico femminile, condizionato dal revival di quel periodo riproposto in modo martellante dalla bbc: la vittoria bellica, i tardi anni 40 e tutto il decennio successivo; quello che è grave è che quel pubblico, invece di indignarsi per come viene trattato, non si accorge di assistere ad un’operazione vetusta e quindi cade nella trappola di assumere come adeguati e addirittura liberatori (la battuta finale che finge di ribaltare i ruoli, mantenendo in realtà invariati i rapporti di forza: è lui a esclamare "My hero", rivolgendosi a lei, un appellativo normalmente riservato all’uomo) i presupposti sciovinisti del film, che permangono tutti a dispetto del finto intento di mostrare la trasformazione di un fallocrate. Si ritrova il maschio sciovinista, in conflitto con l’altro sesso, apparentemente succube ma in realtà motore unico del mondo: una sorta di remake di quelle operazioni maschiliste che cercavano di inglobare le prime prove di indipendenza effettuate dalle donne più emancipate dell’immediato dopoguerra, tant’è vero che Helen Hunt dovrebbe essere il prototipo della donna in carriera che soffia il posto di copy-writer a Gibson. Il risultato è disastroso, per quella patina di obsoleto che neanche la vivacità del bamboccione Gibson riesce a salvare dalla convenzionalità ripetitiva delle situazioni e dalla falsità palese della ricostruzione ambientale: praticamente si ricrea un harem in cui viene rappresentata quasi ogni tipologia stereotipata di donna, ammassata in un gineceo agli ordini di Alan Alda, un’agenzia pubblicitaria (che nel caso del film è spudoratamente al soldo di Nike, il prodotto da pubblicizzare, e Apple, il portatile con la mela smangiucchiata bene in vista). Quanto di più risaputo possa immaginarsi. E anche più deprimenti sono le macchiette di donne esterne al plot, che rimpolpano il repertorio.
Non varrebbe la pena di parlarne il giorno dopo la chiusura di un festival del cinema delle donne che ha visto la partecipazione di 14000 spettatori che hanno seguito ben altri contenuti, se non fosse per mettere in guardia dallo sforzo di conformismo profuso e proporre l’allontanamento di Helene Hunt da tutte le produzioni dopo questa prova persino meno entusiasmante di quella scialba prestata in Cast Away. Tuttavia anche nelle peggiori vaccate si può trovare qualcosa di buono: in questo caso sono proprio quei riferimenti ai musical che pervadono l’intera pellicola a mostrare la grande professionalità profusa per una causa così infima. La sequenza clou che vede Gibson alle prese con i prodotti femminili, pars pro toto di un universo a lui conosciuto solo per l’aspetto di tombeur de femmes. Infatti non è tanto l’escamotage, davvero imbarazzante per scarsa immaginazione, di consentirgli di captare i pensieri delle donne a caratterizzare la pellicola, quanto per il confronto che finalmente pone in atto dopo aver supinamente assunto tutti gli atteggiamenti provenienti dalla educazione impartitagli da una situazione descritta nel prologo come speciale a prodursi un intertesto che insegue le atmosfere delle pellicole musicali. In realtà quel prologo sulla carriera della madre soubrette è il primo degli infiniti segnali di sperticato amore per il musical sparsi lungo tutto il film, che arrivano giù giù fino agli episodi giocati sul doppio binario del pensiero in voice over da un lato e dall’altro col dialogo piano e ripetuto quotidianamente. Unico motivo di interesse è dunque ripercorrere le tappe fondate sul repertorio di Sinatra, la cui presenza pregnante lungo tutto il plot è un ulteriore segnale di quanto si sia voluto mostrare una falsa evoluzione di un carattere, che comincia la sua conoscenza del femminile con Dance a music e termina con Night and day. Infatti è con quell’insegnante di seduzione che fu Sinatra che Gibson approccia la materia della sua ricerca: l’eterno femminino. Ciò che è interessante è come viene costruita la sequenza: una prova d’attore notevole ripetuta due volte nei dettagli con lievissime differenze, ma sempre con le movenze del musical al punto che risulta un balletto tra cerette e collant, con il finale ritardato dal rallenti (il secondo addirittura indiretta citazione del lampo di Frankenstein) e le molteplici plongée collocate al punto giusto per rievocare i finali delle coreografie dei film di Bing Crosby e Frank Sinatra, quando per consentire un punto di vista più godibile del gesto finale la cinepresa si alzava inquadrando la precisa posizione del ballerino. Il risultato della sequenza viene un po’ spostato dalla sua filologica impostazione dall’esigenza di compiacere al gusto presupposto femminile di frapporre una parentesi comica del tutto inutile, se non per confermare il principio reazionario e machista della pellicola che dileggia il mondo gay attraverso la sorpresa della figlia sbalordita alla vista del padre in reggiseno, omofobia confermata da una sequenza successiva. Ma anche la corte fatta alla barista o l’episodio al supermarket, le prove dei vestiti della figlia, il momento ambientato in chinatown con le esplosioni elettriche simili a fuochi d’artificio sono tutte situazioni che costituiscono un repertorio del musical.

Il finale, confermando la giustezza sostanziale del punto di vista dell’uomo, non fa che dichiarare i propri intenti restauratori; rimane soltanto quella patina di tristezza per un mondo di lustrini e paillettes seducente e ben costruito al servizio del peggior svago.