NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


Una noche con Sabrina Love
Anno: 2000
Regista: Alejandro Agresti;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Argentina;
Data inserimento nel database: 24-07-2001


UNA NOCHE CON SABRINA LOVE

 

regia e sceneggiatura
Alejandro Agresti

fotografia
Arnaldo Catinari

montaggio
Stefan Kamp

musica
Paul van Brugge

produttore esecutivo
Pablo Bossi

produzione: DMVB Films France, Patagonik Film Group Argentina
provenienza: Argentina
anno: 2000
durata: 100'
distribuzione: Buena Vista

"Niente, non succede niente: come in questo schifo di paese immobile"

Una Noche con Sabrina Love



interpreti:
Cecilia Roth .... Sabrina Love
Tomás Fonzi ....... Daniel Montero
Fabián Vena ....... Enrique
Giancarlo Giannini .... Leonardo
Julieta Cardinali .... Sofía
Mario Paolucci .... Carmelo
Carlos Roffe .... Parini
Norma Aleandro ....... Julia

 

 




Non è facile viaggiare in Argentina: il Fondo Monetario ha fatto danni irreparabili con la complicità neoliberista di politici criminali e la privatizzazione di strade e linee aeree, l’assenza di ferrovie e l’estensione del territorio rendono improbo lo sforzo di spostarsi. A questo si aggiungono i presîdi e le lotte che caratterizzano questo periodo di indigenza e disoccupazione e la mobilità è definitivamente bloccata; congelata in uno stallo che non prelude a nulla di buono. Come la speranza e l’atmosfera della provincia, soprattutto nello sguardo supponente dei porteños; già La Ciénaga offriva un ritratto impietoso delle regioni settentrionali, isolate, arretrate e immobilizzate, il giudizio di Agresti è forse meno spietato perché ammantato di quella sensazione di superiorità dei bonaerensi distaccati dal resto del paese, che si evince dalla fotografia di quei luoghi della capital federal che sono quelli delle cartoline un po’ malinconiche in questo periodo di crisi nera pilotata da Cavallo (un mostro dirigista neoliberista responsabile della demenziale politica economica dell’ultimo decennio – che sta per essere copiata da Tremonti – per il quale il regista incredibilmente girò uno spot): la prima immagine della capitale in pieno sole infatti è dedicata all’obelisco sfumato sullo sfondo e poi saranno inanellati tutti gli scorci tipici, dalla Recoleta (non senza auto-ironia e brividi per quali personaggi eminenti sono sepolti in quel cimitero aristocratico) ai bar di fronte all’obelisco di notte con luci e riflessi. Quelle stesse macchie di neon riflesse sui vetri saranno preludio al passaggio dall’età dei simulacri negli specchi a quella dei simulacri di vita televisiva.
Difficile viaggiare in Argentina, eppure è uno dei luoghi in cui maggiormente si sente chiara la spinta a perdere le proprie radici, abbandonandosi alle estensioni solitarie, dove di nuovo tutto risospinge verso le radici in un circuito malinconico. Era un tuffo in un universo altrettanto alieno quello che portava la giovane porteña di El viento se llevó lo que nella provincia patagonica, ma in quel caso il percorso era inverso, centrifugo e molto simbolico, carico di retaggi ideologici e di realismo magico; invece in quest’ultimo film – favoletta un po’ estranea dallo stile del caustico regista di Buenos Aires Viceversa, forse perché prodotta con capitale anche disneyano – persino il viaggio non ha epiloghi surreali come la fine della strada e i presupposti sono opposti: se nel profondo sur del paese la follia creativa sembra risolvere la sensazione di inferiorità vissuta a causa della lontananza dal centro, nelle paludi del nord inondate dai colossali fiumi, già influenzate dai miasmi del Chaco (meglio precisati da Lucrecia Martel), prevale l’idea di non potersi affrancare da un destino immoto e quindi il movimento risulta centripeto. Il regista usa un testo famoso nel paese sudamericano, un romanzo molto più sbilanciato nella descrizione del viaggio di formazione, tanto che, avendo sbrigativamente risolto il road movie, per lunghe sequenze della seconda parte di Una noche con Sabrina Love si ha la netta impressione che gli autori non sappiano come arrivare alla fine, questo perché nel romanzo sono meno bozzettistici gli episodi di rocambolesco avvicinamento alla capitale, per Daniel rappresenta la vera conquista, di cui è incarnazione Sabrina (puttana anche la città?): il ragazzo provinciale che segue le orme del fratello, perduto nella metropoli; e su questa doppia figura di sprovveduto ci sarebbe da discutere, perché il maricón della tradizione machista sudamericana non si emancipa, ma rimane inchiodato alle mossettine e ai cliché. Mentre il macho si integra immediatamente nel tessuto connettivo della grande puttana.



