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The Avengers
Anno: 1998
Regista: Jeremiah S. Chechik;
Autore Recensione: luca aimeri
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 22-12-1998


luca

The Avengers - Agenti speciali

Tit. or.: The Avengers; regia: Jeremiah S. Chechik; soggetto: dalla serie televisiva scritta da Sydney Newman; sceneggiatura: Don MacPherson; prodotto da: Jerry Weintraub; musiche: Laurie Johnson (tema originale), Joel McNeely; fotografia: Roger Pratt; costumi: Anthony Powell; scenografia: Stuart Craig; montaggio: Mick Audsley; cast: Ralph Fiennes (John Steed), Uma Thurman (Emma Peel), Sean Connery (Sir August de Wynter), Patrick Macnee (voce originale dell'Uomo Invisibile), Eddie Izzard (Bailey), Eileen Atkins (Alice), John Wood (Tribshaw), Keeley Hawes (Tamara); produzione: Warner Bros.; Usa, 1998

Sguardi retrospettivi deformanti, cinema-souvenir

UNIVERSAL MARKET

Avengers
Uma

Gli investigatori dell'incubo surrealfuturibile immatricolati nell'albo dell'immaginario televisivo nell'anno 1961 tornano in questa ultima fetta di fine millennio andando ad affollare la schiera di supereroi (buoni, cattivi) di varia provenienza trasposti sul grande schermo in un sempre-più incalzante processo di catalogazione-della-catalogazione, minuziosa filtratura e ripescaggio di semi pop (dimenticati, di nicchia, come le cards science-fiction della serie "Mars Attacks" recuperate da Tim Burton; o macroscopici ma mai risolti per quanto già investigati - la dinamica coppia Batman&Robin dalle strisce agli albi, dai telefilm ai cartoons, infine alla serie cinematografica), che suppone il fotogramma come cornice più definitiva. Una catalogazione nervosa, onnivora, quasi che con il millennio si dovesse chiudere a chiave il bagaglio in soffitta, lasciandolo ammuffire, dimenticandolo: fumetti mainstream e underground (Il corvo, Sprawl...), artisti (Basquiat...), musica (Last Days of Disco, Velvet Goldmine...), cinema (Boogie Nights…), tv e telefilm (Mission: Impossible ancora prima di The Avengers o Zorro), senza contare i remake che si moltiplicano e che vieppiù bersagliano inutilmente film importanti e/o riusciti, che non necessitano riscritture (Getaway, Diabolique, The Jackal)... Tutto pare dover essere annotato o riannotato sui rulli di celluloide, sottolineato, evidenziato, e liquidato: papiri da consegnare a una (supposta) nuova storia. La tecnica svolge un ruolo importante: la ridistribuzione della serie Guerre Stellari previo restyling digitale è paradigmatica. Esiti estremi del post-modern? crisi di creatività, collasso di un immaginario saturato? ansia "storicistica"? Campionamento dominante: al cinema come nella musica, ma in molti casi senza intuizioni rielaborative. In The Avengers quest'ultima carenza è più che lampante: cinema asettico, congelato, ricordo riportato al presente (anzi, al futuro: back to the future, ambientazione 1999) ma senza calore.

SOTTO LA NEVE

Swingin' London 1999. I "nuovi" agenti speciali si muovono in una Londra svuotata al pari di quella originaria. La città è deserta, spopolata fuorché dai protagonisti dell'avventura. E' una Londra incagliata nel tempo: il mondo della storia è sospeso in un futuro spolverato di particelle di passato chic, o piuttosto la Londra anni '60 è stata immersa in una soluzione di Futuro Liquido e sigillata dentro una palla di vetro? Come un souvenir: "se capovolgi scende la neve". Il diabolico progetto di Sir August de Wynter (Agosto d'Inverno?) non fa che rafforzare questa suggestione visiva: l'ultimo intervento terroristico sulle condizioni meteorologiche (da cui il nome del personaggio) immerge la City proprio in una bufera di neve. Non solo: fin dai titoli di testa, elegantemente retrò (in odore di 007 e di Bass), l'elemento dell'acqua è presente o ricreato graficamente, e bolle d'aria la attraversano potenziandone visibilità e presenza. Una cartolina subacquea, un plastico immerso, tra bolle e neve artificiale; potrebbe essere una formula che sintetizza il film e l'operazione nel suo complesso,cinema-souvenir.

