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The Quarry
Anno: 1997
Regista: Marion Hansel;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Belgio;
Data inserimento nel database: 06-08-1999


The Quarry
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The Quarry


Regia: Marion Hänsel
Soggetto: dal romanzo di Damon Galgut
Sceneggiatura: Marion Hänsel
Fotografia: Bernard Lutic
Montaggio: Michele Hubinon
Scenografia: Thierry Leproust
Costumi: Yan Tax
Musica: Takashi Kako
Suono: Henri Morelle
Produzione: Marion Hänsel, Eric Van Bueren, Josè Maria Morales, Rene scholten, Jaqueline Pierreux
Formato: 35 mm.
Provenienza: Francia, Belgio
Anno: 1992
Durata: 1 hr. 49 min.
Distribuzione: Istituto Luce

Il fuggiasco ... John Lynch
Captain Mong ... Johnny Phillips
Il Pastore...Serge Henri Valcke
Valentine...Oscar Petersen
Small...Jody Abrahams
La Donna...Sylvia Esau

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Alcuni momenti del film lasciano immaginare sviluppi poi sorprendentemente disattesi come la lunga preparazione alla confessione sempre rimandata, ma costantemente sospesa sul volto triste del fuggitivo, di cui non si rivela l'arcano che lo spinge a camuffarsi per l'intero film. Spesso infatti viene inquadrato in uno specchio, come a sottolineare la perdita della sua identità, assumendo quella del pastore battista incontrato all'inizio per buona parte del racconto e anche quando riprende il proprio personaggio in fuga questo dato è rimarcato con l'evidenza della camicia rossa indossata fino allo stremo e dall'assenza di un nome. Il rifiuto iniziale di narrare le proprie vicissitudini condiziona l'opera sospendendo il racconto; e questo è l'aspetto positivo. Quello negativo insorge quando a fronte di quel vuoto incolmabile si ribadiscono banalità, si pronunciano battute tautologiche, si insiste su concetti prevedibili con mezzucci quali la definizione da cruciverba del destino e questa seconda direzione ha purtroppo la meglio, proponendo un plot con eventi eclatanti (e purtroppo prevedibili), incarcerazioni, personaggi che agiscono sullo sfondo arido del Transkei, alternando momenti topici a statiche contemplazioni di volti scrutati dall'inquadratura alla ricerca di qualche ispirazione attraverso estenuanti carrellate in avanti a cercare gli occhi accigliati dell'innominato; l'intensità degli sguardi potrebbe anche essere intrigante, ma a renderli poco significativi è la durata degli stessi, né sufficientemente lunga per conferire un'originale ritmo interno al film attraverso la perlustrazione delle facce, né abbastanza brevi da non indurre ad un moto di noia.

I temi che come meteore transitano lungo il film, cercando di lasciare qualche traccia nel diluito spunto della sostituzione di persona, si rincorrono, trovando i motivi di fondo in filigrana nella fuga da cui prende spunto il racconto: la confessione, che riaffiora ad ogni nuovo anello della corsa; l'integrazione razziale, aspetto soltanto accennato come avviene spesso in ambito sudafricano quasi a voler sussurrare l'esistenza di un non ancora superato problema di tolleranza, che vede lo sbirro boero sospettoso della verità, ma disposto a insabbiare indizi pur di condannare i due balordi mulatti (ben tratteggiati i loro personaggi, con toni solo lievemente macchiettisti); la nomadica trasmissione dei ruoli a seguito di eventi drammatici, che agli scomparsi sostituiscono nuovi attori delle loro azioni (il pastore, che aveva cancellato il proprio passato di impiegato perché non dava la felicità, viene rimpiazzato dal fuggitivo, il cui ruolo viene a sua volta ereditato da Valentine) non lasciando trapelare indicazioni sull'effettiva esistenza precedente, in genere immaginata come infelice dai brevi accenni concessi; la riduzione ad animale dell'uomo braccato, a questo proposito sono entrambe molto ben calibrate sia la sequenza iniziale che l'epilogo, in particolare per la scelta dei momenti da ritagliare in dettaglio per restituire il senso di deriva spaventata e folle; il silenzio di Dio, denunciato esplicitamente dallo sguardo speranzoso in un segno di Valentine in fuga nella chiesa, che si trasforma in iconoclasta nel momento in cui brucia la chiesa, inavvertitamente (seppure prevedibilmente), ma senza adoperarsi per evitarne la distruzione, ma addirittura nella lettura delle Geremiadi diventa denuncia dell'atteggiamento ostile della divinità. Forse troppi temi, trattati tutti con eccessiva superficialità.


Quando sembra prospettarsi il flash-back e veniamo preparati a predisporci ad una lunga confessione con vino, tabacco, intimità, … si coglie l'improvvisa virata registica, una predominanza di un presente sordido e una netta negazione del passato impediscono di superare la barriera di orrore rappresentata dalla strada polverosa: rifiutando di esporre gli eventi, si evita la prassi indulgente della confessione cattolica, ma anche si va in direzione opposta rispetto al percorso seguito dalla Commissione sull'apartheid presieduta da Tutu in cui non si giudicava, purché si confessassero i misfatti: infatti non sembra che la riconciliazione abbia apportato i suoi frutti in quella comunità. In compenso si coglie la natura su cui si fonda il flashback: molto comune alla prassi della confessione, la cui negazione è la vera ragione di essere del film, nobilitandone il finale.

Altro aspetto che data la ricorsività del luogo appariva come destinato ad assumere un ruolo più magico è la cava del titolo: in essa si occultano cadaveri e si coltiva cannabis, si finisce con il ritornarvi con treni il cui percorso è ciclico come tutto nel film (il protagonista torna ad essere un fuggiasco con la camicia rossa sbrindellata stremato dai bisogni primari), è un luogo in cui s'incrociano i destini e per ognuno riveste un fascino particolare rappresentando una attrazione irresistibile, ma dalle riprese anonime non si trasmette questa aura.