NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


The Naming
Anno: 1997
Regista: Cecil Moller;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Namibia;
Data inserimento nel database: 25-03-1998


The Naming

The Naming

Regia: Cecil Moller
Sceneggiatura:Panduleni Haelundu, Vickson Hangula, Cecil Moller
Fotografia: Willem Barnard
Montaggio: Volker Bucholz
Suono: Burton Reid
Interpreti: Liana Bachler, John Dalton Ashikoto, Matthew Haikali,
Rauna Mannasse, Nande Bachler, Tjeripo Katjangua

Formato: Betacam
Durata: 64´
Provenienza: Namibia
Distribuzione: Cecil Moller No Plot Productions,
PoBox 10553, Khomasdal 9000, Namibia,
tel:(26461) 213490, fax: (26461) 212604

Girato nel villaggio di Lihongo, vicino a Windoek, il film è bandito dalla televisione namibiana ed è dedicato ad un comandante dell´indipendenza, conquistata nel 1990, ucciso a New York il giorno prima della sua laurea. Era un teorico del passaggio dal ¨rivolutionary¨ all'¨evolutionary¨, riassunto dal regista con il passaggio di fase ¨from kill to build¨.

L´inizio risente volutamente di visioni televisive e cinematografiche occidentali, mettendo in scena un ufficio con segretaria efficiente e la casa borghese con i problemi esistenziali à la Strindberg. In bianco e nero e con inquadrature fisse segnate dagli arredi e ingombrate da scale disposte in modo da giustapporsi tra la mdp e la figura intera dei personaggi, che risultano border line e conflittuali verso gli altri, come in Petra Von Kant di Fassbinder. L´impressione di rievocazione di un´atmosfera di disagio tipicamente europea risulta troppo insistita per non essere sospetta e prosegue anche nei dettagli inquadrati durante la parte iniziale del viaggio in auto. Poi, improvvisamente, la mdp si avvicina in quattro inquadrature, al volto di Betty, passando come in un sussulto ancestrale al colore: violento, capace di ferire attraverso il cremisi intenso del tramonto sulla savana. Sono quattro colpi in avvicinamento repentino, che rifiutando lo zoom, richiamano modi selvaggi di rappresentare la presenza dell´arcano nella natura, un misto di ferinità e misteri a cui hanno accesso solo gli uomini non urbanizzati. E si va scoprendo la sottile conduzione della storia da parte del regista.

La situazione muta completamente e le riprese vagano tra capanne tradizionali a rivelare i riti del risveglio e quelli di benvenuto, particolarmente sorprendente il canto stridulo della anziana madre di Betty, attorniata da nipotini, abbandonati dalle madri attirate dal lavoro in città. Il film non si dilunga su questi particolari dello sviluppo della società in Namibia; il regista è più attento ai colori e ad ogni situazione ne attribuisce uno che conferisca al protagonista di quella sequenza una connotazione rituale capace di collegarlo alla terra e alla profonda drammaticità che si indovina possa promanare dai pochi elementi: l´albero vecchissimo che ha un nome proprio, la gallina a cui viene tagliata la testa in macro e non ci viene risparmiato neanche uno dei movimenti del suo tronco (il regista prontamente inquisito da uno spettatore ha risposto che non è un film politically correct perché non lo è la vita) sono gli aspetti con il maggior rilievo, proprio perché la ricerca è volta a far emergere la ctonicità di una terra che racchiude il segreto di una potenza violenta, pronta a scaturire dalle sue viscere, ed è questo il legame più profondo tra gli uomini e la loro terra. Infatti gradualmente si comprende quale distanza vi sia tra i due coniugi: lui nato in Inghilterra, vestito con la tuta della Nike, è uno sradicato non in grado di cogliere l´elettricità che c´è nell´aria della savana (¨Apri gli occhi¨ gli dirà la moglie, quando esprimerà la voglia di andarsene), ha voluto chiamare il neonato Nelson, come l´eroe sudafricano. Ma Mandela è un guerriero nella iconografia occidentale, che però non ha nulla a che vedere con i miti namibiani: difatti lo suocero gli chiede beffardo: ¨Ma cosa ne sai di guerrieri?¨ e gli narra una strana storia di un bimbo che non fuggì di fronte alle iene, perché ¨c´è troppo amore in questo posto¨. Nella porzione di film dedicata alla ragazza è presente la rincorsa al riconoscimento dei luoghi nel ricordo doloroso, quindi l´amarezza per non essere in grado di riappropriarsene a causa della lacerazione inferta dall´aggressione, e il rancore verso i suoi genitori che non si sono ribellati alle razzie. Anche se il padre non sa cosa sia, ella è antropologa, quindi intuisce oltre ad aver vissuto sulla sua pelle (l´episodio narrato dell´aggressione dei bianchi subita da ragazzina è all´origine della sua fuga) l´aderenza ai riti della sua gente ... e le sofferenze arrecate dai razzisti. Infatti dall´intensità di sguardo del padre il regista fa scaturire un nuovo tramonto livido su cui si stagliano immagini di carri armati, cadaveri e botte: tutto ciò fa parte di quella spaventosa energia celata dalla tranquillità della savana, i cui ritmi vanno rispettati (Moller: ¨Cerco di essere onesto con il tempo della Namibia, che non è così veloce¨). Eppure da quello stesso inquietante arcano trae spunto la festa della cerimonia del nome, che dà il titolo al film: s´inizia con lo sgozzamento di un agnello, ripreso in ogni dettaglio con una precisione, che non ha nulla di documentario, perché è attenta più al gesto dello squartamento che alla pura macelleria, più al gusto materico della scaturiggine del sangue che alla documentazione del rito, se non per quel che ne segue (sempre il regista: ¨C´è bellezza anche nella morte¨). Il nome namibiano del bambino sarà Nande, come un re pacifico della Namibia; la danza fa il resto: per la prima volta nella sua vita Martin, il giovane yuppie nato in Inghilterra si butta a ballare come i suoi antenati.
Tutto il film è narrato dal bambino che chiosa le intenzioni di Moller, stigmatizzando il suo stato di straniero nel suo paese, guidato dall´amarezza della madre e dalla insicurezza del padre: ¨La sua confusione è la mia forza¨, l´intento è ovviamente di trasformare l´atteggiamento rivoluzionario in quello ¨evoluzionario¨.