Un souvenir di qualcosa di distante, lontano nel tempo ma reso presente alla memoria: la serie televisiva inaugurata nel 1961, The Avengers, che, tra cambi di cast e correzioni di rotta, divenne un successo televisivo internazionale, propose una tipologia di avventura e di eroi innovativi rispetto al panorama dominato da Perry Mason.

Un souvenir (la "palla di neve") tanto kitsch quanto glam: il collezionismo fornisce all'oggetto una patina di artisticità che lo riscatta dal kitsch. Il cult(o) della serie, l'"altezza" del modello, il plastico che inevitabilmente è una riduzione dell'originale.

Ma si tratta di un souvenir che non ha niente a che vedere con una qualche nostalgia da parte degli autori: la scaltrezza, il tentativo dell'Operazione di successo in un presente di revival, sono evidenti. La nostalgia piuttosto resta nello spettatore che si affezionò all'epoca alla serie tv e che non riesce a ritrovarsi in questa riedizione pur nel rispetto dell'originale: in questo senso The Avengers-the movie assolve pienamente alla funzione di souvenir - "fa ricordare assomigliando all'originale" - ma in negativo, sottolineando l'assenza, non colmando il vuoto. D'altra parte sono trascorsi oltre trent'anni: The Avengers-il serial, dato il successo riscosso all'epoca, ha certo influenzato l'immaginario, ha determinato un gusto, ed è stato naturalmente superato dai pronipoti (i primi "X-Files" non potrebbero esserne la filiazione science-fiction?); quella stessa formula oggi appare datata e svuotata dei tratti innovativi se, come accade nel film, gli autori non si danno la pena di rimpolpare, attualizzare, rinfrescare, ma, al contrario, vivono di rendita.

La swingin' London 1999 è livida come un bianco e nero metallizzato ed è quanto di meglio il film possa offrire (e quando di un film ci si riduce a dire che "ha una bella fotografia" non è forse tutto detto sulla pochezza dell'insieme?): la fotografia leviga le superfici con tonalità fredde, fa tesoro dell'assenza umana nel paesaggio, evidenzia le geometrie degli spazi, privilegia punti prospettici che permettano di cogliere insiemi ordinati, gioca sulla distanza e sui volumi. Si punta sulla dichiarazione della finzione per raggiungere la surrealtà: l'eleganza forzata dei quadri, le simmetrie su cui s'incentra, spingono ancor più il vuoto in cui si situa l'azione. Una Londra risolta come una serie di cartoline, o, ancora, come un modellino (rigorosamente sotto la pioggia/acqua o la neve).

I tratti distintivi dei protagonisti sono, come da copione (quello dell'originale, e quello dello stereotipo dell'inglese sullo schermo), l'eleganza e lo humour. Abito nero, bombetta e ombrello per Mr. Steed, tute in lattice, cinturoni e stivali sixties per Miss Peel(/appeal): due perfetti figurini a contrasto su una tortagelato nuziale. Ma il loro humour non solo è inefficace di per sé (cioè non fa ridere) ma è controproducente drammaticamente: l'impavidità e l'aplomb con cui i due eroi affrontano ogni sorta di pericolo, con cui si gettano nelle braccia della morte, presuppongono un tipo di complicità dello spettatore che difficilmente si instaura in un film, piuttosto funziona (e non sempre) sulla misura più breve del telefilm e sulla distanza (la reiterazione, la serie appunto). Ed ecco che a quel tempo indecifrabile, e a quella sospensione diffusa e sottolineata dalle soluzioni visive, si sovrappone una immobilità più pesante: il monolitismo dei protagonisti, la loro distanza da ciò che vivono, l'incapacità di evolvere con la storia. La mancanza di coinvolgimento emozionale dei protagonisti rispetto alle avventure vissute implica la mancanza di reazione emozionale dello spettatore: impossibile empatizzare con un manichino, impossibile temere per l'incolumità di un personaggio che non ha paura e che, anzi, non perde occasione di raffreddare ulteriormente la materia drammatica con motteggi di spirito tra l'altro, a dispetto delle intenzioni, poco preziosi o arguti. Il tempo è sempre più immobile: anche la velocità di un countdown viene smontata dalla freddezza e dalla lucidità affettata della coppia. Lo sceneggiatore ha tentato di scaldare un po' la minestrina, e ha giocato la carta più ovvia (già presente nella serie tv), la sottotrama amorosa. Ma il corteggiamento reciproco si incaglia a sua volta nei dialoghi: una serie di doppi sensi che anelano alla raffinatezza ma che sono così scoperti e/o insulsi da rendere definitivamente insopportabili i due promessi, tanto che quando finalmente questi si stappano la fatidica bottiglia di champagne non resta che sperare che sia un autentico cimelio proveniente dalla personale cantina dello Steed originale (Patrick Macnee) e che sia ormai aceto puro.

