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Summer of Sam
Anno: 1999
Regista: Spike Lee;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 08-12-1999


Summer of Sam

SUMMER OF SAM

SoS


Regia: Spike Lee
Sceneggiatura: Victor Colicchio, Michael Imperioli, Spike Lee
Fotografia: Ellen Kuras
Musica: Terence Blanchard
Interpreti:John Leguizamo, Adrien Brody, Mira Sorvino, Jennifer Esposito, Michael Rispoli, Saverio Guerra, Brian Tarantino, Al Palagonia, Ken Garito, Bebe Neuwirth, Patti LuPone, Mike Starr, Anthony LaPaglia, Roger Guenveur Smith, Ben Gazarra, Joe Lisi, James Reno, Arthur Nadcarella, John Savage, Jimmy Breslin, Michael Badalucco, Spike Lee
Produzione: Jon Kilik, Spike Lee
Provenienza: USA
Anno: 1999
Durata: 136 min.




La sindrome del quarantenne, particolarmente attiva presso i registi, prevede di volgersi indietro ai propri anni di formazione per individuare episodi, suggestioni, atteggiamenti, significativi per la storia personale dell'autore, e proporli come rito collettivo illuminante. Normalmente si tratta di situazioni, contingenze, eventi che marcano un confine, segnano una barriera e quale anno può risultare migliore del '77 per riassumere in sé il punto di non ritorno per gli attuali quarantenni? Trasgressione, gusti musicali contrapposti, ultimi scampoli di ribellione, appartenenze a gruppi esclusivi molto connotate culturalmente. Spike Lee si accorge del trappolone emotivo e cerca di prendere le distanze dall’epoca incorniciandola tra due interventi di un giornalista, chiamato ad evocare l’anno-evento per eccellenza in tutto il mondo in questo scorcio di millennio; lo fa riprendendo la sua vecchia maniera, risalente a Lola Darling, quel parlare in macchina mentre alle spalle si muove qualcosa che finirà con emergere e riempire il quadro.
In questo caso a colmare lo schermo è innanzitutto la disperazione del protagonista fittizio, che sbuca dai quotidiani autentici riproposti nella classica veste ‘40s a tutto schermo (godibile soluzione quella che usa prime pagine di giornali newyorkesi per elencare il cast nei titoli di coda: da non perdere, accodandosi all'incivile pratica di andarsene a film in corso): il serial-killer psicotico che soffre delle sue allucinazioni e viene ripreso solitario in una camera fatiscente, oscura e decorata di scritte, mentre prende a capocciate il cuscino; successivamente la pena che il suo dolore produce attraverso il breve inserto sarà un po’ rovinata dalla grottesca attribuzione dell’ordine di uccidere proveniente dal cane, reincarnazione di Cujo più che di Belzebù. Ma subito dopo la scena è stipata di musica: quello è il vero segno identificativo dell’epoca e degli ambienti attraversati dalla cinepresa, che precede gli attori negli spazi e quindi anticipa con la banda sonora quello che ci aspetta, senza soluzione di continuità, come nei mixaggi delle radio d’epoca (oggetto di studio già nel lungo piano sequenza all'inizio di Do the Right Thing), i brani segnano i limiti tra territori diversi delle singole comunità: precisa risulta la ricostruzione dell’ambiente del CBGB, che a dispetto del nome ospitava punk-concerts; altrettanto degno di rilievo nell’altro campo lo studio filologico dei movimenti di macchina e della tecnica di ripresa dei film travoltini per il primissimo ballo in cui si gettano Vinny e Dionna.




Un po’ ripetitivi invece gli intrecci tra l’italo-americano e il maniaco, forse utili per dimostrare una comunanza di disturbi psichici legati alla sfera sessuale – disease di cui la tradizione parafascista della comunità italo-americana è sicuramente sofferente: parallelismo che culmina in una sequenza orgiastica realistica e al contempo in grado di rendere plausibile la presa di coscienza della bella moglie riguardo alla propria sessualità (dopo essere stata presa sotto gli occhi del marito macho incapace di soddisfarla), funzionale a richiamare l’apporto fondamentale dato dal femminismo alla costruzione della società di quegli anni. Molto più pleonastica la figura affidata a Ben Gazzara, parodia di personaggi coppoliani, che non aggiunge nulla e risulta stucchevole e inutile all’economia del già lungo testo, nonostante una serie di siparietti a lui dedicati, pregevoli per l’atmosfera ironica ricreata in essi.
Interessante invece la collocazione in garage del punk, anch’essa frutto di uno studio dei comportamenti giovanili scatenati dal movimento punk neonato allora ed ora nuovamente oggetto di attenzione dei giovanissimi.

