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Takhté Siah - Lavagne
Anno: 2000
Regista: Samira Makhmalbaf;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 15-09-2000


Il Cerchio - Lavagne

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IL CERCHIO

LAVAGNE

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Non si esce dal cerchio e dunque le donne non possono fare altro che disperare; e con loro gli uomini, che si vedono rappresentati da pappagalli, egoisti e infantili, dispotici e autoritari. Non c'è remissione, non si vedono riscatti futuri fin da quando con il rumore del parto nasce il film, che dunque finisce con il coincidere con il retaggio femminile; tanto che fin da subito è la macchina da presa ad essere rasente ai muri seguendo la donna, affranta per la nascita della nipotina. Infatti le riprese risultano sempre un po' "costrette", si tende a inserire spesso qualche elemento che disturba il piano di ripresa, tranne sui volti; sembra di portare il cilicio anche noi spettatori.

 

Invece Samira, pur non prevedendo successi, anzi raccontando tragiche storie, permette di immaginare un riscatto con lo studio e di raggiungere una patria, nebbiosa e ostile, ma il traguardo che si cercava di conseguire è raggiunto; poi si può anche morire o lasciare la lavagna come pegno. Non importa: si è tentato di cambiare… e si riesce a imparare a scrivere il proprio nome, non foss'altro che per morire subito dopo.

La circolarità del titolo è ribadita in ogni modo:

_ formale: traslazione retorica dall'immagine. La prima inquadratura prepara ad incorniciare il volto di una donna al di là di uno spioncino che ne riduce ulteriormente (più di quanto già le "suorine" iraniane non siano ridotte) la superficie luminosissima esposta. La matrice metaforica di questa scelta è accentuata dalla lugubre figura in chador che la interpella occupando in primo piano metà dell'inquadratura con una insistita e pervicace immobilità. Ma ancora di più l'intenzione di simboleggiare la condizione di recluse s'evidenzia nel fatto che anche il film è racchiuso tra due immagini uguali: lo spioncino di ostetricia dell'inizio coincide per taglio e fattura con quello della gattabuia alla fine. Ogni occasione per richiamare la contenzione coatta è buona, tanto che assistiamo all’incontro con l’ex compagna di reclusione da dietro le grate della biglietteria: non ci è concesso l’ingresso nella guardiola e in questo modo anche noi ci ritroviamo a vivere incarcerati, come quando il nostro sguardo è bloccato sull'uscio della porta di casa di Paris e ci viene solo offerta la colonna sonora delle urla del padre: la mdp si blocca a testimoniare gli strepiti (e qui dimostra la volontà di non giudicare, ma assistere con sguardo trasparente) solo documentando gli ingressi di sconosciuti, tutti maschi, che s'impicciano della vita della ragazza incinta: una prassi già usata alla fine di Lo Specchio.


_ sintatticamente: la panoramica di 360° all'interno della cella alla fine, a scoprire nuovamente tutte le protagoniste che hanno raggiunto il loro fato a cui non possono sfuggire, è soltanto l'ultimo caso di una serie di movimenti avvolgenti di macchina che fanno perno sui volti al centro dell'inquadratura, illuminati come in un'agiografia di sante costrette al sacrificio, riprese attraverso estatiche espressioni di immagini-affezione. Con quella ripresa si sancisce a doppia mandata la chiusura di ogni possibilità di redenzione.


_ referenziale: attraverso gli oggetti che diventano cinemi; il massimo di questa ossessione retorica è la sigaretta che nessuna riesce a fumare, se non avviata verso il carcere, assumendo il proprio significato di "ultima sigaretta", atto consolatorio e non liberatorio (come era quello di aperta sfida della prima evasa che tenta di fumare per strada), addirittura ammesso soltanto dopo una reprimenda violenta e come concessione per sudditanza, visto che gli uomini presenti vogliono fumare.



_strutturali: attraverso la sigaretta trova completamento la reificazione delle protagoniste: intercambiabili e con gesti simili, mediati solo dal carattere che differenzia le reazioni impulsive e dalla personalità (diversissime, ma omologate dalle convenzioni e dagli abiti, che rendono le differenze soltanto nei dettagli). La scelta narrativa di passare il testimone da una ragazza all'altra ne impone una filosofica che si fonda sulla coazione a ripetere come dato d'impianto, coinvolgendo: gesti, situazioni, atteggiamenti, inquadrature, persino battute.


_ autoriale: lui stesso cortocircuita per le strade coincidendo con la mdp, come già in Lo Specchio, come un flaneur baudelaireano; un dandy distaccato dai casi che occorrono ai suoi personaggi, più attento alle loro percezioni e alle manifestazioni plateali dei loro sentimenti piuttosto che ai travagli intimi, pronto a cogliere frammenti di realtà (i tre suonatori di cornamusa ad esempio), sineddochi di una realtà, che però a tratti e senza preavviso – dunque in modo truffaldino perché collocato in una situazione descritta in una maniera, che perde senza segnalarlo il proprio statuto di realismo, passando a un nuovo registro senza soluzione di continuità – diventa simbolica, come l'episodio dell'incapacità di eclissarsi e tornare al paese: la ragazza sale sulla corriera, ma ridiscende, perché ovviamente non può uscire dal retaggio costruitole intorno.