Gli altri personaggi che popolano questa Londra costituiscono una galleria altrettanto congelata di tipi che non riservano sorprese: una perlustrazione filologica del genere spionistico alla ricerca del bizzarro e magari del freak, tanto da arrivare al prototipo della spia perfetta, cioè l'Uomo Invisibile (che sintomaticamente è interpretato proprio da Patrick Macnee: vero e proprio uomo ombra cui non resta che fumarsi la pipa negli scantinati del Ministero in attesa che la farsa e gli scimmiottamenti dei suoi eredi giungano al liberatorio The End).

Sir August de Wynter è l'antagonista della plasticosa coppia, ed è interpretato da uno Sean Connery al quale, in mancanza di spazio drammatico e di personaggio, non resta che insistere per l'ennesima volta sul suo fascino di zerozerosette ben stagionato. Anche lui, una foto ricordo, un souvenir: niente più che un'ovvia intuizione di casting (fare interpretare al più celebre ex-James Bond l'ultima rivisitazione del periodo d'oro della spy story).

L'errore più profondo dell'operazione, come detto, consiste in un fraintendimento gigantesco: riproporre un modello il cui successo consisteva nella carica innovativa infarcendolo di citazioni, rimandi e dejà-vu. Gli originali The Avengers portavano sul piccolo schermo, per la prima volta, una texture surreale tra fantastico, detection e comedy, e l'eleganza e il distacco con cui gli eroi si gettavano nell'incubo e riemergevano funzionava per contrasto, come una valvola di sfogo ricca di glamour in sintonia con la contemporaneità di allora. Al contrario, sul grande schermo, non vediamo che rincorrersi una girandola di elementi slegati, di "stranezze" forzate e sciolte dall'intreccio, di personaggi che sono tipi, di citazioni alla muffa, di modernariato chic; troppo preoccupati di rispettare le singole componenti accessorie del modello, gli autori hanno dimenticato di studiare il funzionamento generale della macchina, i suoi meccanismi interni ed esterni (relativi al pubblico e al contesto/epoca di fruizione). E' evidente che la sceneggiatura, a livello di struttura narrativa e di eventi drammatici, è stata trascurata: il plot è inconsistente e fastidioso nella gratuità dell'idea portante; pare un film costruito come un telefilm/fumettone- e senza nemmeno le pause pubblicitarie, per quanto breve, resta indigesto. Slegata, confusa, la vicenda di cui sono protagonisti Steed&Peel è annegata in una serie di dettagli e situazioni che vorrebbero essere gustosi e ironici omaggi; si viene a creare un "effetto eco": rarefazione di una storia poco interessante che riemerge a tratti ma che resta sfuggente e distaccata... una narrazione inabissata, tra frammenti di neve artificiale fluttuanti come divagazioni non richieste. La volontà era quella di incentrare il lavoro sul rapporto che poco a poco si instaura tra i due protagonisti, privilegiare quindi la "storia di personaggi" rispetto a quella "di intreccio"; ma con due personaggi così rigidi e privi di calore e reazioni, era piuttosto improbabile compiere con successo la manovra. Non a caso, il modello era costruito in maniera opposta. Tutte le storie sono già state raccontate, come pare abbia sostenuto il produttore riprendendo posizioni provocatorie altrui e datate (nemmeno qui un minimo d'immaginazione)? Di certo questo è stato assunto come alibi; altrettanto certo è che di film inutili pare proprio che non si smetta di farne. Infine, non si possono rifare gli Agenti Speciali pensando a Helzapoppin, questa è un'altra certezza: e The Avengers lo dimostra.