Eppure permangono alcune intuizioni che consentono di assolvere l’autore di Una noche con Sabrina Love (e non per condiscendenza verso il regista di Buenos Aires Viceversa): prima tra tutte quel bisogno di rimarcare ripetutamente l’ossessione infantile – e mai risolta – per gli specchi, centuplicata in svariate occasioni (peccato che lo Stefano Accorsi argentino renda il tutto così superficiale con una recitazione degna degli eroi di Muccino, che appiattisce l’idea, riducendola a storiellina disneyana, che trascorre superficialmente da una situazione all’altra) tutte comunque riconducibili a quel non-detto luttuoso, e tuttavia mai lugubre, che troverà sfogo tra i due fratelli così diversi che comunicheranno forse soltanto a distanza e attraverso una cassetta video. E appare sintomatico che si adotti il mezzo tanto aborrito dall’eroe in absentia: il padre dei due giovani, artigiano, vetraio, che nei flash-back ambientati nei primi anni settanta (godono di obiettivi e inquadrature diverse in grado di conferire una patina di tempo ai siparietti spesso ripresi in grandangolo) avverte il pericolo dell’avvento della Tv. Un paradigma immerso in un age d’or, sprofondato nel passato – splendida l’inquadratura che vede sparire il se stesso ragazzino dietro all’enorme specchio in cui si riflette l’immagine del padre –, quando la gente si specchiava e si vedeva come era, mentre ora ai riflessi degli specchi si è sostituita la televisione, vero oggetto della polemica di Agresti, che adotta un nuovo linguaggio – meno intransigente, per arrivare a un pubblico più largo – per recuperare il discorso interrotto dalla figura del ragazzino di Buenos Aires Viceversa, che muore per la telecamera, di cui avrebbe fatto buon uso, documentando un neorealismo senza mediazioni, ucciso da uno sbirro, come avviene ad ogni latitudine negli Stati di Polizia, dove i Ministeri dell’Interno sono retti da irresponsabili assassini con un passato, un presente e un futuro da militanti fascisti, servi delle esigenze delle multinazionali e dei loro 8 Grandi fantocci.


La convergenza sulla capitale da parte di Daniel Montero coincide con un aumento di riflessi di luci sullo schermo, di interni e di studi di registrazione, fino alla nemesi finale dove il lutto passando attraverso le telecamere potrà forse essere elaborato da Enrique, il fratello ormai irrimediabilmente porteño, ma incapace di affrancarsi dalle pastoie di quella stessa cultura provinciale che gli impedirono di svelare la sua omosessualità ai genitori. Si trascorre da una realtà immobile, ma tangibile e esperibile, a una contraffatta, costituita di riflessi e immagini artefatte, che corrisponde però esattamente alla ricerca dietro allo specchio. Il bambino Daniel in uno spezzone amatoriale ci viene mostrato in posa alla Lewis Carroll mentre sparisce dietro una superficie riflettente creata dal padre artigiano: la televisione è lo specchio contemporaneo dietro lo scudo della quale si cela e si cerca la realtà.
Rimane l’idea che resti irrisolta la crescita del giovane, ridotta a semplice scopata verso la quale lo conduce una società machista: dal traghettatore al camionista, dal poeta bukowskiano alla ragazzina ricchissima che abita da sola un loft da sogno e – guarda caso – sta facendo riprese con quell’altro occhio riflesso della telecamera nel locale in cui incontra Daniel; allo stesso modo irrisolto è il rapporto con la metropoli: "La città ti lusinga, ma poi ti presenta il conto", tentacolare e infida, doppia, come Daniel ambiguamente riflesso in tre specchi quando risponde con una menzogna sulle condizioni dei genitori alla domanda del fratello.
Invece perfetta nei suoi meccanismi è la struttura composta dalla missiva letta dall’inizio (locale in cui Sabrina sta leggendo il prologo della lettera del concorso) alla fine (quando ne conclude la lettura con il solito espediente malinconico della voice over), intercalata a episodi mai lasciati a se stessi o giustapposti con tagli di montaggio crudeli: ogni volta il cambio di situazione si coglie gradualmente; con una dissolvenza sonora, un lento cambio di location o addirittura l’uso di ambienti palesemente ricreati per la fiction: da antologia la carrellata che segue Cecilia Roth-Sabrina nel suo accompagnamento da cicerone tra gli studi che ripercorrono una squallida vita media, resa meno appetibile dalla evidente reclusione in schemi, eseguita in una fluida carrellata che ricorda un po’ le serie infinite dei vecchi corti di Rybczynski trascorrendo da un ambiente all’altro.


