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Vite Perdute - Voleur de vie
Anno: 1998
Regista: Yves Angelo;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 08-07-1999


Voleur de vie
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Vite Rubate


Regia: Yves Angelo
Soggetto: Véronique Lagrange,
tratto dal romanzo islandese "Le voleur de vie" di Steinunn Sigurdardottir

Sceneggiatura: Yves Angelo, Nancy Huston
Fotografia: Pierre Lhomme (AFC)
Scenografia: Jean-Baptiste Poirot
Montaggio: Thierry Derocles
Suono: Pierre Gamet, Gérard Lamps
Costumi: Yvonne Sassinot de Nesle
Produttore: Jean-Louis Livi
Direttore di Produzione: Marc Vade
Distribuzione: Istituto Luce
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Formato: 35 mm.
Provenienza: Francia
Anno: 1998
Durata: 105'
Alda ... Emmanuelle Béart
Olga ... Sandrine Bonnaire
Jakob ... André Dussolier
Bulle Ogier
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É incredibile come il 3 settembre della Bretagna sia così gelido: il compleanno di Alda è fatto di cappottoni, luce livida, vento che si indovina gelido, ma non quanto la esacerbata insegnante. In realtà le riprese furono iniziate nel gennaio del 1998 sull'isola di Ouessant, ma Yves Angelo aveva soprattutto in mente un omaggio al rigore luterano della cupa natura di Dreyer (La Indre Mission era la corrente protestante della famiglia adottiva del regista scandinavo di Gertrud e la famiglia delle sorelle di Angelo alligna una pletora di pastori che compenetrano la casa con la propria visione di un Dio non troppo benigno), per approdare ad una pacificazione diversa da quella della devozione integralista di certe 'onde del destino', pur mantenendo le linee guida del sacrificio femminile.

("L'obiettivo essenziale di Dreyer è di porre l'essere umano di fronte alla sofferenza, alla solitudine e al terrore, affinché, attraverso la sua distruzione fisica, si realizzi la sua resurrezione artistica. Perciò è inevitabile che talvolta la morte si affermi sulla vita, ma non è necessario. D'altra parte - è stato osservato - Dreyer propende senza dubbio per l'affermazione della vita, affidata alla donna secondo certa tradizione letteraria nordica e occidentale; per questo i suoi personaggi principali sarebbero soprattutto caratteri femminili, purificati attraverso il dolore fino al martirio". Angelo Solmi, Tre maestri del cinema, società editrice Vita e pensiero, Milano, 1956, p.56).

Le reminiscenze del colossale regista si trovano negli echi di Vampyr (il cimitero sulla cui vista si spalanca il mondo delle tre donne ha i tratti lugubri del capolavoro espressionista di Dreyer), nella luce fiamminga presa di peso da Dies Irae, il taglio di capelli e gli sguardi di Alda provengono direttamente da Marie Falconetti, intensa interprete di La passion de Jeanne d'Arc; ma soprattutto il debito maggiore va ascritto a Ordet, con le sue tensioni intime e il concetto di morte prima del suo reale avvento.

Infatti Olga, placidamente incarnata nella sua 'aridità' da Sandrine Bonnaire, è già morta nel suo intimo e quindi accoglie come una ratifica, un sollievo, la sopravvenienza della morte reale, dopo aver soffocato ogni pulsione: "Morirò perché il mio corpo si è ribellato. Non lo aveva mai fatto, neanche quando gli rifiutavo il piacere. Secco per punizione, secco di tristezza, come degli occhi che abbiano pianto troppo. Il dolore della mia vita è stato più forte di quello della mia morte". Non ci sono orpelli nella descrizione della presa di coscienza dell'imminente propria dipartita: una recitazione realistica rende plausibile persino l'apparizione dello spirito del padre, iconograficamente debitrice di Ordet e preparata dalle voci estratte dalla infanzia delle due sorelle, o le fantasie erotiche nel bagno del ristorante, unica concessione alla sensualità, confinata in un mezzo fuori campo a metà tra sogno e pulsioni carnali.