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Può gettare una luce particolare sul film il fatto che i discorsi rubati alle vittime poco prima di essere freddati dal maniaco vertessero sempre su piani per il futuro, come se una vendetta terribile e più forte di tutto abbia voluto estirpare quell’ideale futuro vagheggiato dai singoli in un’epoca che aveva saputo preconizzare bisogni e anche cercato di realizzarli: una potenza estranea armata dalla peggiore reazione ha falciato via le speranze di una generazione e Spike lo mette in scena attraverso la cancellazione degli individui presentati come macchine desideranti. Ma persino la coppia tipica si sfascia, lasciando solo macerie di quello scoppio di voglia di vivere con cui inizia il film; prolessi di questa lettura amara sono i cartelli "dead end" che costellano le discussioni della comunità più retriva, quella dei bianchi italo-americani. I rivali da sempre odiati da Spike sono stavolta i protagonisti, per i neri è ritagliata una piccola sequenza in cui, sempre con il metodo delle interviste curate tra l’altro da lui stesso (e quindi riassunto del messaggio a cui più tiene il regista), ci informano di dissapori con l’intervistatore accusato di non farsi vedere tanto nel quartiere, preferendo la compagnia dei bianchi. Poi alla comunità afro-americana è riservato l’omaggio alla rabbia scatenata nel saccheggio durante il black-out: momento di massima espressione della ribellione fino a quel momento soffocata.




Il cambiamento costante di registri stilistici – che alternano l’inchiesta di mezzi busti in primo piano frontale alla ricostruzione di locali per il divertimento e di atteggiamenti girati per lo più in totale, inserendo parodie e alternandole con la martellante ossessione del maniaco ripresa con camera a mano, fingendo strette soggettive improbabili e vagheggiando presenze demoniache – costituiscono un puzzle, che si prefigura l’intento di compendiare un mondo perduto, gravitando attorno ad un momento brevissimo nella descrizione della lunga estate calda, uguale a tutte le bollenti atmosfere di Lee, e ad un numero: il saccheggio catartico e il "44". Attorno a questi due elementi sembra inanellarsi il film: il calibro della pistola coincide anche con la maglia del giocatore nero ricorrente nell’immaginario di tutti, l'unico punto di contatto per ogni newyorkese, l'ultimo; il saccheggio invece è il climax a cui arriva una sola comunità esasperata, mentre l’altra (quella barbara e fascista) non riuscirà a far altro che organizzare una squallida squadraccia e massacrare un suo componente, individuato come diverso a seguito di pregiudizi palesati come tali dalla cattura del vero killer. Il regista fa fungere da testimone della inadeguatezza dei criteri italo-americani al maniaco catturato: il suo sguardo attonito dietro i finestrini dell’auto della polizia è il massimo atto di accusa contro la violenza e il tradimento insito nella sequenza alternata dei "mangia-spaghetti", di cui evidenzia le basi malate non tanto nel boss da barzelletta, quanto nel barista che accetta l’intolleranza degli avventori e scaccia Ritchie, il punk che sta con la bella del quartiere e fa spettacolini per omosessuali: il serial killer agiva per un disturbo psichico, il branco invece agisce per incapacità di analizzare la decadenza e obsolescenza dei propri condizionamenti culturali di fronte alla trasformazione post77, che fa giustizia di tutte le inibizioni, delle regole fallocratiche di Vinny e dei rituali del suo gruppo di integralisti.

Sulle note di Tommy si festeggia in un tripudio di montaggio l’arresto del killer, ma non la fine di un incubo: nulla sarà più come prima, ma ribadirlo, seppure non esplicitamente, è compito del giornalista, ripescato nel finale per ottenere una confezione ad anello che racchiuda l’estate e insieme al passato custodisca il momento di passaggio dall’età dell’innocenza al livore della diversità dei mondi impermeabili ognuno alla sua musica e ai suoi miti: infatti l’ultima inquadratura devota va al giocatore n° 44, beniamino universale.
Siamo di nuovo di fronte al fuoricampo tirato in Underworld di DeLillo: chissà che ripartendo da lì non si riesca a ricomporre una possibile convivenza.

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