L’intera operazione sembra riassumere tutti i luoghi comuni che conducono alla globalizzazione del gusto: infatti sono riconoscibili frammenti della poetica di Agresti, disinnescati e resi innocui dal bagno nella cooptazione nel cinema mainstream. Quelle emersioni di sensibilità localista si riducono a semplici contaminazioni di un modo di raccontare l’intreccio supinamente appiattito sulle strutture del cinema hollywoodiano, realizzato da un autore che rinuncia alla sua autorialità, lasciandola affiorare sporadicamente, sforzandosi invece di sfruttare i repertori riconoscibili da quella cucina internazionale del cinema nel quale si diluiscono i succulenti temi dei saporiti piatti regionali: l'esatto opposto del processo postmoderno che tendeva a esaltare la radice per combattere l'omologazione funzionalista modernista; eppure contemporaneamente appaiono guizzi interni all’idea stessa di spettacolo televisivo, tanto che ricostruendo la struttura dell’opera tutto rimane contenuto in uno spettacolo scollacciato televisivo, nobilitato dal raccoglimento di quella lettera struggente che utilizza i canoni del racconto edificante: ad esempio, quel passaggio dalla lettera al piano sequenza che rivela la piatta immobilità della provincia andando a finire sul ragazzo che si abbandona nella notte sui gradini di un porticato segue le modalità del cinema classico, permettendosi poche zone commentative; in quelle si nasconde il pregio del film, camuffato da semplice espediente linguistico.

Uno di questi momenti è il campo/controcampo tra il ragazzo e il padrone che gli spiega come si dipanerà il suo approdo a Buenos Aires: si tratta di una lunga sequenza, apparentemente inutile, poiché poi tutti i passaggi descritti a parole verranno ripercorsi nelle tappe del viaggio, invece serve a introdurre alla vera dimensione di racconto che interessa Agresti: quello verbale degli eventi (in questo caso addirittura quelli che dovranno avvenire) che costellerà tutto il film, fatto di brevi sketches dei fatti documentati immersi in molte parole che li anticipano, li descrivono, e alla fine li commentano. Forse è un modo per far sentire la provenienza letteraria da Pedro Marial, sicuramente rappresenta una diversa maniera di raccontare diminuendo la centralità dell’immagine, ridotta a fotografie, per lo più frontali (ad esempio nella balera, al tavolino, annoiati tutti per conto proprio), come a voler isolare istantanee di momenti significativi ma congelati, privi di artifici come la scrittura di Marial, mentre la parola può evocare intere esistenze (il racconto di Sabrina che scivola da uno studio televisivo all’altro).

Come quella si possono individuare molte altre situazioni di relazioni a due, caratterizzate per lo più da campi/controcampi, tutti però diversi e quindi sorge il dubbio che in realtà si sia cercato di mettere in scena tutti i possibili modi di riprendere un dialogo, adattando ogni situazione al livello di consapevolezza sviluppato dal ragazzo finché alla fine supera il bisogno dell’interlocutore con cui confrontarsi. Così rimane solo con la telecamera: lì l’alternanza si azzera, completando il gioco di specchi che fa coincidere la sua coscienza con se stesso e con l’interlocutore inesistente che finalmente riceverà la notizia della morte dei genitori: insomma anche visivamente si assiste alla "formazione" di una figura e dunque alla fine si spiega la fissazione sugli specchi, rendendoli assorbimento e superamento degli infiniti campi/controcampi del film, uno in particolare è evidente, quando la costruzione della situazione che vede i due ragazzi sul letto, con lei disponibile e con le tette al vento e lui impacciato che si dà del coglione allo specchio (di nuovo, incombente e enorme, rotonda superficie riflettente), sottraendosi alla situazione di confronto con l’altro da sé per rifugiarsi nel dialogo con la propria immagine, sia premeditato, ma soprattutto dal punto di vista del linguaggio, volendo creare una ulteriore situazione che sottolinei ancora una volta una ricerca sotterranea al testo sul processo di crescita attraverso il confronto rispetto all’onanismo solipsistico. Però non è chiaro se la soluzione finale di fronte alla telecamera non sia il sintomo di un mancato risultato o piuttosto il rifugio in un nuovo specchio corrisponda all’emancipazione della propria capacità espressiva.