La Passion de Jeanne d'Arc viene anche esplicitamente citato dal professore che lo mostra alla platea, mentre spiega ai suoi studenti con intenti didattici: "Si evince come funziona il potere". Il riferimento al capolavoro sulla Pulcelle d'Orleans prosegue nella trasformazione del trasporto mistico di Jeanne d'Arc riletto attraverso una passione che cerca sfogo nell'intensa attività sessuale, anche offrendo una interpretazione dei famosi sguardi dell'eroina con l'inquadratura del volto di Sigga durante la sua prima esperienza amorosa: lievemente di spalle, il rapimento riflesso nei grandi occhi mentre finalmente si appropria della propria sensualità, suggendo tutto il piacere che sua madre si era negata. Una speranza di serenità almeno per un elemento della famiglia. Purtroppo bisogna segnalare una certa reticenza nelle riprese delle scene di sesso, una pruderie che inficia l'ottimo lavoro svolto per eliminare la morbosità: una più scoperta descrizione dei rapporti sessuali non sarebbe gratuito voyuerismo, bensì segnerebbe l'incontrovertibile unione con quella natura arida, ma potente duplicata dai caratteri dei personaggi e aggiungerebbe per contrasto valore al sacrificio di Olga, che si macera limitandosi ad origliare gli incontri della sorella, descritti con grazia dalle riprese sulle scale di legno della vecchia e un po' sinistra casa. Con Olga assistiamo al ripiegamento su se stessa di una donna la cui missione coincide con quella della chiesa luterana devota al Dio poco propenso al perdono: "Salvezza nella rinuncia" si dice nel film a proposito dei Catari, oggetto di una illuminante discussione con il professore di storia.

Alda invece svela una capacità di evolvere imprevedibi le all'inizio: passa dalla provocatoria allusione pubblica al vecchio aborto da lei scelto come fuga da legami soffocanti, che rimane in sospeso tra lei e il su o amante, e dall'esordio in classe ("Non cercate di fermare il tempo. Senza d i esso non c'è storia" rivelando come il ladro di vite sia il tempo, che ce le sottrae, costringendoci sempre ad inseguirlo mentre trascorre), cinico e proiettato verso un futuro che lenisce i lutti relegandoli nel passato, pur c osì tangibili sulle lapidi alla soglia di casa periodicamente riproposte anche per la presenza di una pazza estratta ella stessa dall'immaginario del cin ema scandinavo, per giungere ad un epilogo che al contrario non è reclina to sul passato, ma lo accetta finalmente con serenità e senza la ricerca spasmodica di una passione inebriante ("Tavola di Natale per tre: niente è cambiato e tutto sparirà"); l'accettazione della caducità a cui si ribellava la sua sessualità sfrenata, un modo per superare il disagio che si evidenzia nel quotidiano atteggiamento scostante, è la logica conclusione per la sequela di sguardi distaccati sulle lapidi, privi di qualsiasi tentazione metafisica, è l'approdo per il continuo indugio sulle onde che si infrangono sulle falaise e per l'attenzione consapevole insita nelle inquadrature fisse sugli oggetti della casa, illuminati in modo che rivelino il loro messaggio universale. Dalla lezione di Gertrud proviene ad esempio l'inserimento del quadro che spicca sul ballo tra Alda e la nipote Sigga: si tratta non casualmente di una riproduzione di L'Isola dei morti di Böchlin, a sottolineare un'intrusione all'interno della casa di quel cordoglio senza liturgia che aleggia lungo tutto il film senza mai trasmettere il senso ingombrante della morte latino, pieno di rimpianto: qui la morte è una presenza costante nella vita, arrecando anche senso soprattutto in relazione alla natura e trova un sunto nella inquadratura ravvicinata della bara di Stendhal, il professore suicida per amore, che trova pace nella fossa. La matericità del tumulo in evidente sintonia con i movimenti della bara, la naturalezza con cui questa viene accolta dalla terra non in campo lungo come il resto della silenziosa cerimonia durante la quale si avverte soltanto il vento, ma con un piano ristrettissimo fatto di dettagli, comprendono la concezione del rapporto morte/natura più della retorica esagerata che si coglie nella messa in scena del suicidio nell'Oceano, un po' banale e troppo forzatamente crepuscolare nel suo titanismo e nello sguardo dall'alto della scogliera sul naufragio altrui degno di Lucrezio.

A volte il tentativo di evocare il cinema colto induce alla sentenziosità, come la storia del Sufi che aveva paura del rinoceronte, conclusa con la domanda allusiva: "Perché, questa è vita?" o la stucchevole storia della madre dello spasimante di Olga, smemorata e accudita dal padre, usata malamente per offrire un esempio al maschile, speculare alla figura sacrificale del personaggio di Sandrine Bonnaire, di cui si esplicita la complementarità della sorella che si pone a confronto con i Catari, dicendo che si sentiva parte della stessa perfezione, "Solo al contrario: invece di dire no, dico sì a tutto". Troppo estranea al contesto la lunga chiamata in causa di Beckett, per insistere ulteriormente sulla mistura di disperazione e umorismo nero, il testo che conferma la privazione di sensazioni e l'assenza di comunicazione viene citato con lo scopo di proporre una sterzata radicale nel finale su un messaggio più sereno, fin troppo pacificato e ispirato: "Non mi preoccupo più per nessuno, anche i miei pensieri sono spirito e la vita è sempre da vivere". Particolare piacevole risulta l'inquadratura finale sul volto e sugli occhi lucidi di Emmanuelle Beàrt: che correda proprio l'ultima frase sulla vita: l'intero quadro sembra apparentabile all'Anna Karina di Godard.