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Austin Powers - La spia che ci provava
Anno: 1999
Regista: Jay Roach;
Autore Recensione: Luca Bandirali
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 25-09-1999


DA PARODIA intelligente a manifesto triviale: ecco la parabola di Austin Powers, il personaggio creato dall’eclettico attore Mike Myers, con un larghissimo seguito negli USA

DA PARODIA intelligente a manifesto triviale: ecco la parabola di Austin Powers, il personaggio creato dall’eclettico attore Mike Myers, con un larghissimo seguito negli USA. Il primo capitolo della saga ci ha fatto conoscere questo strano agente segreto, un fricchettone gaudente al servizio di Sua Maestà; il seguito, dal sottotitolo "La spia che ci provava", vampirizza l’immaginario così ben delineato all’esordio, e funziona solo in chiave commerciale. Gli ingredienti essenziali del primo Austin Powers erano: la cura della forma cinematografica sino al dettaglio (il film era un piccolo gioiello), dalla fotografia psichedelica alla scelta della colonna musicale; la scrittura comica che alludeva solo in parte al genere parodistico (niente Mel Brooks), e preferiva inventare spunti originali; il ritmo alternato di gag a sfondo sessuale con momenti di azione, o con intermezzi musicali. Nulla di tutto ciò si ritrova in "La spia che ci provava", il cui primo errore è quello di non trovare un’alternativa valida al tema precedente: l’anacronismo di un personaggio dei libertari anni ’60 alle prese coi nostri tempi. Da questo artificio temporale nascevano le situazioni comiche, che invece nel prosieguo sono affidate ad un viaggio nel passato con pochissime prospettive di efficacia: una volta ricomposta la situazione di contemporaneità tra il personaggio e il contesto, mancano i presupposti per il cosiddetto "incidente" comico. La sessualità esuberante di Austin Powers, nel primo film, contrastava con la maschera di prudenza della donna degli anni ’90: le scene di seduzione a base di petto villoso e luci soffuse erano irresistibili per questo motivo. L’espediente narrativo in uso nel secondo film vuole invece che l’agente segreto scopra che la bella Vanessa che lo aveva reso monogamo è un Terminator, che però si riesce a dominare mediante il telecomando della TV; inviata dal Dottor Male, è solo la prima di una serie di trappole mortali che porteranno il nostro eroe trent’anni indietro, nella Swingin’ London che lo aveva visto protagonista. Si cerca qui di rinvigorire una vena comica inaridita col ricorso al linguaggio televisivo e al filone volgare imposto da "Tutti pazzi per Mary". Il primo è rintracciabile nei riferimenti diretti ai programmi-spazzatura come il talk show di Jerry Springer, che il film annette alla propria finzione facendovi partecipare il Dottor Male e suo figlio; l’influenza del video domestico si esprime compiutamente, come scrive il teorico Serge Daney, "nel trapasso epocale dalla passione di essere un altro, propria del cinema, al godimento di essere uno, proprio della televisione", e ciò ha molto a che fare con la ricerca di un atteggiamento comunicativo di "interpellazione", fatto di sguardi in macchina e ammiccamenti allo spettatore (del tipo "Hey tu in sala, sto parlando con te"). E’ stato acutamente osservato che mentre nel cinema moderno la forma di sguardo interpellativa distruggeva (volutamente) l’effetto di finzione del film, nel cinema postmoderno la stessa forma non urta affatto la percezione del racconto: così cambia il rapporto dello spettatore con i codici del linguaggio per immagini, e conseguentemente cambiano i codici. D’altra parte di autenticamente cinematografico, in "La spia che ci provava", non rinveniamo che due figure: una, ripresa dal primo "Austin Powers", è quella dei titoli di testa con le parti intime dell’agente segreto che vengono celate dalle didascalie o da oggetti allusivi all’interno del quadro; l’altra è la lunga sequenza dell’avvistamento dell’astronave fallica nello spazio, in cui il legame di transitività fra le inquadrature è ottenuto tramite la frammentazione del dialogo. Per il resto, come detto in apertura, dominano l’istanza commerciale e il disgusto tanto alla moda nel cinema d’oggi; peccato davvero, Austin ci era simpatico e stava per diventare un culto…