Anche Samira riprende la struttura claustrofobica che già era stata usata da Kiarostami con Il Sapore della Ciliegia: la montagna ripete la circolarità – a cui per Panahi non è possibile sfuggire – e si nota in particolare con i viandanti senza meta, e questo tantalismo non è alieno nemmeno ai ragazzini contrabbandieri. Però in Lavagne si viene a creare un mondo della mente, quasi astratto, dove le emozioni forti, che si impongono visivamente prepotenti quando le masse fuggono terrorizzate, si propongono come immagini poetiche, quasi pasoliniane (penso al finale di Teorema con l'urlo di Girotti nel deserto): laddove Panahi invece indulge ad un "realismo" scopertamente costruito, la giovane figlia d'arte si inserisce nel grande cinema iraniano di Naderi, in particolare le sequenze ammantate di nebbia sono degne della tempesta di sabbia di Acqua vento e sabbia, poetico racconto anche metaforico di una resistenza agli elementi ostili. Infatti è molto attenta all'ambiente che si amalgama alla storia e non rimane sullo sfondo, tanto che ritorna la struttura circolare nel momento delle soste: in entrambi i casi però serve per raggruppare la comunità (i bambini sullo spuntone di roccia a parlare, narrare, imparare; i viandanti a giocare con le noci, imparare).

Probabilmente La figlia di Makhmalbaf ha buon gioco a far agire masse, anziché singoli: anche quando il pellegrino è uno dei maestri, questi non si pone mai come un alieno spaurito, ma entra a far parte della comunità che dapprima lo respinge scorbutica e, prendendolo a male parole, evidenzia rapporti primitivi dovuti più all'ignoranza che al senso di appartenenza ad una tribù, ma poi lo accoglie anche con un'estemporanea cerimonia che tutela gli interessi della donna.

Tracciare un percorso circolare (quasi un monte del purgatorio per anime penitenti) su una montagna brulla è probabilmente meno coercitivo che ambientarlo nella metropoli, dove lo sguardo vaga attraverso le soggettive rendendo trasparente la realtà, quasi invisibile, perché incompresa dalle donne. In montagna tutto è chiaro, quasi abbagliante, come la fotografia della famiglia Makhmalbaf, che ha cognizione della contrapposizione tra ceti: "I conti servono ai padroni. I libri sono per quelli che stanno seduti". È come se alla pellegrinazione, che assume il ritmo circolare come condanna, si opponesse la cultura, visivamente caratterizzata dalla lavagna: un elemento che fotograficamente taglia la rappresentazione del mondo, stagliando i suoi bordi smussati e la sua assenza di colore su un mondo abbacinato, oppure mimetizzandosi con l'ocra della terra, ma proponendosi come riparo, baluardo, elemento del paesaggio che funge da separé e squarciando il panorama, interrompe la circolarità, mostra una breccia nel ripetersi regolare di esili e bombardamenti, di malattie e bambini. C'è una via di fuga, magari non porta da nessuna parte, ma esiste un'alternativa.

Anzi ne esistono molte e coincidono con le tante versioni che formano un mito nel racconto orale, predisposto dalla sua assenza di testi verificanti ad adattare la narrazione al momento della sua enunciazione; episodio utile sia per contrapporre la verità sancita dalle lettere (e quindi per ribadire il valore dell'insegnamento), sia per allargare la quantità di materia narrata nel film, moltiplicare le fonti nella ricerca di un'uscita. Il meccanismo esattamente opposto a quello di Panahi, che invece tende ad appiattire in un'unica tipologia di racconto e ad omologare le "narratrici", quasi che ambientando in pianura la storia, questa non riesca più a darsi diversi livelli, ma venga compressa, schiacciata.

È questo accanimento a risultare sospetto, sembra che l’autore sfrutti ogni strumento per ribadire un unico concetto e così facendo non prevede una ribellione, e nemmeno l’idea che possa esistere qualcosa di diverso a qualunque età per una donna: da neonata, adulta, bambina impossibile da mantenere (toccante più di altre sequenze, delle quali si coglie esplicitamente il manierismo della "ricostruzione" della realtà, probabilmente perché la paura di essere abbandonati è universale, mentre quella di venire ripudiate o lo sgomento di fronte al bisogno di abortire è solo femminile): sarà sempre caratterizzata dalla condizione di reclusa. Infatti la battuta più rimarcata dal tono e dalla sospensione successiva è: "Sei cambiata tantissimo", e non è un complimento.

La descrizione della realtà si stempera in situazioni al limite dell'apologo poetico e anche la coazione a ripetere connaturata al cinema iraniano e simboleggiata dalle due comunità descritte (di anziani l'una e di bambini l'altra: entrambe destinate a fare gli stessi gesti e la stessa vita e morte), quasi a voler perpetuare anch'essa come Panahi le condizioni di esistenza sono attraversate dagli interventi di questi angeli con la lavagna, che riempiono di speranza anche quando perdono le ali: forse riusciranno a riscattare questa umanità dolente sotto fardelli di ignoranza.